Gli Smeraldi e lo Zaffiro

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    "Se fuggire fosse una soluzione, io sarei fuggito da te già da tanto tempo"

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    Capitolo 9°: Ponti col passato


    1608625954653capitolo_9



    Galoppate veloci, cavalli dai piedi di fuoco. Alle case del sole.
    Un cocchiere come Fetonte vi avrebbe già spinti a frustate verso l’Occidente
    e già avrebbe riportata qui la fosca notte.
    Stendi le tue dense cortine, notte propizia all’amore,
    a chiudere le palpebre del giorno fuggitivo;
    così volerà il mio Romeo tra queste braccia,
    non visto e non fermato da nessuno.
    A illuminare i riti amorosi degli amanti,
    basta la luce della loro bellezza;
    ché se l’amore è cieco, la notte è il suo elemento.
    Scendi, notte cortese, sobria matrona vestita di nero,
    e insegnami a perdere una partita in vantaggio,
    dove sono in gioco due intatte verginità.
    Copri col tuo mantello nero il mio sangue selvaggio
    che mi assale la guancia:
    il mio timido cuore, fatto audace,
    senta semplice e puro l’atto sincero d’amore.
    Vieni, o notte; vieni, Romeo: vieni tu, giorno nella notte
    che sulle ali della notte sarai come fiocco di neve fresca
    sul dorso di un corvo.
    Vieni, notte gentile, vieni amorosa notte dalle nere ciglia;
    portami il mio Romeo *



    Andrew House,
    Chicago, Illinois

    20 agosto 1919


    Nella delicata penombra che avvolgeva languidamente la camera da letto come un manto serico, Terence si sollevò dal materasso appoggiandosi su un braccio. Tra le cortine che schermavano la portafinestra filtrava un’unica lama di sole, che tagliava con decisione tutta la stanza terminando la sua corsa sul fondo del letto matrimoniale. Lì, tracciava con precisione una netta e sottile striscia luminosa sul candore niveo delle lenzuola e del copriletto bianco.
    Terence si appoggiò allo schienale imbottito, come sempre prendendosi qualche istante per passare dal sonno alla veglia e per ricomporre i contorni dell’ambiente circostante, ancora poco familiare nonostante vi avesse trascorso l’ultimo mese. Quando la consapevolezza si fece strada tra le nebbie del sonno, sulle sue labbra si formò il sorriso anticipatore della scena che si sarebbe offerta al suo sguardo non appena si fosse voltato. Lo fece e, sebbene fosse preparato, come sempre il suo cuore fece un consistente balzo nel petto nello scoprire che Candy era ancora lì, vicino a lui. L’atavica insicurezza e l’intima convinzione di non meritare alcuna felicità non avevano ancora aperto del tutto la presa con cui gli artigliavano il cuore, sebbene giorno dopo giorno sua moglie la stesse allentando con le sue carezze e la sua costante presenza al suo fianco.
    Lei era prona, un braccio ripiegato sotto il cuscino e l’altro disteso lungo il corpo nudo, coperto dalla vita in giù dall’impalpabile lenzuolo di finissimo lino, talmente lieve da seguire perfettamente la forma esile e morbida della curva dei fianchi e delle gambe snelle e, lungi dal nasconderla, evidenziarne invece l’armonia. Il capo era voltato nella direzione opposta a quella da cui Terence la fissava amorevolmente, e lo spazio tra loro due era riempito dalla cascata di riccioli biondi sparsi sulla spalla della ragazza e sul letto, che le lasciava scoperta la schiena dal colorito latteo e dalla curva seducente che si alzava e abbassava dolcemente, al ritmo lieve del suo respiro.
    Come sempre, di fronte allo spettacolo offerto dal corpo della moglie, innocente e sensuale in un ossimoro apparentemente impossibile ma che in lei trovava perfetta espressione, Terence si sentì fremere dal desiderio che lei accendeva immancabilmente con la sua sola presenza. Con un lampo negli occhi blu, parzialmente ombreggiati dai capelli scuri che gli ricadevano scarmigliati sul volto dopo la notte di passione, Terence risentì sotto le proprie dita la sensazione trasmessagli da ogni centimetro di quella pelle setosa che aveva adorato con le mani e le labbra solo poche ore prima, e gli sembrò di avvertire ancora il contatto con il suo corpo arrendevole ai baci e tremante di desiderio sotto di lui, la testa reclinata all’indietro e le labbra socchiuse, incorniciate da una cascata di capelli dorati mentre si perdevano l’uno nell’altra.
    I ricordi di quella e di tutte le altre notti che l’avevano preceduta dal giorno del matrimonio erano talmente vividi da stordirlo con la loro potenza, accendendolo di nuovo desiderio e di gratitudine per il dono meraviglioso che era diventato la sua vita, al posto dell’immane fardello che era stato solo fino a pochi mesi prima.
    Terence si trattenne a stento dallo svegliare la moglie, lasciandole una scia di baci e di carezze lungo la schiena che lei gli offriva con inconsapevole sensualità, ansioso di condividere ancora una passione apparentemente inesauribile. Ma era consapevole che l’intensità della notte appena trascorsa meritava un’ulteriore dose di riposo. Quindi si limitò a fare scorrere le dita attraverso la profumata matassa color grano morbida e lucente al suo fianco e poi, con riluttanza, lasciò il letto per dirigersi nello spogliatoio, coprirsi e tornare nel mondo reale che, per almeno altre quindici interminabili ore, lo avrebbe tenuto lontano da una nuova appassionata notte con sua moglie.

    Lavato, vestito e pieno di energia positiva, Terence fu come di consueto il primo a giungere nella grande sala da pranzo già apparecchiata per la colazione.
    Sebbene i demoni delle sue notti fossero battuti rapidamente in ritirata di fronte alla luce portata da Candy nella sua vita, come vampiri di fronte ai raggi del sole, le sue giornate cominciavano ancora molto presto, abitudine che gli consentiva di godere di preziosi momenti di solitudine in quella casa affollata. Annie e Archie avevano a Andrew House la loro residenza abituale e, ovviamente, quando era in città Albert ne assumeva di diritto il ruolo di padrone di casa. A Josephine era stata assegnata la suite più bella tra quelle dedicate agli ospiti, mentre Candy non aveva voluto rinunciare alla propria vecchia camera che, con qualche aggiustamento, era diventata una stanza matrimoniale.
    All’inizio Terence non era stato entusiasta di dovere dividere l’intimità della vita coniugale con tutta quella folla ma, conoscendo il legame di Candy con la sua famiglia e i suoi amici, non aveva avuto cuore di privarla di quell’ultima estate con loro, ben sapendo quale enorme sacrificio rappresentasse per lei abbandonare per sempre quei luoghi tanto cari per trasferirsi definitivamente a New York con lui, a quasi un giorno e una notte di viaggio da tutti i suoi cari.
    E tutto sommato doveva ammettere che quella dimora era talmente vasta da consentirgli di defilarsi ogni qual volta Candy veniva rapita da Annie e Josephine, con la quale aveva bruciato le tappe per costruire una sincera e solida amicizia. Lo stesso Terence era rimasto piacevolmente affascinato da quella esotica creatura, con tutta evidenza lontanissima dai fasti aristocratici degli Andrew, ma con altrettanta chiarezza, grazie alla propria energica solarità, più a proprio agio con tutti loro di quanto lui stesso sarebbe mai stato.
    Ormai, comunque, quella prima estate della loro vita insieme era praticamente terminata e tra meno di un mese la giovane coppia avrebbe lasciato definitivamente Chicago; Terence era atteso a Broadway dalle prove per il Romeo e Giulietta che quell’autunno avrebbe aperto la stagione teatrale allo Stratford Theatre, mentre Candy avrebbe iniziato a collaborare con il Roosevelt Children’s Asylum da ottobre.
    Versandosi una seconda dose di caffè bollente nella tazza, Terence si voltò per guardare il sole che saliva a illuminare casa Andrew, stupendosi ancora una volta della vastità della tenuta e del giardino, declinante in aiuole fiorite perfettamente curate fino alle rive del lago Michigan, dove spesso lui e Candy avevano trascorso lunghi pomeriggi seduti sul prato a leggere, chiacchierare, fare il bagno, fare l’amore (talvolta entrambe queste due ultime cose contemporaneamente) e semplicemente a essere felici.
    Non avrebbe potuto dire che la vita con lei fosse esattamente come l’aveva sempre sognata, solo perché non aveva mai osato sognarla, durante quel tormentato passato in cui il destino si era baloccato con i suoi crudeli giochi con lui, fino a persuaderlo che mai nessuna gioia avrebbe potuto spezzare la catena di rinunce e abbandoni che avevano costellato la sua vita.
    Quelle ultime settimane erano state (se mai ve ne fosse stato bisogno) la conferma della infinita comprensione e comunione tra loro, sopravvissuta persino ai lunghi anni di lontananza e silenzio e adesso alimentata viepiù da una costante curiosità nello scoprire ogni nuovo tratto l’uno dell’altro, essendo stati privati per tutti quegli anni della condivisione della quotidianità. Così, Candy era rimasta sorpresa e imbarazzata nello scoprire che suo marito amava dormire completamente nudo (anche se aveva fatto altrettanto presto ad apprezzare i vantaggi che derivavano per lei stessa da tale abitudine) e Terence aveva imparato che a Candy piaceva mangiare la torta al cioccolato partendo dalla base, anziché dalla parte superiore, lasciandosi per ultimo il piacere avvolgente della glassa cremosa, mantenendone il più a lungo possibile il sapore in bocca.
    La cosa più straordinaria per Terence era stato sentire rinascere in lui tutte quelle passioni il cui piacere si era attenuato fino a scomparire negli ultimi anni, fagocitato e risputato via dalla rabbia, dalla frustrazione, dal rimpianto che avevano soffocato in lui ogni stilla di entusiasmo, tranne che per il teatro. Terence aveva così ad esempio ripreso a suonare il pianoforte ed era solito trascorrere lunghi pomeriggi nella sala della musica con Candy, suonandole i pezzi che lei amava di più e intervallandoli con le tormentate e difficilissime arrampicate sugli impervi accordi del suo amato Rachmaninov. Avevano anche ripreso le lezioni iniziate durante la loro magica estate in Scozia, in quella sala della musica di Granchester Manor che aveva visto crescere, più che il limitato talento di Candy per le sette note, il loro amore.
    Ovviamente la fornita biblioteca di Andrew House era un’altra delle stanze preferite del giovane, che amava trascorrervi il suo tempo sprofondato nell’enorme poltrona di velluto verde, immerso nella rilettura del suo amato Shakespeare ma anche di classici vecchi e nuovi della letteratura abbandonati da tempo, come Dumas e Hugo, Scott, Oscar Wilde ed Henry James. Spesso, mentre era assorto nella lettura, Candy si accoccolava ai suoi piedi e scorreva la sua fitta corrispondenza sul tappeto, appoggiata alle sue gambe, ciascuno immerso nel proprio mondo, ma senza mai perdere la loro connessione.
    Gli sembrava di non avere tutto quel tempo a disposizione per godere delle proprie passioni da... da mai. Ed era piuttosto stupefacente, pensandoci, perché faceva di tutto per trascorrere la maggior parte delle sue giornate accanto alla moglie, nella cui traiettoria gli piaceva orbitare, mai troppo lontano da non poterle strappare un bacio nell’esatto momento in cui il desiderio ne saliva alle sue labbra, o semplicemente intercettarne lo sguardo, consapevole che fin troppo presto la routine quotidiana newyorkese, fatta per lui di prove teatrali e per lei dei suoi nuovi impegni lavorativi, avrebbe diradato il tempo da trascorrere insieme.
    Terminato il caffè, Terence lanciò uno sguardo all’orologio a pendolo appeso di fronte a lui. Le sette e trenta e ancora nessuno faceva la sua comparsa. Ne avrebbe approfittato per andare a fare una cavalcata intorno al lago, sperando al rientro di trovare la moglie ancora a letto, per svegliarla prendendola tra le braccia e portarla sotto la doccia insieme a lui...
    Stava indugiando in queste piacevoli visioni anticipatrici, quando in sala da pranzo entrò George, l’unico uomo della casa con orari più antelucani dei suoi, sebbene Terence non avrebbe saputo dire dove (e se) dormisse e non avesse idea di come accidenti facesse ad aggirarsi felpatamente per casa senza produrre il benché minimo rumore, sembrando semplicemente volteggiare a pochi centimetri da terra.
    - Buongiorno Mr. Terence – lo salutò l’uomo con deferenza.
    Terence alzò gli occhi al cielo, avendo ormai rinunciato, dopo molteplici tentativi, a farsi chiamare solo col nome di battesimo da quell’incredibile uomo, che a suo parere doveva essere nato già adulto. In realtà era certo che si fosse adattato con sofferenza a non chiamarlo “Mr. Granchester” o, Dio non volesse, “Sig. Marchese”; e solo in considerazione del fatto che aveva visto crescere sua moglie.
    - Buongiorno, George! Come sta oggi?
    - Molto bene, grazie, Mr. Terence, e lei?
    Terence represse a stento un sorriso di enorme divertimento. Sembrava incredibile, ma in quella casa aveva trovato probabilmente l’unico essere umano più riservato di lui!
    - Ottimamente, George. Ottimamente davvero! Stavo per andare a fare una cavalcata nel parco. Vuole accompagnarmi? – chiese, per il semplice gusto di metterlo in imbarazzo.
    Lo sconcerto infinito dell’uomo di fronte a tale inconcepibile possibilità si manifestò con grande evidenza nell’impercettibile fremito che mosse un angolo della sua bocca. Doveva essere stato colto davvero di sorpresa, valutò Terence dall’intensità della reazione, trattenendosi a stento dallo scoppiare a ridere.
    - No, grazie, signore. Purtroppo ho degli affari da sbrigare per conto di William con una certa urgenza... – rispose elegantemente George prima di proseguire – ...in realtà la cercavo per consegnarle questa: è arrivata ieri con la posta della sera ma lei e Miss...Mrs. Candy siete rientrati piuttosto tardi dal teatro e non sono riuscito a consegnarvela prima.
    Così dicendo, George porse a Terence una busta spessa che lui riconobbe alla prima occhiata, attendendola peraltro con ansia.
    - Grazie George – disse Terence prendendo la busta dalle sue mani – allora, per la nostra cavalcata: cercheremo di farla domani!
    - È stato un piacere esserle utile, Mr. Terence. Temo che anche domani i miei impegni mi impediranno però di condividere con lei il piacere di una cavalcata mattutina. E adesso, se vuole scusarmi... – si congedò George, prima di lasciare la stanza fluttuando silenziosamente sul pavimento.
    Terence lo seguì con lo sguardo e con le sopracciglia inarcate per l’ilarità, finché si fu chiuso la porta alle spalle, e poi finalmente posò lo sguardo sull’intestazione della busta:
    “Paradine, Mc Govern & Partners”
    Con un eccitato pugno sul tavolo Terence si lasciò sfuggire un:
    - Sì!
    E si accinse ad aprire la busta, immaginandone però già il contenuto.
    Un sorriso di soddisfazione gli illuminò il viso mentre scorreva le carte. Sembrava proprio che per quella mattina non sarebbe andato a cavalcare: doveva intercettare Albert e parlargli al più presto.

    Albert era comodamente adagiato sulla sua panchina prediletta in giardino, quella che guardava verso il suo scorcio di lago preferito, intento a godersi il sole estivo prima che diventasse troppo caldo e immerso nella lettura del suo giornale mattutino, quando vide Terence avvicinarsi a lui sul vialetto, vestito di tutto punto con pantaloni bianchi di lino e una camicia leggera blu scura. Era evidentemente sveglio da un bel po’, nonostante fossero solo le otto e trenta.
    L’amicizia tra i due uomini era rifiorita solida più che mai, come se non fossero trascorsi sei anni dai giorni condivisi in Inghilterra. Terence aveva confermato tutte le potenzialità che Albert aveva scorto in lui, andando oltre l’apparenza fornita dalla prima immagine che il giovane amava allora esibire: quella di un ricco rampollo dell’aristocrazia inglese viziato e annoiato dai suoi stessi privilegi, dedito a bruciare gli anni migliori della propria vita tra alcol, risse e disprezzo per tutto e tutti. L’uomo non nutriva dubbio alcuno circa il ruolo determinante giocato da Candy nel cambiamento e nella maturazione di quell’adolescente che, forse, se non avesse incontrato la sua dolce piccolina e non se ne fosse innamorato, sarebbe stato risucchiato dai suoi eccessi fino al punto di non ritorno.
    E Candy aveva compiuto il miracolo con lui non una, ma due volte; la seconda delle quali quando lo aveva riacciuffato per i capelli a Rocktown, dove proprio Albert l’aveva mandata con un espediente, avendo compreso la gravità della situazione in cui versava il ragazzo e come solo Candy avesse il potere di salvarlo da se stesso.
    Guardandolo adesso, sereno e realizzato professionista e artista sensibile e talentuoso, marito felice e innamorato, non poteva non provare un moto d’orgoglio per ciò che, anche grazie a lui e alla sua Candy, quel giovane era riuscito a realizzare partendo dai tormenti della propria adolescenza.
    - Buongiorno Albert!
    - Ciao Terence, mattiniero come al solito!
    - Già, mi piace godermi la casa prima che quel damerino di tuo nipote la invada con la sua sgradita compagnia – rispose Terence con un ghigno.
    - Credo proprio che lui scelga di trattenersi più a lungo in camera sua proprio per motivi speculari ai tuoi, caro amico... Non riuscirete mai a piacervi l’un l’altro, non è vero?
    - Diciamo che avendo sposato due quasi-sorelle saremo costretti a fare buon viso a cattivo gioco e sforzarci di trovare tollerabile ciascuno la presenza dell’altro, ma non posso dire che sia esattamente la persona che io preferisca al mondo.
    - Solo perché non vuoi andare oltre questa tua sciocca gelosia nei suoi confronti che ormai affonda le radici in un passato lontano e decisamente superato. Archie è molto cambiato: è diventato un validissimo supporto per me alla Andrew Enterprises, un marito affettuoso per Annie e un padre amorevole.
    - Un uomo perfetto, insomma, che non intendo sporcare con le vistose macchie della mia imperfezione. Per questo mi tengo alla larga da lui! – commentò Terence con un retaggio della vecchia impertinenza che strappò un sorriso ad Albert. Quest’ultimo decise che le parole pronunciate dall’amico gli fornivano il giusto appiglio per aprire l’argomento che gli stava a cuore e che da diversi giorni intendeva approcciare con lui.
    - Se Archie non fosse diventato l’uomo maturo e il dirigente d’azienda affidabile che è oggi, non avrei mai potuto neanche lontanamente prendere in considerazione l’idea di trasferirmi in Europa, lasciando a lui la guida dei nostri interessi qui in America.
    A quella eclatante rivelazione, fatta cadere dall’amico con non chalance nella conversazione, Terence si immobilizzò, congelando il sorriso rilassato che aleggiava sul suo viso e fissandolo intensamente.
    - Cosa hai detto, Albert? – chiese con tono vibrante e le antenne tese.
    Albert si alzò dalla panchina, unendo le mani col giornale dietro la schiena e gli disse con tono gentile e fermo:
    - Vieni, Terence, camminiamo un po’.
    Terence capì che, essendo andato a cercare Albert per parlargli di ciò che gli stava a cuore, sarebbe stato lui il destinatario di una confessione che avrebbe potuto cambiare le loro vite per sempre. Sospirando, mise le mani in tasca e si accinse a camminare lungo i viali del giardino, ormai illuminati dal pieno sole mattutino, a fianco del vecchio amico.
    - Vedi, Terence, è da un po’ che cerco il momento giusto per parlarti di questa faccenda – esordì Albert con tono serio ma sereno, lo sguardo limpido di chi ha riflettuto a lungo sul modo di dare voce a un pensiero – visto che credo sia importante che tu lo sappia prima di Candy, per aiutarla ad affrontare il futuro.
    Terence annuì senza interrompere il flusso di parole, che riprese quasi subito.
    - Credo che nessuno capirà meglio di te quanto sto per dire, amico mio. Perché quando ti parlerò di non rinnegare sé stessi, di prendere decisioni difficili per inseguire i propri sogni, di scegliere la strada più corretta per sé e per la persona amata... sì, io credo proprio che tu capirai ciò di cui sto parlando.
    Terence non disse nulla, aspettando di essere messo a parte dei pensieri di Albert e immaginando che l’amico probabilmente stesse sistematizzando quelle sue riflessioni in primo luogo per se stesso e poi per lui.
    - I mesi trascorsi a Parigi sono stati determinanti per me, Terence. In primo luogo, inutile che te lo dica, perché ho conosciuto la donna della mia vita... e so che quando uso queste parole nessuno meglio di te è in grado di attribuire loro il significato più giusto, quello letterale. Per me non vi è nessun’altra prima e non vi sarà nessun’altra dopo di lei... – Albert fece una pausa prima di riprendere – ...ma vivere in quella città così libera, elettrizzante, anticonformista, un capolavoro d’arte a cielo aperto, una città dove sta succedendo qualcosa di grande, credimi, mi ha fatto ricordare che tipo di uomo io desidero essere. Cosa di cui mi stavo colpevolmente dimenticando, completamente assorbito dal debito d’onore che credevo di avere con la mia famiglia.
    - L’onore... – mormorò Terence senza guardarlo, riuscendo a instillare in quelle tre sillabe tutta la rabbia e l’impotenza di anni di dolore auto-inflittosi.
    - Sì, amico mio. Quando sono rientrato in seno alla famiglia, dopo la mia amnesia, ho avuto come la sensazione di essere in debito con tutti. Con la zia Elroy e George, per avermi permesso di vivere una giovinezza spensierata e al riparo dalle responsabilità e dagli oneri legati alla mia posizione di erede-bambino: è stato infatti grazie alla loro pazienza se avevo potuto dedicarmi per molti anni alle mie vere passioni, gli animali, la natura... il mondo. Con Candy, per avermi aiutato a uscire dal baratro della perdita della mia memoria e, in definitiva, della mia stessa identità. In generale con tutta la mia famiglia, che ho abbandonato per quasi trent’anni al proprio destino, senza una guida e senza un punto di riferimento, ciò che il mio nome mi chiamava ad essere. E così, ho annullato me stesso per dedicarmi interamente a ripagare il mio debito di riconoscenza verso tutti quanti. Ma sai una cosa, Terence?
    - Questo non ti ha fatto sentire per niente meglio... – concluse Terence con un’amara affermazione, ben lungi dall’essere una domanda.
    - No, ovviamente. Anzi, al posto del debito di riconoscenza ho cominciato a vantare un credito di felicità. Perché, come tu ben sai, amico mio, rinunciare ad essere sé stessi è un delitto che facciamo verso di noi, uccidendo la parte migliore della nostra anima... e solo sotto il cielo rosato di un’alba parigina, guardando la Senna scorrere placidamente sotto i miei occhi, ho capito che nessuna di quelle persone per le quali mi ero sacrificato avrebbero voluto questo per me. Ho capito che non c’era un merito speciale nell’avermi lasciato essere quello che sono e che non dovevo saldare alcun conto per questo.
    Terence non poté non ammirare Albert che, nel suo modo sereno e pacato, era giunto in due mesi alle conclusioni che lui aveva dovuto dolorosamente arpionare dopo anni e anni di un sofferto e doloroso viaggio dentro se stesso. Invidiò, non per la prima volta, la saldezza d’animo e la rettitudine morale dell’amico, al quale era sempre più grato per la stima che gli dimostrava nel condividere con lui quelle confidenze.
    - Ovviamente, ormai è impensabile tornare alla vita errabonda di un tempo, anche se devo dire che se solo lo proponessi a Josephine, probabilmente ne riceverei in cambio un’entusiastica adesione... – Albert si fece sfuggire un sorriso divertito – ma non è troppo tardi per rompere le catene del dovere e dell’obbligo e darmi una seconda occasione di essere me stesso, nella città e con la donna che mi hanno fatto ricordare chi sono.
    I due uomini, camminando immersi nella propria fitta conversazione, erano giunti in riva al lago, dove Terence si fermò di fronte all’amico e fissandolo negli occhi gli disse, mettendo nella sua voce l’intensità dei pensieri che lo attraversavano in quel momento:
    - Le seconde opportunità sono doni preziosi, Albert. Non lasciartela sfuggire.
    Albert sorrise. Era certo che Terence avrebbe capito. Lo abbracciò con trasporto e il giovane rispose al suo abbraccio con l’affetto fraterno e l’ammirazione che aveva sempre nutrito per l’amico.
    - Grazie amico mio! – esclamò Albert con sincera riconoscenza.
    Poi, sciogliendo infine l’abbraccio, si fece di nuovo serio mentre Terence anticipava il logico proseguimento e la naturale conseguenza delle rivelazioni appena condivise con lui:
    - Ovviamente Candy sarà addolorata della tua scelta. Era già desolata al pensiero di vivere a New York, sapendoti a Chicago. L’idea di avere un oceano a dividervi sarà difficile da accettare per lei.
    Albert sospirò. Certo che sapeva che la sua piccolina avrebbe sofferto! Ci aveva pensato a lungo e, se in tutti quegli anni non aveva mai neanche lontanamente preso in considerazione l’idea di allontanarsi da Chicago, era in primo luogo per lei. Starle vicino quando il dolore per la separazione da Terence sembrava soffocarla ogni giorno, era stato naturale.
    Ma adesso c’era Josephine e, a Dio piacendo, presto ci sarebbe stata una famiglia che avrebbe voluto far crescere libera dalle costrizioni asfissianti della Andrew Enterprises, che fagocitava tutte le sue energie. Certo, non aveva intenzione di sparire di nuovo dalla circolazione, come aveva fatto quando era partito per gli sterminati altipiani dell’Africa senza pensarci due volte. Da Parigi avrebbe continuato a seguire gli affari di famiglia da una delle due sedi europee e a tenersi in contatto con Archie e Vincent, ai quali affidava gli interessi Andrew negli USA con la massima fiducia. George avrebbe scelto se restare a Chicago o seguirlo in Europa, con la massima libertà.
    Ma per Candy era diverso. Loro due erano come due facce della stessa medaglia e in tutti quegli anni erano stati il sostegno e la forza l’uno dell’altra. Separarsi sarebbe stato per entrambi come perdere un arto, un pezzo del proprio corpo. Un’ipotesi inconcepibile, un dolore troppo grande per lei.... se adesso non avesse avuto Terence al suo fianco.
    - Terence, ricordi quando partii per l’Africa? Lo feci perché sapevo che c’eri tu con lei a prendertene cura e ad amarla con la stessa attenzione, se non di più, di quella che avrei avuto io se fossi stato lì con lei. I fatti mi hanno dato torto e il mio fu un colossale errore di valutazione, perché allora eravate entrambi troppo giovani per assumervi una tale responsabilità... ma d’altra parte, chi avrebbe mai potuto immaginare che mia nipote Iriza si sarebbe rivelata una pazza psicopatica?
    Terence si sentì ribollire il sangue, come ogni volta che ripensava al suo addio alla St. Paul School, quel giorno d’autunno sotto una pioggia di foglie ramate che piovevano sul viale della scuola, come se persino gli alberi del parco piangessero inconsolabilmente insieme a lui la fine dell’adolescenza e l’addio al suo amore.
    Albert sembrò capire, perché fece una pausa per lasciargli il tempo di tacitare le sue emozioni, prima di proseguire:
    - Ora però non siete più due ragazzi, ma un uomo e una donna adulti, consapevoli dei vostri sentimenti e della vostra forza. Adesso che tu sei di nuovo al suo fianco, so che Candy sarà al sicuro per sempre, protetta nell’abbraccio confortevole e caldo del vostro amore, molto più di quanto lo sarebbe in quello del mio affetto. E questo mi dà lo slancio necessario a seguire i miei sogni. Ti affido il mio prezioso tesoro, Terence. So che nessuno ne è più degno di te.
    - Ti ringrazio, Albert. Lo farò. Non so se ne sono degno, ma so che mi sforzerò ogni giorno di esserlo.
    Albert annuì.
    - Ti chiedo solo di tenere queste mie confidenze per te, fino a quando non sarà arrivato il momento opportuno perché io parli con Candy. È giusto che lo sappia da me. Te l’ho anticipato perché voglio che tu sia preparato, per poterla meglio aiutare quando sarà il momento.
    - Certo, capisco benissimo, Albert, conta pure su di me! – sebbene Terence detestasse l’idea di nascondere qualcosa a sua moglie, capiva che era giusto fosse Albert a parlarle di questo cambiamento epocale che li attendeva.
    Erano diventati completamente adulti e le loro vite cambiavano, senza mutare la certezza degli affetti ma rimodellando il contesto attorno ad essi.
    I due uomini tacquero fissando le acque placide del lago, adesso accese sulla propria cresta da mille scintille intermittenti di luce dal sole ormai alto sulla linea dell’orizzonte. La comunione che si era creata tra loro sei anni prima, grazie al fatto di condividere l’amore che li legava, sia pure in forme diverse, al giovane scricciolo biondo che aveva portato raggi di felicità nelle vite di entrambi, si rinnovò ancora una volta sul limitare del lago Michigan, magica e silenziosa, come un filo invisibile.
    Ora che si era confidato con Terence e che il progetto che aveva fino a quel momento condiviso solo con Josephine era stato espresso ad alta voce, diventando vivo e concreto, Albert si sentiva decisamente meglio.
    - Dunque, amico mio, manca ancora del tempo perché ciò di cui abbiamo appena parlato diventi realtà. Tu e Candy sarete già a New York, per allora, e ci verrete a salutare alla partenza sventolando bianchi fazzoletti di lino e agitando la mano festosamente al nostro indirizzo... – Albert presagiva già la sensazione di libertà mista a tristezza che avrebbe provato nell’allontanarsi dalle coste degli Stati Uniti doppiando la Statua della Libertà, quell’eccitazione per l’ignoto, mista al senso di privazione dai suoi cari lontani.
    Per combattere la malinconia cambiò subito argomento, chiedendo all’amico, a sua volta perso nel proprio mondo, probabilmente intento a prepararsi al meglio a confortare Candy quando fosse stato il momento:
    - Ma tu, Terence, perché eri venuto a cercarmi questa mattina? Avevi forse bisogno di parlarmi di qualcosa?
    Il giovane si riscosse, come se emergesse da un sogno. Gli occhi blu si rianimarono improvvisamente di un baluginio di zaffiro eccitato e compiaciuto nel rispondergli:
    - Oh, sì, Albert. In effetti, volevo proprio parlarti di...

    *Romeo e Giulietta, Atto III, Scena II.

    [continua]


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    31 agosto 1919.


    La Ford T rossa sfrecciava velocemente sulla dolce curva del lungolago, lasciandosi a sinistra le acque di un azzurro intenso. In quel momento, brillavano più che mai per la polvere di diamanti sparsa dal riflesso del sole ed erano solcate in lontananza da decine di barche a vela. A destra, i prati al confine tra l’Indiana e l’Illinois offrivano la loro ultima e magnificente fioritura su un tappeto di un verde ormai cupo, quale ultimo omaggio offerto all’estate prima di chinare il capo all’autunno ormai non troppo lontano e pronto a stendere la sua pennellata di rame, rosso e oro su quel meraviglioso dipinto.
    Il drammatico impatto visivo che l’alternanza delle stagioni conferiva alla natura era una delle cose che Candy aveva sempre amato di più di quei luoghi, e uno dei motivi per i quali negli anni precedenti aveva sempre amato vivere alla casa di Pony ed a Lakewood anziché ad Andrew House. I blu lancinanti delle acque del lago in estate e i bianchi accecanti dei pendii innevati in inverno nel suo immaginario erano indelebilmente associati alle sensazioni di caldo e freddo. Mentre la primavera, con le sue fioriture multicolori, e l’autunno, con i suoi riflessi ramati e dorati, le trasmettevano un senso concreto del fluire del tempo che in città, più prosaicamente, era associato solo al cambio del guardaroba e al colore dei vestiti, sempre più tendenti allo scuro a mano a mano che il clima si irrigidiva.
    Candy chiuse gli occhi e si appoggiò più comodamente allo schienale dell’auto, lasciandosi coccolare dalle proprie sensazioni, come un gatto: l’aria pungente che le sferzava il viso mentre l’auto procedeva a velocità sostenuta; il profumo degli arbusti di cardo e degli alberi di mele nel pieno del loro splendore che le solleticava l’olfatto, stimolandole al contempo anche l’appetito al pensiero della fragranza morbida e polposa sotto i denti del frutto di cui era ghiotta; il cinguettio degli uccelli, che sembravano dedicare il loro ultimo e più accorato canto di saluto a quei luoghi, prima di lasciarli per dirigersi verso le praterie dell’Argentina e del Messico, in cerca del calore cui dedicare nuove melodie. La dolce sensazione di familiarità di quel paesaggio la avvolgeva sempre, anche in quel momento in cui teneva gli occhi chiusi, con le lunghe ciglia ad ombreggiarle lievemente le guance. Ma soprattutto, si godette l’appagante sensazione, così piacevole da provocarle un repentino tremito al ventre, simile al battito d’ali di una farfalla, di sapere che aprendo gli occhi avrebbe trovato il volto di Terence, i capelli agitati dal vento in una danza fluttuante attorno al suo volto, le mani affusolate elegantemente poggiate sul volante, un sorriso di pura soddisfazione per la vita e due macchie rubate alle pozze più profonde del vicino lago a illuminargli il viso.
    Ancora una volta, come qualche tempo prima sulla seconda collina di Pony, Candy si sentì certa che la vera felicità non fosse altro che quello: godere di un istante di solitudine, sapendo che sarebbe bastato voltare il capo ed aprire gli occhi per trovare esattamente l’unica persona al mondo che in quel momento si desidera al proprio fianco per completare il quadro. Solo dopo aver formulato tale pensiero, si concesse finalmente di aprire gli occhi per godere del suo attimo di pura felicità.
    Terence si voltò dalla sua parte e le sorrise esattamente come lei sapeva avrebbe fatto e, come sempre accadeva, per effetto di quel sorriso lei sentì le proprie labbra animarsi di una propria volontà e atteggiarsi alla stessa espressione di beatitudine del marito, in una specie di gioco o di magia, nella quale le emozioni dell’uno facevano da specchio a quelle dell’altro.
    - A giudicare dalla tua espressione, Tuttelentiggini, o stavi pensando a me o ad una fetta di cheesecake ai lamponi! – la provocò lui, lasciando la presa sul volante con una mano, irrimediabilmente attirata dalla guancia rosea della moglie al proprio fianco, in una carezza dolce che contrastava nettamente con il suo tono impertinente.
    - Se avessi avuto te per la testa, Terry, la mia espressione sarebbe stata piuttosto questa! – rispose Candy con il tono fintamente infastidito con il quale rispondeva sempre alle sue sfide e schiacciandosi il naso strabuzzando al contempo gli occhi, in una riedizione della smorfia esibita per irritarlo sul Mauritania.
    - Ah Ah Ah! – la tipica risata piena di Terence riempì l’aria, coprendo il rombo del motore – Candy, sei veramente mostruosa quando fai quell’espressione... persino Tarzan non è un soprannome adeguato a te, in questo momento.
    I due giovani risero assieme a lungo, mentre la mano di lui si posava su quella di lei poggiata sulla gamba sinistra, entrambi godendosi la reciproca vicinanza, l’amore, la vita...
    - Terry, davvero – riprese Candy, dopo un po’ – non desidero riaprire la nostra discussione, ma sono davvero perplessa per questa tua idea di comprare casa in questa zona... abbiamo Andrew House e la casa di Pony per quando vorremo lasciare New York per un po’ e venire in campagna. E uno smisurato numero di castelli e tenute tra l’Inghilterra e la Scozia, per quando vorremo cambiare fuso orario...ci serve davvero una residenza privata, qui?
    La coppia negli ultimi giorni aveva discusso a lungo, e anche in maniera piuttosto accesa come era nel loro costume, di quella bislacca idea del ragazzo. Sembrava seriamente intenzionato a fare un investimento immobiliare e, sebbene Candy supponesse che il suo lavoro di attore non avrebbe dato loro problemi economici, non avrebbe tuttavia mai immaginato che potesse permettersi addirittura l’acquisto di una villa sul lago.
    Terence le aveva però spiegato con un certo imbarazzo che l’essersi riappacificato col padre aveva portato con sè alcuni innegabili vantaggi, il primo dei quali era un fondo fiduciario aperto a suo nome presso una banca di New York che avrebbe potuto finanziare l’acquisto di tutti gli edifici del Magnificent Mile di Chicago, se solo lo avesse voluto.
    Candy aveva allora ribattuto con passione che avrebbero senz’altro potuto trovare impiego migliore per quei soldi, come ad esempio investirli in alcune delle attività filantropiche e sociali patrocinate da Mrs. Roosevelt o dagli Andrew, invece di investirli in maniera così inconcludente.
    Come sempre, ciascuno era rimasto sulla propria posizione, ma la burrasca era passata rapidamente come si era accesa, stemperando il fuoco in quello più rovente e forte del reciproco desiderio.
    - Ascolta, Candy – disse Terence scalando la marcia - te l’ho già detto, ma non credo che tu mi abbia preso sul serio: reputo questo acquisto un investimento e non una spesa! Il fatto di non dovermi ritrovare davanti la faccia di quel damerino di tuo cugino ogni volta che giro l’angolo di uno dei corridoi di Andrew House non ha prezzo, per me. Inoltre, se devo restare sveglio la notte, preferisco che sia per colpa degli strilli dei miei figli, anziché dei suoi!
    - Certo che non ti prendo sul serio se dici queste sciocchezze, Terence. Per l’amor del cielo! Tu e Archie vi sarete scambiati sì e no tre frasi biascicate a mezza bocca da quando abitate assieme, e sembrate aver perfezionato un infallibile sistema per non trovarvi mai nella stessa stanza se non in occasione dei pasti. Quanto alle veglie notturne di cui vai cianciando... – Candy fece una pausa, arrossendo per qualche immagine che le sopraggiunse alla mente e concluse pudicamente – ...non mi pare che tu non abbia apprezzato il modo in cui sono state riempite.
    Gli occhi di Terence sfavillarono e la sua mano si strinse sensualmente sul ginocchio di Candy, esattamente nel punto in cui finiva l’orlo del suo vestitino leggero color glicine, sollevandolo di pochi centimetri e provocandole un immediato brivido caldo giù per la colonna vertebrale e su per le gambe, che si incrociarono a mezza strada fondendosi nell’ormai noto languore che seguiva a ogni tocco delle mani del marito su di lei, o solo semplicemente ad ognuno dei suoi intensi sguardi.
    - Non dico di lamentarmi dei benefici di ritorno, Tuttelentiggini... Ma, ti prego, se dovrò passare un’altra estate con loro potrei impazzire.
    Candy sospirò. Le sembrava impossibile che con tutto quello che avevano passato nella vita quei due ragazzi testardi, e per tutto il resto intelligenti, non riuscissero ancora ad andare oltre un’antipatia adolescenziale che gettava le radici in motivazioni delle quali, ne era certa, nessuno dei due ricordava più le origini.
    - E vogliamo parlare di George? Mi fa paura, Candy! – rincarò la dose Terence, con un tono tanto esasperatamente piagnucoloso e spaventato da fare scoppiare a ridere sua moglie.
    - Per l’amor del cielo, Terence! spero che tu reciti meglio di così sul palcoscenico, altrimenti avremo presto un problema!
    Un nuovo ghigno irriverente accolse quella finta reprimenda. Candy aveva preso a chiamarlo col suo nome, anziché Terry, come faceva ogni volta che si fingeva irritata con lui.
    - Facciamo così, Tuttelentiggini. Te l’ho già detto: andiamo a vedere questa villa che il mio avvocato ha trovato per noi. Ho versato solo una caparra con diritto di riscatto. Se non ti piace, o non sei convinta, abbiamo ancora una settimana di tempo prima di perfezionare l’acquisto.
    - Va bene, Terry – si arrese Candy.
    Con un movimento della caviglia, Terence aprì completamente il gas dell’auto che, con un’ulteriore improvvisa accelerazione, sfrecciò ancora più rapidamente sull’ultimo tratto di strada che li separava dalla loro destinazione.

    Candy riconobbe il profumo prima ancora che i suoi occhi avessero registrato il fatto che l’auto aveva imboccato il viale di Lakewood.
    Si sollevò a sedere più eretta, immediatamente vigile e guardandosi attorno con il cuore che tambureggiava selvaggiamente nel petto, urlando di nostalgia per tutti i ricordi legati a quel luogo mentre Terence, rallentando l’andatura e guardandola di sottecchi, le consentiva di vivere quel momento sola con se stessa.
    Candy non era mai più tornata a Lakewood dai giorni del funerale della zia Elroy e della perdita dei luoghi tanto cari alla sua memoria. I luoghi in cui era stata felice, disperata, piena di vita, e poi messa di fronte per la prima volta al dolore della perdita definitiva di qualcuno cui voleva veramente bene. I luoghi in cui era uscita dall’infanzia per entrare nella vita vera. Era lì vicino che riposavano in pace Anthony e Stear, i due giovani tanto amati e che lei non era più andata a salutare, per non dover rivedere la sua amata e perduta Lakewood in cui erano stati gioiosamente insieme: giovani, vivi, pieni di speranza per il futuro...
    Nonostante la sua immensa felicità al fianco di Terence, non era ancora riuscita a riconciliarsi o ad accettare che quella proprietà, che per lei rappresentava molto di più che una semplice casa, fosse non solo perduta, ma addirittura nelle mani delle persone che più la odiavano al mondo.
    L’aria era avvolta di profumo inbriante e dai petali multicolori sparsi dalle rose al cancello, che si stavano spogliando della loro sgargiante veste estiva, preparandosi ad affrontare l’ennesima morte prima della successiva rinascita, in quel ciclo ineluttabile e meraviglioso che Anthony le aveva insegnato tanto tempo prima.
    “I fiori muoiono e rinascono ancora più belli. Le persone muoiono e rinascono ancora più splendide nel cuore di chi resta” 1
    Sentì le lacrime salirle agli occhi e, contemporaneamente, la mano di Terence tornare sulla sua, stringendola per confortarla e rassicurarla come se sapesse esattamente (cosa che in effetti era) ciò che stava provando in quel momento. Si commosse nel constatare quanto fosse cresciuto e maturato il ribelle Terence, pazzo di gelosia se solo il nome di Anthony veniva pronunciato ai tempi della St. Paul School. E nel contempo si sorprese improvvisamente colpita dalla rivelazione che fin da allora era stato come se un invisibile e strano legame avesse unito l’amore della sua infanzia con quello della sua vita. Fin dal primo momento in cui i suoi occhi si erano posati su Terence, scambiandolo per Anthony.
    Quando l’auto giunse lentamente davanti al cancello e si fermò, il cuore di Candy fece un balzo e lei tornò di nuovo la tredicenne vessata dall’ennesimo crudele dispetto dei fratelli Legan, finita non si sa bene come di fronte a quell’arco meraviglioso e fiorito, e le parve di sentire la più musicale e dolce voce che avesse mai udito, quella di un ragazzo dagli occhi azzurri e con i capelli più lucenti del sole, che le si rivolgeva sorridendo:
    - Sei più carina quando ridi che quando piangi...
    Il suo Principe della Collina, aveva pensato allora.
    Il suo Anthony, il cuore chiamò in quel momento...
    Scese dall’auto, abbandonandosi al turbine del passato che le vorticava davanti agli occhi: le strabilianti invenzioni di Stear; le galanti attenzioni di Archie; il suo primo ballo; quella cavalcata all’alba con Anthony il giorno del suo compleanno, quando lui le aveva donato la prima rosa Dolce Candy... le immagini si accavallavano nella sua mente in un mosaico struggente e carico di malinconia, col quale adesso, forte della forza che le dava la presenza dell’uomo al suo fianco e di quella che le aveva trasmesso la vita, riusciva finalmente a fare i conti senza le lacrime del passato.
    Si voltò verso Terence che l’aveva raggiunta e le si era fermato silenziosamente accanto di fronte al cancello delle rose, non riuscendo a proferire parola, sommersa dall’onda delle emozioni e dei ricordi.
    Negli occhi di Candy vi era una muta domanda, la cui risposta era troppo importante perché potesse essere espressa ad alta voce. Terence ovviamente le lesse dentro, perché annuì sorridendole:
    - Ti piace la tua nuova casa, amore mio?
    Candy non disse nulla, ma in una frazione di secondo fu tra le sue braccia, aggrappata a lui come se ne dipendesse la propria vita e con il volto affondato nella setosa e profumata consistenza dei suoi capelli scuri, piangendo silenziosamente e sentendosi invadere come non mai dall’amore per quell’uomo meraviglioso, che sembrava riuscire a realizzare tutti i suoi desideri, anche quelli che non osava esprimere neanche a se stessa.
    Rimasero lì stretti l’una nelle braccia dell’altro, avvolti dal turbinio dei petali delle rose Dolce Candy fluttuanti attorno a loro come un manto.
    Come se anche Anthony - col quale finalmente Terence stesso sentiva adesso di essersi riconciliato - volesse unirsi al loro abbraccio. Ed esprimere così la propria gioia per il puro e invincibile amore che la sua dolce Candy, dopo tante avversità, aveva trovato tra le braccia dell’uomo che la cingeva saldamente.
    Proprio come una delle sue amate rose, sbocciata per tornare alla vita dopo un lungo inverno.

    [continua]


    1Candy Candy Final Story, Ed. Kappalab, Volume II, pag. 236

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    Seawood Mansion,
    Miami, Florida
    04 settembre 1919


    Caro William,
    Spero questa mia ti trovi bene.
    Abbiamo saputo dai giornali del tuo fidanzamento e non posso non ammettere il mio turbamento per non esserne stata messa a parte direttamente da te.
    Non avrei mai immaginato, cugino mio, che i dissapori del passato ti avrebbero spinto a ignorare il valore della famiglia, allontanandoci dalla tua vita fino al punto di non condividere con noi questo lieto evento.
    Non è quello che la zia Elroy si sarebbe aspettata da noi.
    Per questo motivo, per rispetto alla sua memoria, mi sono decisa a prendere la penna per scriverti, sperando che in questo modo si possa mettere una pietra sopra le incomprensioni del passato e tornare ad essere una famiglia.
    Tra due settimane daremo, presso l’ultimo nato nella nostra catena di resort a Miami Beach, un ricevimento per festeggiarne l’apertura e saremmo molto lieti se tu volessi intervenire, presentando così ufficialmente la tua fidanzata a tutti noi. Sono certa che non appena avrai avuto modo di vedere lo splendore dello “Charmant”, desidererai concorrere ai nostri prossimi investimenti nel ramo.
    Per l’occasione, ci raggiungerà anche Iriza da New Orleans. Aspetta un bambino ed è sempre più radiosa.
    Inoltre, il governatore della Florida, e nostro futuro consuocero, Sidney Johnston Catts, ha espresso il desiderio di conoscerti. Spero che non vorrai deludere le sue aspettative, che sono anche le nostre.
    Nonostante la freddezza che hai sempre riservato a questo ramo della famiglia, io rimango sempre

    La tua devota cugina
    Sarah Legan.


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    Miami, Florida,
    20 settembre 1919.


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    Un caldo umido appena attenuato da una lieve brezza estiva penetrava dalla grande porta finestra della camera d’albergo, aperta sulla magnificente potenza dell’oceano e sugli ultimi raggi che il sole elargiva prima del tramonto sulla baia di Byscaine.
    Terence, già pronto per la serata nel suo impeccabile ed elegantissimo smoking, era comodamente seduto al tavolino di vimini del terrazzo, sorbendo l’aperitivo analcolico che aveva chiesto e respirando con soddisfazione l’aria salsa proveniente dalla spiaggia, stupendosi ancora una volta della molteplicità di climi e paesaggi esibiti dalla vastità infinita degli Stati Uniti. In effetti, faceva molta fatica a credere che quel clima caldo-umido e la temperatura mite della perenne estate che riscaldava quella cittadina, in espansione ma ancora profondamente provinciale, fossero in qualche modo conciliabili con l’immagine che avevano lasciato in un Midwest già addobbato delle sue vesti autunnali, spazzato dalle prime avvisaglie di vento freddo che anticipavano il lungo inverno, con il suo carico di neve sconosciuto in Florida se non grazie a qualche pellicola in bianco e nero in uno dei nuovi cinematografi che sorgevano come funghi in ogni città degli Stati Uniti.
    Pensò anche a ciò che li attendeva a New York al loro rientro, di lì a tre giorni. Era iniziata la sua stagione preferita, il malinconico autunno dai riflessi ramati, nel quale aveva sempre scorto un perfetto riflesso della propria tristezza nei lunghi anni che avevano preceduto la sua rinascita. Spezzato l’assedio della canicola estiva che opprimeva come un coperchio rovente la città, e che quell’anno aveva volentieri lasciato agli altri newyorkesi, godendosi invece la fresca e dolce estate dell’Indiana, la grande mela concedeva il meglio di sé. Come in primavera, ma con colori completamente diversi e più vicini alla sensibilità inquieta di Terence. Le giornate si accorciavano e le mille luci della città si riappropriavano sempre più presto del loro ruolo di protagoniste nelle vie principali; in particolare di Broadway, che riapriva i battenti dopo la pausa estiva, pronta a regalare una nuova stagione di sogni e immaginifiche esistenze da palcoscenico a milioni di sognatori, di appassionati e, purtroppo, anche di ignoranti beoti del jet set, i quali non avrebbero saputo distinguere la presenza in scena di John Barrymore nei panni di Riccardo III da quella di un qualsiasi gorilla dello zoo del Bronx.
    Terence bevve un altro sorso della sua bevanda, accavallando elegantemente le gambe e appoggiandosi rilassato al cuscino rosso sull’ampio schienale di vimini a motivi intrecciati e si concesse un sospiro di appagamento. Per quanto avesse goduto di ogni istante dell’estate appena trascorsa a Chicago e alla casa di Pony, dovette ammettere con se stesso che non vedeva l’ora di tornare alla città alla quale apparteneva con intenso amore filiale e al suo lavoro, che rappresentava la sua seconda vocazione (dopo quella per la moglie).
    Da quando era passato sotto l’arco di Washington nel lontano autunno del 1913, in quella sorta di rito iniziatico di benvenuto che aveva costituito anche il simbolo del suo passaggio dalle stanze dell’adolescenza a quelle dell’età adulta, New York era diventata la sua seconda madre, talvolta matrigna, ma sempre unita a lui da un legame inossidabile, che gli scorreva sottopelle e respirava allo stesso ritmo del suo respiro.
    L’aveva amata, odiata, respinta e ancora cercata, in un’altalenanza che tutto era tranne che la condiscendente indifferenza di un suo qualsiasi abitante occasionale, come gli altri milioni che ogni giorno sfrecciavano per quelle maestose vie senza neanche alzare lo sguardo ad ammirare la sontuosità che quella passionale città si degnava di condividere con loro.
    Romeo lo attendeva al varco sul palcoscenico del teatro Stratford e questa volta sarebbe stato un personaggio completamente diverso da quello portato in scena per l’ultima volta cinque anni prima. Allora, il carico di sofferenza e dolore recitati tra i corridoi e sulla terrazza del St. Jacob’s Hospital erano corsi paralleli a quelli che avevano scandito l’amore del giovane Montecchi per la sua anima gemella tra le vie di Verona, veloce e fragile come il battito delle ali di una libellula
    Proprio in quel momento la sua Giulietta comparve sul terrazzo, preannunciata dal fruscio del raso lucido di un raffinato abito color cipria, dal taglio scivolato e morbido e dalle cuciture di sbieco sulla gonna lunga fino ai piedi. La scollatura a V lasciava appena intravedere l’attaccatura del seno, e le maniche coprivano appena le spalle. I capelli erano sempre più lunghi e lasciati sciolti, trattenuti solo sulle tempie da due fermagli di onice che scoprivano i due veri gioielli di quella splendida mise: gli occhi nei quali il marito non si sarebbe mai stancato di perdersi.
    - Ti dispiacerebbe chiudermi i bottoncini del vestito? – gli chiese Candy, sollevando con una mano i capelli e voltandosi per mostrargli la schiena, ben sapendo quanto al marito piacesse assolvere a quel compito.
    Terence sorrise e si alzò dal suo posto, poggiando sul tavolino il bicchiere vuoto e portandosi alle spalle della moglie, sfiorando col palmo della mano esattamente il centro della sua schiena nuda e godendosi il tremito che la percorse immediatamente al suo tocco, mentre con l’altra mano le accarezzava una spalla.
    - Con piacere – mormorò, le labbra che le lambivano la morbida curva tra il collo e il mento, vicino al suo orecchio sinistro.
    Candy chiuse gli occhi, godendosi il languore che la percorreva sotto il tocco congiunto delle mani e della bocca del marito.
    - Non mi pare che tu mi stia aiutando... – lo rimproverò, con una voce arrochita che infiammò il marito ancora di più del profumo di rose che aspirava dai suoi capelli e della setosa consistenza della pelle della sua schiena, che stava adesso percorrendo in una carezza leggera.
    - Credevo di sì... – rispose lui con voce a sua volta incupita dal desiderio, spostandosi lentamente dall’altro lato della nuca e sfiorandole il lobo dell’orecchio con la lingua e il calore del suo respiro, lievemente accelerato.
    Candy si abbandonò languidamente contro il torace del marito, che continuò la sua dolce tortura su di lei per qualche secondo, prima di staccarsi riluttante per dirle con voce fintamente contrariata:
    - Hai intenzione di provocarmi e di costringermi a restare qui tutta la notte, per dare sfogo al fuoco che accendi consapevolmente in me con la tua finta innocenza, moglie?
    - Ho pensato che fosse la mia ultima chance di evitare questa assurda buffonata alla quale tu, Archie e Albert sembrate così impazienti di dare vita – gli rispose lei, riprendendo il controllo della sua voce e dei suoi sensi mentre il marito cominciava ad abbottonarle l’abito, soffocando la delusione per i tratti della schiena perlacea di Candy che scomparivano a mano a mano che il vestito si chiudeva.
    - Invece, dovresti essere contenta che io e quel damerino di tuo cugino abbiamo finalmente trovato un punto di incontro! – ribatté Terence, prendendola per le spalle e facendola voltare verso di lui per posarle un bacio sul naso cosparso dalle lentiggini che il caldo sole estivo aveva trasformato in una pioggia dorata sul suo viso.
    - Quando si tratta di andare contro Iriza e Neal, puoi stare certo che avrai sempre il suo appoggio! – rispose Candy, seguendo il suo aristocratico profilo con l’indice della mano destra, fermandosi sulle sue labbra per riceverne il tocco delicato di un bacio sul polpastrello.
    - Meglio così! Anche se avrei preferito che in passato avesse espresso con maggiore vigore questa posizione, invece che solo a parole... non mi pare che alla St. Paul School qualcun altro oltre al sottoscritto ti abbia mai difeso dalle angherie di quei due cafoni, rivestiti di finta rispettabilità con una mano di vernice talmente leggera da lasciar trapelare con evidenza tutto il marcio che ricopre... – gli occhi di Terence si infiammarono di rabbia, rievocando l’immagine di Neal e dei suoi amici che si contendevano Candy con violenza, in un sabba orribile i cui possibili esiti ancora gli facevano ribollire il sangue nelle vene e montare dentro una furia incontrollabile.
    Candy gli strinse il braccio per calmarlo, percependo la sua ira e cercando di trasmettergli il suo calore per rasserenarlo.
    - Non vorrei sottolineare l’ovvio, Terry, ma era il minimo che tu potessi fare, visto che io ero l’unica persona in tutta la scuola che ti rivolgesse la parola! – gli disse, cercando di stemperare la tensione.
    Come sempre il tocco e la voce di Candy ebbero il proprio effetto taumaturgico sul ragazzo, dalla cui fronte scomparvero le ombre e il nero cupo dei cui occhi tornò alla consueta tonalità blu zaffiro.
    - Non solo la parola, se ben ricordo, Tuttelentiggini! Ogni occasione era buona per gettarti su di me, fingendo di inciamparmi addosso...
    - Smettila Terry, non fai altro che rievocare quella stupida faccenda. Non l’ho fatto apposta, e lo sai benissimo!
    - Terry... è stata la prima volta che mi hai chiamato così – mormorò Terence con voce colma di tenerezza, prima di aggiungere con un ghigno, di nuovo allegro – eri già innamorata cotta di me, ammettilo, Candy!
    La ragazza nascose il sorriso che le era salito spontaneamente alle labbra per rispondergli:
    - Ero esasperata dalla tua presenza e dalle tue provocazioni, tanto che per farti tacere fui costretta a regalarti un’armonica, proprio per fornirti un’alternativa d’uso per quella tua boccaccia!
    - Beh, se era solo per quello, avresti potuto trovare ben altre alternative d’uso per la mia bocca, Tuttelentiggini! – le rispose lui, dandole pronta dimostrazione di quanto intendeva.
    Staccandosi da lei, dopo diversi minuti in cui l’unico rumore sulla terrazza era stato quello delle onde che si frangevano sulla spiaggia e accompagnava i loro respiri e il suono delle loro labbra che si cercavano, Terence respirò beatamente e disse con voce eccitata, prendendo Candy per la mano:
    - Molto bene, mia cara! E adesso smettila di distrarmi e andiamo! Ho un conto da saldare con un verme e una serpe da ben sei anni... e io saldo sempre i miei conti!
    Prendendo il suo scialle e la sua borsetta, Candy si avviò verso l’uscio per mano al marito, vagamente preoccupata per l’esito della lunga serata che li attendeva.


    Anche nell’uomo, come in certe erbe,
    si accampano due contrastanti despoti:
    grazia e brutalità.
    E dove il peggio prevale,
    il cancro della morte si divora la pianta. *




    Il pretenzioso salone stuccato d’oro e sovrastato da una imponente cupola di vetro istoriato risuonava delle note di un’orchestra jazz, musica in gran voga in quegli anni in particolare negli Stati del sud, che stava risalendo lungo la costa orientale come una febbre dilagante, pronta a conquistare l’America e il mondo e a fornire la colonna sonora degli anni ruggenti che ne avrebbero cambiato per sempre la fisionomia.
    L’aria era carica di eccitazione e l’alcol scorreva a fiumi già da un po’ quando gli Andrew fecero la loro comparsa, accompagnati dalle prime ombre della sera.
    Annie ed Archie avevano lasciato i figli con i nonni Brighton, e quella era la prima vacanza che si concedevano da quando i gemelli erano nati. Sembrava che l’effetto fosse stato benefico per entrambi, perché Annie era radiosa e Archie completamente rilassato, molto più che nei panni di dirigente della Andrew Enterprises. L’indomani, insieme a Candy e Terence, sarebbero ripartiti per New York, dove la settimana successiva erano fissate le nozze di Patty e Hal. Quindi, dopo un’orgia di shopping nella Fifth Avenue, sarebbero tornati a Chicago, ai figli e alla Andrew House, improvvisamente svuotatasi dei suoi tanti abitanti estivi.
    Albert e Josephine avevano accantonato i preparativi per le nozze per concedersi quella settimana sulle spiagge della Florida e il lungo viaggio in treno era stato anche l’occasione per la ragazza di ammirare, con il suo occhio artistico sempre all’erta, gli straordinari e variegati paesaggi che gli Stati Uniti le fecero scorrere davanti, come in un’esibizione del proprio più meraviglioso campionario, in un estremo tentativo di sedurla per impedirle di lasciarli.
    Albert non aveva ancora trovato l’occasione di parlare con Candy e dirle che alla fine di ottobre, subito dopo le nozze con Josephine nella Holy Name Cathedral di Chicago, avrebbe lasciato l’America e si sarebbe trasferito a Parigi.
    Si riprometteva di farlo prima di lasciare Miami e che la sua piccola Candy si dirigesse verso la nuova vita che l’attendeva a New York, che di certo l’avrebbe aiutata, insieme all’amore di Terence, ad accettare questo ulteriore cambiamento.
    Ma quella sera tutta la sua attenzione era per i Legan, con i quali aveva dei conti aperti che affondavano nel passato, e che aveva intenzione di chiudere definitivamente prima di lasciare l’America.
    Sarah gli andò incontro non appena lo vide incorniciato dalla porta d’ingresso del salone, mano nella mano ad una Josephine splendida in seta blu notte, lasciando il marito a intrattenere il sindaco di Miami con il racconto dei prossimi scenari espansivi per le loro attività edilizie in città.
    - William! Che piacere rivederti dopo tanto tempo! Siamo felici che tu abbia accolto il nostro invito. Cosa ne dici del nostro ultimo gioiello? E questa deve essere la deliziosa Josephine, immagino. Che affascinante profilo, così francese, decisamente... ha forse ascendenze nell’aristocrazia del vecchio mondo, mademoiselle? – li travolse subito Mrs. Legan, curandosi di porre bene l’accento sul nuovo trionfo della famiglia in tema di resort di lusso e, nello stesso tempo, di mettere Josephine immediatamente in condizione di confessare le proprie umili origini, delle quali i Legan erano peraltro già a conoscenza, avendo svolto approfondite ricerche sul suo conto. Sembrava incredibile che William fosse la preda preferita di ogni trovatella e morta di fame che si aggirasse nei suoi paraggi!
    Josephine non si fece turbare minimamente dalle fintamente cordiali e veramente allusive maniere di Sarah, e le rispose con una disarmante semplicità, che nascondeva però un piacere malizioso:
    - A dire il vero credo proprio di no, madame. Sarebbero caduti veramente in basso questi nobili ascendenti, visto e considerato che mio padre è un semplice impiegato comunale ad Aix-en-Provence. Certo, c’è da dire che durante la Rivoluzione Francese molti aristocratici sono decaduti, potendo già considerarsi fortunati di non essere finiti sulla ghigliottina. Gran cosa la Rivoluzione Francese e la democrazia, non trova, madame?
    Di fronte alla arguzia della ragazza Sarah batté rapidamente in ritirata, troppo ottusa per comprenderne l’ironia e troppo snob per degnarla della sua sincera considerazione. L’unico motivo per cui tollerava la sua presenza era il legame con il capofamiglia, per il quale, alla fin fine, si trovava costretta a fare buon viso a cattivo gioco.
    Gli affari del marito prosperavano ancora, ma sempre più spesso i suoi partner commerciali e imprenditoriali cominciavano a chiedere ulteriori garanzie finanziarie. Poter godere dell’appoggio del solido patrimonio Andrew costituiva un passepartout per tutto il gotha finanziario americano, molto più dell’oscura fortuna del marito di Iriza, Louis De François Vouilleres. Il quale, tra l’altro, si diceva stesse precipitando velocemente verso la bancarotta a causa di una lunga serie di investimenti opachi. Rinsaldare il rapporto con William era quindi fondamentale per il proliferare degli affari dei Legan. Anche il matrimonio di Neal con Clelia Johnston Catts dipendeva dal suo appoggio, visto e considerato che il potente governatore della Florida non aveva mai inteso dare la sua figliola in sposa a niente di meno che a un rampollo di una delle più influenti famiglie americane, e non al suo ramo collaterale.
    - Dunque, William, sono molto contenta di averti qui con noi – riprese Mrs. Legan, riavutasi dalla sorpresa per la reazione inaspettata di Josephine alle sue provocazioni.
    - Mi fa piacere. E sono certo che sarete lieti dell’idea che ho avuto di portare con me anche il resto di noi, in modo che si possano accantonare definitivamente i rancori del passato e tornare a essere una famiglia sola – le rispose Albert con voce eccessivamente melliflua.
    Sarah represse un moto di stizza all’idea che quelle due trovatelle con i rispettivi mariti fossero presenti sotto il suo tetto. Quell’erba malefica che era entrata nelle loro vite tanti anni prima era proliferata e si era avvinghiata alle pareti della loro esistenza, resistendo tenacemente a ogni suo tentativo di debellarla
    - Sarò molto franco, con te, Sarah – continuò Albert - dal giorno del funerale della zia Elroy e dal vostro inqualificabile comportamento, che ha stravolto completamente il senso del volere della zia che Lakewood restasse alla famiglia, qualcosa si è spezzato tra noi.
    - Noi non abbiamo stravolto alcunché, William. Lakewood è venuta a me e avevo il diritto di farne ciò che volevo! Non avendo nessuna intenzione di viverci, l’ho ceduta a mia figlia Iriza e, tramite lei, a nostro cognato, che la sta amministrando nel modo più profittevole per i nostri interessi. Credo abbia trovato un ottimo compratore, a dirla tutta. Dovresti essere contento che questo ramo della tua famiglia, nonostante il disprezzo con cui l’hai sempre trattato, dimostri tanto acume per gli affari!
    La rabbia per il freddo comportamento di William aveva fatto cadere la prudenza con la quale Sarah aveva inizialmente deciso di approcciare quell’incontro. Il fatto di dovere mantenere un atteggiamento subalterno rispetto al capofamiglia che tante volte li aveva pubblicamente umiliati, come in occasione del fidanzamento di Neal con la trovatella, sposato alla durezza del tono con il quale le si stava rivolgendo nonostante tutti i suoi tentativi concilianti, avevano vinto l’ipocrita gentilezza con la quale si era sforzata di aprire quella conversazione.
    - E dimmi, Sarah, per quale motivo, dovendo mettere in vendita Lakewood, non hai ritenuto di informarmene? Così che, non avendo avuto la decenza di lasciarla nelle mani nelle quali avrebbe sempre dovuto essere quando ne hai avuto l’opportunità, potessi darmi almeno la possibilità di riacquistarla?
    Sarah arrossì per l’imbarazzo. Vendere Lakewood era stata la sua vendetta, la sua rivalsa per tutte le angherie che riteneva di aver subito da Albert. Mai e per nessun motivo aveva avuto intenzione di farla tornare nel patrimonio di famiglia.
    - Noi...noi abbiamo ricevuto un’offerta che non era possibile rifiutare, William... sei un uomo d’affari anche tu e capirai! Inoltre, come ti ho già detto, è stato Louis a gestire il tutto...
    - Sì, beh, credo che avremo modo di tornare sull’argomento tra poco, Sarah, insieme a Candy e a suo marito.
    - Non ne capisco il motivo, William. È una faccenda morta e sepolta. Chiusa. Spero che vorremo andare avanti.
    - Io sicuramente sì, Sarah. Voglio decisamente andare avanti e lasciarmi alle spalle i vostri intrighi, le vostre meschinità e tutti questi anni in cui non avete fatto altro che cospirare alle mie spalle, approfittando della mia assenza, prima, e della mia benevolenza, dopo.
    Sarah cercò di intervenire, ma Albert non gliene diede modo, riprendendo con tono tagliente, sotto lo sguardo colmo di ammirazione di Josephine:
    - Lasciami essere chiaro, Sarah. So perfettamente il motivo per cui mi hai invitato qui e non ha niente a che vedere con il piacere di fare la conoscenza della mia fidanzata, alla quale ti invito a non riservare mai più un tono di voce condiscendente come quello col quale ti sei rivolta a lei prima, se non vorrai pentirtene amaramente – Sarah sgranò gli occhi, sorpresa e preoccupata da quell’Albert così combattivo e minaccioso, così diverso dal solito - So che, sebbene gli affari di tuo marito in questo momento prosperino, non potete certo contare sulla forza del nome degli Andrew senza il mio appoggio. E quell’appoggio vi serve eccome, mia cara, lo sappiamo entrambi. Quindi, direi che possiamo smetterla con i convenevoli e arrivare subito al punto della faccenda. Vi consentirò di rientrare in seno alla famiglia e di riprendere a gravitare nell’orbita degli Andrew, cosa che peraltro ritengo sia fondamentale agli occhi del padre della futura moglie di Neal per portare a buon fine il loro fidanzamento. Ma bassezze, macchinazioni, viscidi tranelli e doppi giochi devono finire. Adesso. E se avrò modo di dubitare della lealtà per il futuro tua, di quella del degno sangue del tuo sangue e dei loro consorti, per non parlare di quell’uomo sprovvisto di spina dorsale che ha avuto la sventura di sposarti, ve ne farò pentire. A-MA-RA-MEN-TE. Sono stato sufficientemente chiaro, Sarah?
    Gli occhi di Albert erano due lame d’acciaio e la sua voce di un ghiaccio che derivava da anni di frustrazione e inutile pazienza verso quello sventurato ramo degli Andrew il cui frutto, come spesso accadeva in ogni famiglia, era caduto tanto lontano dall’albero.
    La zia Elroy aveva avuto dalla sua parte almeno l’attenuante dell’età e delle ovvie resistenze, per una donna della sua generazione, di comprendere i cambiamenti epocali che avevano attraversato la sua vita, iniziata in un ottocento puritano per terminare nel bel mezzo delle rivoluzioni culturali del XX secolo. Inoltre, aveva una natura poco votata all’affettuosità che difficilmente avrebbe potuto comprendere l’indole solare e generosamente espansiva di Candy.
    Ma Sarah e i suoi figli non avevano alcuna attenuante per aver odiato fin dal primo sguardo una bambina di dodici anni e averla angariata, umiliata, terrorizzata oltre ogni umana capacità di sopportazione. Non avevano giustificazioni per aver trascorso tutta la propria vita in una fallace idea di ciò che derivasse da una posizione di privilegio, facendone conseguire la convinzione che tutto ciò che stava più in basso andasse schiacciato senza pietà. Era giunto il momento di porre fine a tutto ciò.
    Mrs. Legan capì subito che non c’era nulla da replicare; non era una stupida e sapeva riconoscere una sconfitta.
    William era ancora il capofamiglia e sarebbe bastato un suo cenno per decretare la fine degli affari del marito, di quelli del genero e per mandare completamente a monte l’ottimo matrimonio di Neal con la figlia del governatore. Era il momento di piegarsi.
    - Molto bene, William. Credo di aver capito ciò che intendi. Ritengo di poterti rassicurare che le tue parole non sono cadute nel vuoto – gli rispose a capo chino e a denti stretti.
    Josephine avrebbe voluto lanciare un grido di gioia o gettare le braccia al collo del fidanzato, il quale aveva messo a tacere quella squallida donna che rappresentava tutto ciò che le faceva più ribrezzo, ma non ritenne che fosse il momento opportuno. Si ripromise di manifestargli adeguatamente la propria stima quella notte, sgusciando nella sua stanza di soppiatto.
    Albert però non mutò espressione né tono di voce nel ricevere la resa della cugina. C’era ancora una cosa che andava fatta:
    - Molto bene, Sarah. Vedo che ci siamo compresi a dovere. Credo quindi che non ci sia altro da fare che iniziare questo nuovo corso tra noi; e quale miglior modo che cominciare con il porgere le tue scuse a Candy per tutto ciò che tu e i tuoi figli carenti d’educazione le avete fatto passare in questi anni?
    Sarah sgranò gli occhi inorridita da quella prospettiva, ma l’espressione di Albert non lasciava adito a dubbi o a margini di trattativa.
    Ancora una volta, per il futuro dei suoi figli e di quell’inetto marito che lasciava a lei il peso di ogni responsabilità, sembrando essere geneticamente sprovvisto della capacità di gestirle, piegò il capo e si accinse a pagare il dazio (dopo aver goduto per tanti anni solo dei relativi privilegi) di essere una Andrew, tra i quali la parola del capofamiglia aveva ancora la stessa autorità inappellabile con cui il loro trisavolo aveva chiamato a raccolta il proprio clan contro gli inglesi, nella battaglia di Stirling.

    Candy, al colmo dell’eccitazione a fianco di un divertito Terence, stava raccontando ad Annie ed Archie della gioia appena provata nell’aver ritrovato, sgattaiolando di soppiatto nelle cucine, i suoi amici dei tempi in cui viveva in casa Legan: Mary, Stewart, il sig. Whitman e il cuoco, Dug. Quelle persone speciali nella sua infanzia erano state l’unico suo raggio di sole tra quelle pareti altrimenti costellate solo dei tranelli maligni dei fratelli Legan.
    Avevano riso e pianto tutti insieme, rievocato i vecchi tempi e Terence aveva persino scattato a tutti delle foto ricordo. Alla fine Candy aveva chiesto loro di tornare a Lakewood per prendersi cura della tenuta, sotto la supervisione di un commosso Vincent Brown, nei lunghi periodi in cui lei e Terence sarebbero stati a New York. La felicità di tutti per quella inaspettata possibilità di rompere una volta e per tutte i vincoli con la famiglia Legan e di tornare ai luoghi ai quali anche loro sentivano di appartenere era stata incontenibile.
    - Oh, Candy, sei incredibile: vieni ad una gran soirée e ti rintani nelle cucine con i tuoi amici per metà del tempo! – sorrise Annie, provocando una smorfia imbarazzata dell’amica, esattamente la stessa che le rivolgeva da bambina quando l’amica la rimproverava per qualche marachella compiuta sotto gli occhi di Miss Pony e Suor Maria.
    Stavano ridendo tutti rilassati quando Candy sentì una voce familiare alle sue spalle.
    - Candy, posso parlarti un momento? – esordì Sarah Legan, raggiungendo al fianco di Albert e Josephine il quartetto.
    - Ma certo, Mrs. Legan. Come sta? – rispose Candy, guardinga ma come sempre incapace di manifestare astio.
    - Ehm… bene, grazie. Potremmo parlare in disparte? – chiese la donna, cercando con gli occhi un luogo appartato dove assolvere al suo spiacevole compito.
    - Non credo sarà necessario, Sarah. Siamo una famiglia e non c’è niente che tu debba dire che non possa essere detto in presenza di tutti. Non pensi? – intervenne Albert prontamente, tagliando ogni via di fuga alla donna e costringendola a una pubblica resa incondizionata.
    Sarah digrignò i denti, non avrebbe mai immaginato che quella serata si sarebbe trasformata in un tale incubo.
    Candy la guardava perplessa e in attesa. Sarah si sentiva morire: quella maledetta trovatella le aveva rovinato la vita.
    - Sì, ecco... – riprese Mrs. Legan a fatica. Fece un respiro per darsi coraggio e decise di bere l’amara bevanda in un solo sorso, sperando di attenuarne il sapore venefico – Candy, io... sono molto contenta che tu sia venuta qui questa sera, perché mi dai la possibilità di fare ciò che desideravo fare da tempo...
    Sarah fece una pausa e si volse verso Albert che annuì gravemente, come per incoraggiarla, e quindi proseguì:
    - In effetti Candy, credo che tra noi siano sorte delle... incomprensioni e dei rancori in questi anni... del tutto involontariamente, certo, ma che tuttavia hanno incrinato i nostri rapporti in maniera significativa...
    Candy sgranò gli occhi, basita per le parole che aveva appena sentito. Già ascoltare Mrs. Legan rivolgersi a lei con un tono meno che freddo era un’assoluta novità; ma sentirla quasi balbettare era veramente inconcepibile. Terence accanto a lei, con le mani in tasca e un bagliore cattivo negli occhi fissava la donna con un sorriso per nulla indulgente nel vederla in grande difficoltà, come se stesse assistendo a un ben allestito e appagante spettacolo teatrale.
    - ...dunque, Candy, quello che volevo dirti è che credo sia giunto il momento di mettere una pietra sopra il passato e andare avanti... siamo membri della stessa famiglia e questo... distacco... tra noi non ha più senso.
    Mrs. Legan aveva la stessa espressione di qualcuno che avesse inghiottito un boccone talmente amaro da provocargli le lacrime e Candy si sentì travolgere dalla pietà. Stava per interromperla quando Terence le strinse un braccio e la guardò severamente, per farle comprendere di tacere.
    - Io... io... ti porgo le mie scuse, Candy se per caso qualche mia parola o gesto del passato può averti in qualche modo causato disagio.
    Le parole di Sarah Legan deflagrarono nel salone con la potenza di un’esplosione. Annie e Candy rimasero a bocca aperta per lo stupore, Archie espirò profondamente tutto il disprezzo per la zia covato negli anni e Terence atteggiò le labbra a un ghigno soddisfatto.
    Ma Albert non era ancora soddisfatto:
    - Ti riferisci per caso a qualche episodio in particolare, Sarah, per il quale vuoi dare adesso qualche parola di spiegazione?
    Sarah si voltò verso Albert, in preda alle vertigini ed alla nausea. Che cos’altro voleva da lei adesso?
    - Vuoi forse chiarire una volta per tutte la strana vicenda che vide Candy accusata di furto in casa tua e, in conseguenza di ciò, condannata senza appello ad andare in Messico?
    - Albert...ti prego... – cercò di intervenire Candy, ma nessuno sembrò curarsi di lei.
    Sarah chiuse gli occhi. Quell’incubo sembrava senza fine.
    - Ecco, sì.... in effetti William, in quel caso fu fatto un errore. Ci accorgemmo in seguito che il bracciale e la collana erano finiti per errore nelle stalle, tra le cose di Candy.
    - Quindi mia moglie non è, e non è mai stata, una ladra. Dico bene, Mrs. Legan? – intervenne Terence, ansioso di dare il colpo di grazia a quella donna che gli faceva ribollire il sangue con la sua sola presenza.
    - No, naturalmente no... – concluse lei, fissandolo con odio.
    - Molto bene, sono felice che questo spiacevole episodio sia stato chiarito una volta per tutte – rispose Terence con aria allegra, prima di tornare repentinamente al suo tono più gelido, con la sapienza del grande attore che modulava il suo strumento di lavoro, per dare la stoccata finale – ...ah, Mrs. Legan, le sarei grato se d’ora in poi volesse rivolgersi a me e a mia moglie con il nostro titolo: marchesi. Sa, noi aristocratici ci teniamo a queste apparenti sottigliezze.
    Per la prima volta dall’inizio di quella terribile scena, Candy represse a stento una risata dissimulando un colpo di tosse, ben sapendo quanto Terence odiasse il suo titolo e che ci si rivolgesse a lui in quel modo. Ma la sua attenzione fu di nuovo immediatamente attratta da Mrs. Legan che, rossa in viso, sembrava sull’orlo di un colpo apoplettico. Si voltò verso Albert, come supplicandolo silenziosamente di concederle la grazia, e finalmente lui parve muoversi a pietà. Era abbastanza.
    - Ti ringrazio Sarah, per questo doveroso chiarimento. Adesso – le disse con un tono di voce leggermente più dolce – credo tu possa tornare ai tuoi ospiti: non vogliamo monopolizzare le tue attenzioni.
    - Con permesso... – mormorò la donna, raccogliendo il vestito tra le mani e allontanandosi di gran carriera, trascinandosi dietro l’inesistente residuo della propria dignità calpestata, con lacrime di rabbia e umiliazione che premevano per sgorgarle dagli occhi.
    - Oh amore, sei stato magnifico, eccezionale, incredibile! Non penso di averti mai amato tanto come in questo momento – esclamò Josephine, gettando le braccia al collo di Albert con trasporto e non trattenendosi più dal baciarlo, del tutto incurante della presenza di centinaia di persone nella sala.
    Albert ricevette il suo premio con un sorriso compiaciuto e poi si volse a Candy ed Annie, ancora sotto shock per la scena alla quale avevano appena assistito.
    - Credo proprio che non vi darà più fastidio per il futuro... e se dovesse succedere, fatemelo sapere.
    - Albert, non era necessario... sei certo che l’accaduto non l’abbia inviperita ancora di più? – chiese Candy, vagamente preoccupata.
    - Non è più nelle condizioni di nuocere, piccola. La colpa è stata solo mia, ho trascurato per troppo tempo di rimettere le cose al loro posto e mi dispiace che tu abbia dovuto aspettare tanto. Ma adesso è finita.
    - Non del tutto – intervenne Terence seccamente, gli occhi improvvisamente accesi del suo sguardo di tigre feroce e puntati fissamente sulle sue prede, Iriza e Neal, che entravano in quel momento nel salone al braccio dei propri accompagnatori.
    I muscoli del corpo immediatamente tesi e pronti a scattare, li seguì con lo sguardo dirigersi verso il centro della stanza, dove si fermarono per prendere dei drink dal vassoio di un cameriere di passaggio e cominciare a sorseggiarli pigramente.
    - Volete scusarmi solo per un momento, per favore? – si scusò Terence, senza distogliere lo sguardo dalle sue vittime e muovendosi a passi felini nella loro direzione.
    - Terence, per favore, non... – Candy non aveva idea di quali fossero le intenzioni del marito, ma conosceva meglio di chiunque altro quello sguardo e cominciò a sentirsi invadere da un certo panico.
    - Piccola, lascialo andare – intervenne Albert, mettendole una mano sul gomito. Sapeva bene che molto del dolore che lei e il marito avevano affrontato negli anni precedenti era stato dovuto alle macchinazioni di Iriza per farla espellere dal collegio. Era giunto il momento anche per sua nipote di pagarne il prezzo, e direttamente a Terence – anzi, ti prego, vieni con me in terrazza, ho bisogno di parlarti.
    Terence ed Albert si scambiarono un cenno d’intesa e il più giovane annuì. L’amico aveva scelto quel momento per confidare a Candy i suoi propositi per il futuro.
    Candy si allontanò con Albert, mentre Terence si dirigeva a onorare un appuntamento preso con i due fratelli Legan sei anni prima, nel lasciare per sempre i viali della St. Paul School in una pioggia di foglie cadenti.

    *Romeo e Giulietta, Atto II, Scena III.

    [continua]


    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-

    Edited by Cerchi di Fuoco - 8/1/2021, 12:37
     
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    - Terence! - la voce di Neal era stridula per l’immediata recrudescenza del terrore provato nei confronti del suo antagonista dei tempi del collegio, quando quell’odioso ragazzo riusciva a sgusciare fuori dall’ombra nei momenti più impensabili per accanirsi su di lui. Automaticamente, si guardò a destra e sinistra, in cerca di una possibile via di fuga
    - Terence! – la voce di Iriza, invece, pur atteggiata al consueto tono di superiorità che rivolgeva pressoché a tutto il genere umano, era contaminata da quella nota di desiderio frustrato che vi si instillava da sempre nel rivolgersi all’antico oggetto della sua ossessione. Nonostante fossero trascorsi anni dall’ultima volta che aveva incontrato quegli occhi blu, adesso velati di un torbido riflesso oscuro, e nonostante i continui rifiuti e umiliazioni a cui quell’uomo l’aveva sottoposta nella loro giovinezza, la stessa smania di allora continuava a percorrerla al solo sentirne la voce.
    - Quanto tempo! – esclamò la tigre, avvicinandosi a passi felpati per fermarsi davanti ai due fratelli, quasi leccandosi i baffi nel pregustare il lauto banchetto che la attendeva.
    - Sapevamo che eri entrato in famiglia, ma non immaginavamo che avremmo avuto tanto presto l’occasione di rivederti! – lo accolse Iriza, simulando indifferenza per la notizia del matrimonio della sua odiata rivale con l’uomo dal quale aveva cercato in tutti i modi possibili di separarla. Quando aveva saputo del fidanzamento di Terence con Susanna Marlowe, aveva pensato che la sua opera fosse finalmente compiuta e aveva idealmente passato il testimone alla bionda attricetta, alla quale aveva attribuito ben altra tempra in occasione del loro incontro a Chicago. Lei però non si era dimostrata capace di tenersi stretto il proprio uomo, visto e considerato che Terence non aveva potuto fare a meno di correre tra le gambe di quella sgualdrinella orfana mentre ancora la sepoltura della sua fidanzata praticamente non era conclusa...
    - Iriza, non mi presenti al tuo amico? – chiese il pingue Louis De François Vouilleres al suo fianco.
    La tigre lo squadrò ed ebbe un fremito avido, pregustando il piacere che avrebbe provato nello spolparselo ben bene.
    - Sono Terence Graham Granchester – interloquì Terence, non accennando a tendergli la mano e lasciando l’uomo totalmente spiazzato da quell’atteggiamento apertamente ostile – e, se non le dispiace, le chiederei di non usare la definizione di “amico” nel riferirvi ai miei rapporti con sua moglie e suo cognato.
    Iriza aprì la bocca per lo stupore e Neal sentì il consueto brivido di paura percorrergli la schiena.
    La tigre stava per attaccare.
    - E dunque potrei conoscere la natura dei rapporti tra di voi, se non è eccessivo chiederlo? – chiese l’uomo, cominciando a sentirsi veramente infastidito.
    Clelia Johnston Catts, intanto, si limitava a rimanere immobile e spaurita, totalmente incapace di comprendere ciò che si stava svolgendo sotto i suoi cerulei occhi vacui.
    - Interessante domanda, che non ha una risposta semplice e univoca. In breve, potrei sintetizzare il tutto dicendo che sono l’orgoglioso marito della cugina di questi due farabutti. Ma non vorrei sporcare il nome di mia moglie, rievocando il legame familiare intercorrente tra loro.
    Terence approfittò del momento di incredulo sbigottimento che seguì queste frasi per scagliare su di loro la prima zampata dagli artigli acuminati:
    - Ma naturalmente ho avuto la sventura di conoscere entrambi anni addietro, presso il collegio nel quale i loro genitori hanno cercato invano di spremere fuori da queste due disgustose creature qualcosa di meglio del vuoto totale instillato loro fino a quel momento. In quel periodo, Miss Johnston Catts, sono stato testimone di numerosi episodi di villania e codardia aventi come protagonista il suo fidanzato: la prima rivolta immancabilmente ai più deboli e la seconda sempre nei confronti dei più forti. E, pur senza conoscerla personalmente, lasci che le dica che se avesse un barlume di saggezza e amor proprio, prenderebbe immediatamente il largo e abbandonerebbe al suo destino questo verme strisciante al suo fianco, prima che qualche schizzo del lerciume che lo ricopre possa finire anche su di lei… mi sembra una ragazza che non lo merita.
    - Come osi… - Neal provò ad interloquire, ma produsse solo un gridolino pateticamente strozzato, che peraltro si spense immediatamente quando gli occhi della tigre si puntarono direttamente su di lui, provocando un immediato deflusso di ogni goccia di sangue dal viso a qualche parte molto lontana del corpo.
    - E per quanto ti riguarda, lurido verme, lasciami essere molto chiaro: considero una partita aperta con te gli atti di violenza fisica e psicologica cui hai sottoposto Candy in tutti questi anni. Credimi se ti dico che avrai modo di rimpiangere le frustate che mi hai strappato in passato se per caso dovessi trovarti di nuovo sulla mia strada. Solo il fatto che tu abbia osato sfiorarla con le tue ributtanti zampe in quella villa a Chicago, nella quale l’hai attirata usando il mio nome, meriterebbe che io ti uccidessi qui su due piedi – Neal ormai pallido come un cencio faticava a reggersi in piedi. La sua fidanzata continuava a spostare lo sguardo da lui a quella specie di demone vendicatore davanti a loro, senza capacitarsi dell’incubo che stavano vivendo. Intanto, anche il governatore, suo padre, si era avvicinato per assistere allo scambio con aria incredula – ma non lo farò… Preferisco dirti che la prossima volta che ci incontreremo sarà quella in cui tu rimpiangerai di essere nato, e godermi il pensiero del tuo terrore da adesso fino a quel momento.
    La tigre terminò di banchettare con un Neal afflosciato e paralizzato dal terrore e squadrato con aria severa dal governatore Johnston Catts e, come se stesse sputandone i resti, si volse verso la preda successiva, quella più succulenta e attesa, che inseguiva da molti anni e che fino ad allora gli era sempre sfuggita:
    -E ora a noi… - ruggì quindi, rivolgendosi a Iriza.
    Tutti i presenti sembravano assolutamente incapaci di proferire parola, paralizzati dallo sguardo ipnotico del felino che li stava smembrando tra le sue fauci uno alla volta, senza che nessuna delle vittime designate trovasse la forza di reagire. La situazione era surreale.
    Come sempre, la prima a ritrovare la forza d’animo, questa volta incentivata anche dalla paura che le aveva costellato la schiena di gocce di sudore freddo, fu Iriza, la quale riuscì addirittura a inserire una parvenza di tono di sfida nel rivolgersi a Terence:
    - Non intendiamo restare qui a farci insultare in un modo così volgare da te, Terence. Vedo che i tuoi modi osceni dei tempi della scuola non hanno avuto miglioramenti. Sei sempre il teppista squilibrato che eri un tempo – provò a dire, voltandosi per allontanarsi da tutta quella assurda situazione.
    Ma la tigre scattò per agguantarla e la bloccò, tirandola per un braccio senza nessun riguardo e senza che nessuno dei presenti, né il marito, né tantomeno il fratello, facessero il minimo tentativo per bloccarlo, semplicemente grati che l’ira del feroce felino si fosse diretta verso qualcun altro.
    - Squilibrato, sì, hai detto bene, Iriza. E lo sono ancora – lo sguardo spaventoso che le lanciò fece indietreggiare la donna di qualche centimetro, come se l’avesse colpita – e chi può dire cosa una persona squilibrata potrebbe fare?
    Iriza perse immediatamente tutta la propria tracotanza nell’attimo stesso in cui comprese che la situazione era sfuggita al suo controllo, e si abbandonò al panico riuscendo solo a stridere:
    - Lasciami stare, sono incinta. Non osare farmi del male!
    Terence sollevò un angolo della bocca, in un ghigno che era allo stesso tempo trionfante e spaventoso.
    - Dio avrebbe dovuto impedire a un essere come te di avere dei figli, Iriza. Non so cosa potrà venire fuori dal tuo corpo, ma provo solo pietà per la povera creatura che avrà una serpe velenosa come madre. Certo non ho mai avuto intenzione di colpirti, cara mia, al contrario di quanto non possa dire di sé quel vigliacco di tuo fratello… anche se entrambi sappiamo bene che in ogni occasione in cui ha sfogato la sua violenza su Candy è stato sempre istigato da te. Da dietro le quinte sei sempre stata tu l’artefice di ogni tortura inflitta a mia moglie, ma hai sempre lasciato lui a pagare il prezzo, le poche volte in cui è successo, per i tuoi sordidi inganni. Ma sappi che io so riconoscere la differenza tra una mente perversa e il suo stupido galoppino. Potrei sputarti addosso tutto il mio disprezzo, come ho già fatto in una circostanza che, se non avesse coinciso con uno dei momenti più tristi della mia vita, sarebbe stata fonte di estrema esultanza per me. Se non lo faccio è solo per non far cadere discredito su mia moglie con il mio comportamento in questa occasione pubblica… Ma ricorda bene anche tu, come tuo fratello: capiterà di trovarci soli, faccia a faccia. Aspetterò con ansia quel momento. E non pensare che frenerò la mia rabbia per gli anni che mi hai strappato accanto a Candy solo perché sei una donna. Non vedo donne di fronte a me, ma solo una meschina e disgustosa, strisciante figura femminile che non esiterò a schiacciare.
    Iriza aveva cominciato a piangere lacrime di rabbia e paura che adesso scorrevano irrefrenabilmente sul suo volto terrorizzato e paonazzo. Nessuno l’aveva mai trattata così. Riconoscendosi sconfitta e troppo spaventata per replicare a quella furia che l’aveva investita, scelse come sempre di sfogare tutta la propria frustrazione verso un soggetto più debole, e si voltò verso il marito sibilandogli sottovoce:
    - E tu, vigliacco senza speranza, lasci che quest’uomo tratti così tua moglie?
    A quelle parole, l’uomo sembrò ridestarsi dall’incantesimo della tigre e, sbattendo le palpebre come chi si sveglia da un sogno, si rivolse con voce incerta all’uomo che li aveva così drammaticamente umiliati:
    - Adesso è troppo. Non so chi lei sia e cosa voglia da noi, ma devo assolutamente chiederle di allontanarsi. Chiaramente mi riservo di prendere tutti i provvedimenti che riterrò appropriati per tutelarci dalle sue minacce.
    - Al contrario delle mie, le sue minacce sono assolutamente prive di spessore, mio caro De François Vouilleres. Ah, per aiutarla a collocarmi tra le sue conoscenze, le dirò che sono anche il proprietario della First Folio Holding, con la quale, per il tramite del mio avvocato Francis Greppi, lei ha avuto modo di concludere un fruttuoso affare solo poche settimane fa.
    Iriza, che stava lentamente riprendendosi dallo shock, interloquì per chiedere al marito:
    - Di che accidenti di affari sta parlando? Si può sapere come ti sei fatto imbrogliare?
    - Lakewood…. – mormorò solo il grasso avventuriero, ricomponendo in un lampo nella sua mente tutti i frammenti di quello che gli era sembrato l’affare della vita, e nel quale invece era evidentemente stato abbindolato, rivendendo la proprietà proprio a coloro ai quali l’avevano strappata.
    - COSAAAA? – urlò Iriza, richiamando a quel punto l’attenzione di tutti i presenti.
    Nella sala si fece silenzio e tutti gli ospiti si voltarono fermandosi con i loro bicchieri in mano per capire cosa stesse accadendo al centro del salone.
    - Sì, mia cara – le confermò Terence con un sorriso malvagiamente soddisfatto – il tuo poco attento maritino ha restituito Lakewood alla famiglia a cui sarebbe sempre dovuta appartenere. Solo che adesso il proprietario non è più Albert, ma Candice W. Andrew. Dovreste essere soddisfatti, avete ricavato un bel gruzzolo dalla compravendita…
    Nel vedere quella che considerava la definitiva vendetta nei confronti di Candy crollarle miseramente addosso come un castello di sabbia, Iriza si lasciò vincere dalla tensione e dalla rabbia accumulate in quell’incontro e cominciò a inveire scompostamente e volgarmente all’indirizzo del marito tra lo stupore generale di tutta la sala:
    - Sei un inetto, uno stupido, un buono a nulla! Dio! Ed io che credevo di aver sposato un mago degli affari e mi ritrovo con un pugno di mosche in mano! Come hai potuto farmi questo? Solo una cosa ti avevo chiesto: che quel posto non tornasse mai più nelle mani degli Andrew. Era l’unica cosa che volevo! E tu mi hai fatto credere di averla venduta a dei soggetti che l’avrebbero abbattuta per farne cottage! Quel posto è stato il teatro della mia infelicità, lo capisci? E doveva essere raso al suolo! AL SUOLO! E invece è tornato tra le mani di quella… - saggiamente Iriza si fermò un attimo prima di pronunciare epiteti di fronte ai quali Terence avrebbe di certo accantonato il proposito di non colpirla in pubblico – … orfana che mi ha rovinato la vita. È tutta colpa tua!
    Lo sfogo della moglie lasciò del tutto indifferente Louis De François Vouilleres, il quale non aveva mai nutrito affetto per la compagna, considerata solo un tramite per entrare in combutta coi Legan. Non gli importava nulla delle mani nelle quali fosse finita quella casa e, dopo tutto, aveva ricavato un buon gruzzolo da quell’affare, che gli avrebbe consentito di galleggiare ancora qualche mese, prima che le sue finanze segretamente dissestate colassero definitivamente a picco.
    - Smettila Iriza. Non sei in te. Sono stanco delle tue scenate isteriche. Andiamo a casa.
    - Non andiamo da nessuna parte! – gridò Iriza con voce stridula, sentendosi addosso ormai gli occhi di tutti i presenti ma senza poter fare nulla per controllarsi.
    - Noi andremo a casa, Iriza. Adesso! – sibilò l’uomo, ormai infuriato per quelle patetiche esternazioni - e non osare mai più rivolgerti a me con quel tono, se non vuoi pentirtene amaramente, senza aspettare di incrociare di nuovo Terence Granchester sulla tua strada.
    Con queste parole, l’uomo spinse via la moglie tremante e finalmente vinta e si allontanò con lei dalla stanza.
    Terence si volse verso Neal, completamente provato dall’ultimo orribile quarto d’ora, di cui avrebbe portato il ricordo per tutto il resto della vita, e verso la ragazza bionda totalmente scioccata al suo fianco che il padre stava abbracciando, allontanandola da Neal.
    - Spero che terrà a mente il mio suggerimento, Miss. Non è ancora troppo tardi per prendere le distanze da tutto questo.
    E con queste ultime parole verso una fanciulla innocente anche se stupida, la tigre voltò le spalle e si allontanò dal luogo del massacro, lasciando dietro di sé solo resti e i brandelli insanguinati della sua feroce vendetta.

    Terence si diresse verso la terrazza, sentendosi più leggero. Nessuno avrebbe mai potuto restituirgli gli anni persi con Candy, ma gli sembrava di aver chiuso definitivamente i conti con il suo passato. Tutte le persone che avevano portato sofferenza nelle loro vite, osteggiando vanamente la forza del loro amore, erano state in un modo o nell’altro sconfitte. Non ultimo, il destino che si era di volta in volta servito dell’una o dell’altra per giocare il suo cinico gioco con lui e Candy.
    Sulla soglia della porta-finestra, incorniciata da tende di lieve pizzo bianco dolcemente fluttuanti nella brezza salina che saliva dal vicino oceano, il giovane si fermò a scrutare l’esterno incorniciato dal riflesso argenteo della luna e sovrastato da una limpida volta stellata, che sembrava accendere mille lanterne sulla scena struggente che si svolgeva sotto di loro.
    Due ombre si stagliavano in quel bagno di luce perlacea, allacciate in un abbraccio che sapeva di addio. Terence trasse un profondo respiro e si diresse verso di loro.
    La schiena di Candy stretta tra le braccia di Albert tremava, rotta dai singhiozzi. Terence vide l’uomo sollevarle delicatamente il viso, poggiandole una mano sotto il mento, e sorriderle rassicurante. Lei si asciugò gli occhi, strofinandoli con il dorso della mano.
    Albert le posò un bacio sulla fronte e le disse con tono amorevole:
    - Per l’amor del cielo, Candy, non perderai mai quest’abitudine di asciugarti il viso con la mano? Sei una donna sposata, adesso. Quando pensi che diventerai adulta?
    - Credo di esserlo diventata proprio in questo momento, Albert… a causa tua! - rispose Candy, fissando profondamente i suoi occhi verdi negli occhi chiari di lui e scrutandolo come se volesse imprimersi nella mente ogni tratto della sua fisionomia.
    Albert tornò serio per sussurrarle dolcemente e intensamente:
    - Io ci sarò sempre per te, piccola mia.
    Candy tirò su col naso e si sforzò di sorridergli mentre gli rispondeva:
    - Anch’io per te, Albert. Un oceano non basterà a separarci. Dovrai andare molto più lontano se vuoi liberarti di me.
    - È l’ultima cosa che voglio, tesoro.
    Terence uscì dall’ombra ed entrò accanto a loro nel cono di luce lunare che illuminava magicamente quell’angolo di mondo, come un riflettore su un palcoscenico. Si avvicinò a Candy, sorridendole con tutto il suo amore negli occhi color zaffiro, e le tese la mano in silenzio.
    Candy si alzò sulla punta dei piedi per poggiare un lieve bacio sulla fronte di Albert.
    Era un bacio di affetto, di gratitudine per tutto ciò che lui aveva fatto per lei fin da quando le aveva salvato la vita in una notte di disperazione; di riconoscenza per averle dato un nome e una famiglia, protezione e calore quando ne aveva avuto più bisogno; era un bacio che condensava la forza con cui lei lo aveva assistito contro tutto e tutti nei giorni terribili della sua amnesia, riportandolo alla vita; era un bacio che racchiudeva nel suo lieve tocco la forza di un legame saldo e indissolubile, che sapeva avrebbe superato anche la più grande distanza fisica, perché si misurava sul piano dei sentimenti più veri.
    Lo guardò un’ultima volta prima di voltarsi verso l’uomo sorridente al suo fianco, il cui braccio teso era pronto a riceverla per sostenerla e confortarla. Era avvolto in un’aura color cobalto che nasceva dagli occhi colmi d’amore con i quali la fissava intensamente. Il sorriso sulle sue labbra era il più caldo e rassicurante che avesse mai visto. Candy sapeva che tra quelle braccia non avrebbe mai dovuto temere nulla nella vita.
    Allungò la mano per metterla in quella di lui e poi in un soffio fu al suo posto accanto a Terence, che le circondò le spalle e le baciò il capo con una tenerezza infinita.
    Candy alzò il viso a guardarlo e gli rivolse un sorriso splendente e uno sguardo acceso d’amore, che in un istante aggiunse una pennellata di verde smeraldo allo spazio attorno a loro. Sentiva che quella sera la prima parte del suo viaggio si concludeva e che cominciava la sua seconda vita: la maturità.
    - Andiamo a casa, amore… – le sussurrò il marito, il braccio stretto attorno alle sue spalle.
    - Sono già a casa! – rispose Candy con sicurezza poggiando il capo sul petto del marito e avviandosi verso il futuro allacciata al suo fianco.

    E allora sappi, in parole chiare,
    che il mio cuore ha posto il suo amore sincero
    nella bella figliuola del ricco Capuleti;
    e come il mio cuore è nel suo,
    così il suo è nel mio cuore.*




    *Romeo e Giulietta, Atto II, Scena IV.



    FINE CAPITOLO 9°





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    EPILOGO: Costruire i ricordi


    1610699876407epilogo



    Stratford-upon-Avon,
    Warwickshire
    ,
    01 luglio 1934


    Seduta su un morbido e avvolgente divano di chintz verde, la duchessa di Granchester aprì il coperchio del prezioso scrigno di famiglia tempestato di pietre preziose, nel quale da anni conservava i suoi ricordi più cari, che quel giorno aveva sparso attorno a sè come corolle di fiori su un prato.
    Il divano, con le sue due poltrone ai lati, era posto di fronte a un ampio camino in pietra chiara che dominava la stanza, creando un affascinante contrasto di materiali e colori con le imponenti librerie di ciliegio, copie perfette di quelle che avevano regnato nello studio di Terence del loro appartamento di New York. Con gli anni, l’ordinata successione di volumi rilegati in pelle era stata via via rotta da un’alternanza di fotografie incorniciate, raffiguranti i volti e le storie delle persone care.
    La luce intensa del pomeriggio estivo, con i suoi suoni e profumi tipici della campagna inglese, si riversava all’interno della stanza da una grande porta-finestra aperta su una immensa terrazza sormontata da una tettoia in caldo legno di faggio, dalla quale scendevano i ciuffi in fiore di un maestoso glicine dalle delicate sfumature lilla. Bastava poi avvicinarsi all’esterno per essere avvolti dall’inebriante profumo dei narcisi che crescevano a poca distanza dalla casa, lungo le rive del fiume Avon, le cui placide acque in quel momento erano accese in una sfarzosa tonalità d’azzurro dagli ultimi raggi del sole pomeridiano.
    Candy diede un ultimo sguardo a tutti i suoi preziosi tesori prima di iniziare a raccoglierli uno ad uno per riporli delicatamente nel cofanetto istoriato, quasi ridestandosi da un lungo sogno che quel giorno l’aveva portata a ripercorrere le scene della sua vita come se scorresse i fotogrammi di un film, ciascuno proiettato nella sua mente dalla vista di uno degli oggetti attorno a lei.
    In fondo alla preziosa scatola, depose la lettera scritta ad Anthony in un altro giorno di nostalgico abbandono al passato come quello; un giorno in cui aveva sentito impellente il bisogno di dirgli tutto ciò che il destino, crudelmente accanitosi su quel ragazzo troppo buono, le aveva impedito di condividere con lui, strappandolo tanto presto al suo affetto.
    “Tu, Stair e tutte le persone che incontrerò nel mio cammino, le cose tristi e le cose belle… Nutrendomi dei miei ricordi, io continuerò a vivere, restando sempre me stessa.” 1
    Impilò in bell’ordine le lettere di Albert. Fogli ingialliti che l’avevano riportata a giorni lontani vissuti alla casa di Pony in attesa di una sua lettera dal Brasile o dall’Europa; e lettere più recenti, giunte dalla casa di Saint Denis in cui lui viveva da dieci anni con Josephine e i loro tre figli: Etienne, Antoine e la piccola Rosemary, della quale lei era l’orgogliosa madrina. Ripose le lettere in fondo al cofanetto, adagiandovi sopra il simbolo dell’intreccio delle loro vite: il medaglione del principe della collina che aveva guidato e indirizzato la sua vita fin dal giorno in cui tutto era iniziato: il giorno in cui Annie aveva lasciato la casa di Pony.
    Il familiare scampanellio del pendaglio come sempre le evocò il profumo di erba bagnata e il suono di una cornamusa, che la prima volta che era giunta al suo orecchio le era sembrato così simile a quello di una fila di lumache striscianti.
    “Sei più carina quando ridi che quando piangi!”.
    Candy sorrise mentre una stilla brillante di nostalgia si fermava in equilibrio a un angolo del suo occhio, indecisa se proseguire o meno la sua corsa lungo la gota.
    Adagiò con cura accanto al medaglione il carillon della felicità di Stear, il cui meccanismo non si era mai più inceppato da quel giorno a New York in cui aveva celebrato con la sua dolce melodia il ritorno della felicità più completa nella vita di Candy.
    Infine, raccolse con infinita tenerezza dal divano la croce della felicità che Miss Pony le aveva donato il giorno in cui aveva lasciato la casa dove era cresciuta per andare incontro al suo destino, affinché la proteggesse e guidasse i suoi passi. Nonostante le difficoltà e i dolori, gli addii e le separazioni che aveva dovuto affrontare nella vita, Candy non si era mai sentita sola finché quella croce aveva brillato per lei, come un faro nella notte.
    La luce rossa di un tramonto spettacolare cominciava lentamente ad accendere il salotto con i suoi raggi accecanti quando Candy, appagata dall’intensità dei ricordi ai quali si era abbandonata in quel pomeriggio solitario, chiuse con un sospiro il cofanetto damasceno e si alzò per riporlo al suo posto d’onore sul ripiano della libreria.
    Nel farlo, si soffermò a scorrere la moltitudine di volti color seppia che facevano compagnia alla lunga e ordinata profusione di testi di Shakespeare in tutte le loro possibili edizioni: dalle più recenti, alle opere prime di incommensurabile valore provenienti dall’amata biblioteca di Granchester Manor.
    Seguendo un ordine dettato solo dal caso, posò lo sguardo sulla foto raffigurante una Patty raggiante al fianco di Hal il giorno delle loro nozze (benedette da due splendide - e ovviamente intelligentissime - figlie) e, immediatamente dopo, su quella che immortalava Archie e Annie con in braccio la neonata Sophie e i gemelli Pauline e Alistear, che all’epoca dello scatto avevano tre anni.
    Sull’angolo più a sinistra della libreria, accanto ai libri di medicina che Candy aveva portato con sé dal Roosevelt Children’s Asylum, dove aveva lavorato per quasi quindici anni, faceva invece bella mostra di sé la fotografia più recente: era stata scattata il quattro marzo dell’anno precedente, il giorno dell’insediamento di Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti, mentre sua moglie Eleanor, tuttora una delle migliori amiche di Candy, con il consueto sguardo ardente, acceso quel giorno di incommensurabile orgoglio, reggeva la Bibbia sulla quale il marito giurava fedeltà alla nazione e alla costituzione degli Stati Uniti.
    Senza alcun apparente nesso logico, accanto alla foto dell’insediamento presidenziale ve n’era una che raffigurava soggetti molto più umili ma ugualmente amati: Mary, Stewart, Dug e il defunto Mr. Whitman, ritratti nell’indimenticabile giorno di Miami in cui si erano ritrovati. Candy prese la foto tra le mani, chiedendosi se tutti loro si stessero prendendo adeguata cura dei luoghi della memoria a lei tanto cari a Lakewood: il cancello nella roccia di Archie, il portone sotto la cascata di Stear e, soprattutto, il cancello delle rose del suo Anthony 2 .
    Quanta felicità e quanto dolore tra quei boschi e quei prati!
    Infine, lanciò una lunga occhiata compiaciuta alla foto che ritraeva tre anni prima una Eleanor Baker ancora bellissima sotto le palme di Los Angeles al braccio di Charles Chaplin. Candy era certa che il grande attore non si fosse mai pentito di averle dato una seconda opportunità, visto che sua suocera, dopo aver esordito sotto la regia del grande genio nel 1920, era diventata una delle più sfavillanti stelle del firmamento di Hollywood. Nonché, come aveva previsto Terence, una delle principali cause delle frequenti crisi isteriche di dive come Mary Pickford e Gloria Swanson, la cui effimera e artefatta bellezza era stata prontamente messa in ombra dal fascino senza tempo di Eleanor.
    In alcuni momenti, come quello, la lontananza da tutte le persone così care al suo cuore creava delle ondate di nostalgia difficili da respingere, simili alla marea che saliva, lenta ma inesorabile verso il suo cuore. Ma con gli anni Candy aveva imparato a riconoscere i cerchi concentrici sempre più ampi che la malinconia talvolta disegnava sulla superficie della sua anima. E aveva imparato a non combatterli, perché, anche se il sapore dei ricordi era dolce-amaro, il retrogusto che lasciavano sapeva immancabilmente di buono, come sempre accade per le cose della vita che hanno a che fare con l’amore...
    Tornando pensierosa verso il camino, Candy accese il faretto argentato che proiettava il suo fascio di luce direttamente sul quadro di Slim, appeso al posto d’onore sopra la mensola di pietra. Nella penombra del crepuscolo che cominciava ad allungare le sue ombre nella stanza, insieme al canto dei primi grilli, sedette di nuovo sul divano e prese a fissare commossa il familiare panorama che quindici anni prima Terence aveva riconosciuto al primo sguardo, pur avendolo visto solo una volta prima di allora, e che era dipinto a tinte indelebili nella sua mente ancor più che sulla tela di fronte a lei. L’onda nostalgica dei ricordi toccò il suo culmine e rischiò di sommergerla mentre posava lo sguardo sulla casa di Pony.
    Non vedeva Miss Pony e Suor Maria da più di un anno, e quella era in assoluto la mancanza dalla quale il suo cuore era più lacerato, soprattutto adesso che la salute di Miss Pony cominciava a declinare sotto il peso del tempo e delle fatiche. A dare segni di cedimento era stato proprio quel cuore che aveva pulsato per più di quarant’anni, traboccante d’affetto, per ogni bambino accolto amorevolmente tra le sue braccia materne. In uno strano e complesso gioco di specchi, in quel momento il cuore di Candy urlava per il bisogno di essere vicina alla donna che le aveva fatto da madre; ma lo stesso dovere di madre la tratteneva lontana da lei.
    Candy si sfiorò delicatamente il ventre. Ancora non c’erano tracce visibili, ma poteva sentire con l’intensità dell’insondabile legame materno il soffio di una nuova vita crescere dentro di lei, un po’ di più a ogni istante che passava, nutrita dalla forza del suo amore.
    Con una gravidanza quasi al terzo mese alla “veneranda” età di trentasei anni, proprio quando aveva ormai deposto ogni speranza di poter di nuovo essere benedetta da quel miracolo, era impensabile per lei affrontare il lungo viaggio oltreoceano necessario per recarsi al capezzale di Miss Pony. Terence era stato irremovibile su quel punto e, nonostante lei avesse cercato di insistere un po’, come sempre più per non dargliela subito vinta che per reale convinzione, non aveva potuto fare a meno di essere d’accordo che la salute sua e della piccola Maria avevano la priorità in quel momento.
    Maria...
    Candy sorrise. Sentiva con certezza che la prossima nata sarebbe stata una femmina. Esattamente come aveva saputo di portare in grembo l’erede maschio del casato dei Granchester, tredici anni prima.

    - Sarà un maschio!
    Quando Candy aveva enunciato con la certezza di un dogma tale verità assoluta Terence, sempre argutamente pronto a controbattere e a dare il via alle loro infinite schermaglie verbali, non aveva avuto il coraggio di proferire verbo, inchinandosi di fronte al mistero della maternità e dichiarando fin da subito che avrebbe lasciato a Candy l’incombenza di scegliere il sesso del nascituro, a condizione che lui potesse deciderne il colore degli occhi.
    E, in effetti, il piccolo Richard si era prontamente dimostrato un figlio modello per suo padre, esibendo, sì, un ciuffo di capelli lievi come piume e del colore del cioccolato, ma anche un paio di grandi occhi inequivocabilmente dello stesso colore di quelli della madre, nei quali Terence si era smarrito, innamorandosi a prima vista del figlio in un ripetersi della medesima magia di cui era già stato vittima un’altra volta, incrociando per la prima volta un paio di iridi della medesima tonalità sbucate fuori dalla nebbia.
    Il giorno in cui aveva tenuto tra le braccia il suo piccolo Richard appena venuto al mondo, Terence aveva lasciato finalmente fluire fuori dal proprio corpo le lacrime rimastevi imprigionate fin dai giorni della sua infanzia, liberando insieme a esse la solitudine e la sofferenza del bambino che era stato, separato dalla madre e ignorato dal padre, e che adesso vedeva una nuova occasione di felicità nella vita che teneva tra le braccia. In quel momento promise a se stesso che suo figlio non avrebbe mai e poi mai dovuto dubitare del suo amore, nemmeno per un istante.
    Negli anni, Candy aveva assistito meravigliata e commossa, quasi soffocata dall’intensità dei suoi nuovi sentimenti di madre, al fiorire di quella straordinaria storia d’amore e comunione tra i due uomini più importanti della sua vita: Rickie era l’unico figlio maschio di cui lei avesse notizia che fosse più legato al padre che alla madre. E sebbene il bambino amasse intensamente la sua bionda e bellissima mamma, nei confronti di Terence nutriva una vera e propria, ricambiata, venerazione.
    Ogni giorno, da quando aveva circa tre anni fino a quando non aveva iniziato a frequentare la scuola, mezz’ora prima del solito orario in cui Terence rincasava dal teatro Stratford, Rickie era stato solito arrampicarsi su una sedia appositamente posizionata davanti alla finestra del loro appartamento, attendendo eccitato di vedere comparire il padre dall’angolo di Washington Square per precipitarsi tra le sue braccia pazzo di felicità nel momento stesso in cui lui entrava dall’uscio. Da quel momento in poi la divertentissima mammina, con la quale aveva condiviso mille giochi e un profluvio di risate tra i viali di Central Park rincorrendo scoiattoli o facendo pupazzi di neve cessava di esistere, totalmente eclissata dalla luce sfavillante dell’astro al centro del suo universo: suo padre.
    Erano inseparabili: che Terence gli insegnasse ad andare a cavallo o che leggessero l’uno all’altro le opere di Shakespeare, con le quali Rickie aveva iniziato a sillabare. Ma il momento in assoluto più intenso tra loro era quando suonavano insieme il grande pianoforte a coda: Rickie, concentratissimo, faceva volare le sue manine sui tasti, dondolando i piedini dall’alto sgabello, mentre Terence, seduto sorridente al suo fianco, pigiava per lui i pedali dello strumento, in una scena così traboccante d’amore e condivisione che, guardandoli dalla poltrona davanti alla grande vetrata dello studio, Candy invariabilmente si portava le mani al petto, come a trattenervi a forza il cuore che minacciava di scappare via dalla sua sede naturale, per raggiungere quelle due persone che rappresentavano il suo universo e aggiungersi a quel quadro perfetto.
    In quegli anni newyorkesi le perfette gratificazioni della vita domestica erano state accompagnate per i coniugi Granchester da uguali soddisfazioni nella vita professionale: mentre Candy dirigeva con impegno e passione l’ospedale di Mrs. Roosevelt, nel corso di tutti gli anni Venti Terence aveva interpretato trionfalmente l’intero repertorio shakespeariano. In un crescendo di naturale talento e immedesimazione totale con gli scritti del bardo, aveva vissuto di volta in volta le vite del Mercante di Venezia e di Macbeth, era stato Re Lear e Marco Antonio, assurgendo alle più alte vette dell’olimpo degli attori shakespeariani mondiali e ponendosi di fatto come l’unico rivale al livello del divino John Barrymore.
    La sua fama in continuo crescendo non gli aveva, peraltro, impedito di mantenere l’ormai proverbiale atteggiamento misantropico: nell’ambiente teatrale la sua scontrosità era rimasta leggendaria, anticipando di qualche anno quella di colui che sarebbe diventato a tutti gli effetti il suo successore: Laurence Olivier.
    Candy era profondamente divertita dal doppio ruolo che il marito riusciva a recitare: tanto lunatico e riservato in pubblico, quanto follemente innamorato della moglie e totalmente asservito al figlio in privato.
    Eppure tutti sostenevano che, rispetto agli esordi, il matrimonio aveva addolcito il pur sempre mutevole umore di Terence Graham il quale, se negli anni precedenti raramente era stato visto salutare i colleghi tra i corridoi del teatro Stratford, da quando si era sposato era stato notato addirittura a pochi e selezionati eventi pubblici al braccio della splendida moglie. I più fortunati erano perfino arrivati a giurare a increduli ascoltatori di averlo visto ridere per qualche battuta della bellissima donna al suo fianco.
    Candy, Terence e Rickie avevano così condotto un’esistenza felice e appagante in quegli anni, appena sfiorati, tramite il gran numero di bambini abbandonati che giungevano ogni giorno al Roosevelt Children’s Asylum, e di cui Candy raccontava al marito con gli occhi pieni di lacrime di impotenza, dagli effetti devastanti della grande crisi che aveva messo in ginocchio l’America e il mondo. L’unico rimpianto era quello di non essere riusciti ad allargare ulteriormente la famiglia nonostante la coppia, innamorata e appassionata esattamente come il primo giorno, non avesse mai deposto le armi ed avesse continuato a dedicarsi alacremente e infaticabilmente, con sommo piacere, ai tentativi necessari.
    Infine, il destino si era presentato di nuovo dietro uno degli angoli del loro cammino, proprio come Miss Pony diceva sempre: il duca di Granchester era morto nel maggio del 1933 e Terence aveva ereditato il titolo e tutti gli onori che ne derivavano, comprese le molteplici proprietà terriere in Inghilterra e Scozia e il relativo seggio alla camera dei Lord.
    Il carico di responsabilità che veniva a Terence con l’eredità era troppo oneroso perché potesse essere gestito dagli Stati Uniti e inoltre l’uomo desiderava onorare la memoria del padre, rendendosi meritevole della fiducia e dell’amore che gli aveva accordato, nonostante l’illegittimità dei suoi natali.
    Dopo quasi vent’anni sui palcoscenici di Broadway, Terence aveva comunque già cominciato, indipendentemente dal lutto che lo aveva colpito, a sentire il peso della ripetitività del suo lavoro. Già da qualche tempo aveva confidato alla moglie di star maturando il proposito di abbandonare le scene, prima che l’abitudine – la peggior nemica dell’arte - sopraggiungesse a spegnere completamente il fuoco della passione che aveva animato tutte le sue interpretazioni fin dal 1914, eccezion fatta per il buco nero del periodo di Rocktown.
    Aveva quindi deciso di fare il grande passo e di spostarsi dietro le quinte, mettendo a frutto il suo incommensurabile talento artistico nei nuovi panni di regista. Era stata perciò letta quasi come un segno del destino, stavolta benevolo, la proposta di collaborazione arrivata un mese dopo i funerali del duca da parte del più importante teatro shakespeariano londinese, lo storico Old Vic. Una rapida consultazione aveva portato la coppia alla convinta decisione di partire, per iniziare in Inghilterra quella nuova fase della loro vita. Terence era molto perplesso all’idea di portare Candy così lontana da tutti i suoi affetti, ma lei non aveva avuto alcun dubbio: il loro posto adesso era in Inghilterra, dove un giorno anche loro figlio avrebbe ereditato il titolo che adesso passava a Terence.
    Dopo solo poche settimane nella residenza ufficiale di Granchester House a Londra, tuttavia, era risultato chiaro che i ricordi dell’infanzia infelice che vi aveva trascorso incupivano e addoloravano Terence oltre ogni dire e, sebbene il marito non ne avesse fatto alcun cenno, Candy aveva esercitato la sua abilità nel leggergli dentro come un libro aperto ed era penetrata nei segreti del suo cuore.
    Terence non aveva pace e cercava di passare più tempo possibile fuori da quella casa, tra i cui infiniti corridoi e dietro le cui pesanti porte di legno massiccio si celavano ombre troppo oscure e dolorose.
    Candy soffriva indicibilmente per lui e aveva deciso che fosse necessario riportare la serenità sui lineamenti di quel volto amato.
    Trasferirsi in Scozia era impensabile, data la lontananza da Londra, dove gli impegni istituzionali della camera dei Lord e quelli professionali all’Old Vic richiedevano la costante presenza di Terence. Dopo un lungo rimuginare, però, le era finalmente venuta l’idea perfetta: c’era un solo luogo in Inghilterra in cui Terence avrebbe potuto sentirsi veramente a casa.

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    E così erano iniziate le sue ricerche, condotte nella più totale segretezza dal marito, che erano culminate nell’acquisto di quel cottage sulla riva del fiume Avon, dove Terence era letteralmente rinato nel giro di pochi giorni, e da cui poteva comodamente raggiungere Londra in macchina in poco più di un’ora. In quel modo sarebbero anche stati vicini a Rickie, che nel settembre successivo avrebbe iniziato a frequentare la Royal St. Paul School.
    Granchester House era stata chiusa senza rimpianti, e i coniugi stavano valutando cosa farne per il futuro. Tra le idee allo studio vi era anche quella di metterla a disposizione dello Shakespeare Memorial Theatre, affinché venisse utilizzato per realizzarci un museo dedicato alla vita e alle opere del grande drammaturgo.
    Candy, dal canto suo, non era certo rimasta con le mani in mano e nel giro di poche settimane aveva cominciato a collaborare con la croce rossa locale, le cui alte cariche erano ben liete di poter vantare la duchessa di Granchester tra i suoi commissari.
    Da diversi mesi, quindi, Terence stava lavorando con la consueta totale abnegazione e studio maniacale al suo prossimo esordio alla regia, previsto per l’autunno seguente. Ancora una volta, come nel dipanarsi di un filo rosso con il quale il destino aveva sempre amato unire i vari pezzi della sua esistenza, il suo nuovo inizio, dopo quello da attore protagonista vent’anni addietro, sarebbe passato per le strade di Verona e per la tragica storia di Romeo e Giulietta, così indissolubilmente legata, con i suoi versi e i suoi ricorsi, ai momenti più significativi della sua vita e del suo amore.

    Candy si riscosse con un sussulto dai propri ricordi nell’udire il rumore dell’auto che entrava a passo d’uomo nel viale d’accesso della casa e si fermava davanti all’ingresso.
    Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta accoccolata sul divano, immersa nella visione del film del suo passato. La penombra si era trasformata in un buio fitto, spezzato solo dal tenue riverbero del faretto sopra il quadro di Slim, e la leggera brezza pomeridiana si era in qualche momento della sera trasformata in una corrente più fredda e umida proveniente dal fiume Avon.
    - Candy, si può sapere cosa fai da sola al buio?
    Nell’udire la voce di Terence proveniente dall’anticamera, il consueto brivido di amore e di eccitazione che non cessava mai di attraversarla, nonostante fossero passati più di vent’anni dalla prima volta che l’aveva ascoltata, compì il familiare tragitto lungo la sua schiena.
    Candy ascoltò i suoi passi eleganti attraversare il corridoio e farsi sempre più vicini, pregustando come sempre il momento di pura felicità che sarebbe esploso in mille cristalli d’arcobaleno dentro di lei non appena il marito fosse entrato nel suo campo visivo.
    L’inconfondibile ombra alta e slanciata comparve nella cornice delimitata dalla porta del salotto, e Candy poté intuire, più che distinguere nel buio, la mano curata del marito sporgersi sul bordo della parete per posarsi sull’interruttore.
    In un attimo la stanza fu inondata di luce; ma più intenso di tutto era il riflesso color fiordaliso degli occhi di Terence, che la fissavano colmi di preoccupazione.
    - Candy, stai bene? Perché non hai acceso la luce?
    Abbandonando il passato per tornare nel suo meraviglioso presente, Candy volò tra le sue braccia già aperte per accoglierla, sussurrandogli, stretta nella sicurezza del suo abbraccio:
    - Bentornato!

    Erano seduti l’una accanto all’altro sul divano che era stato per Candy teatro delle solitarie rievocazioni di quel giorno. Terence aveva accostato la finestra e acceso decine di candele in giro per la stanza: adesso, al posto dell’abbagliante luce del lampadario, nella stanza aleggiava un bagliore intimo e tenue che proiettava ombre magiche e vibranti sulle pareti.
    - Com’è andato il gran giorno? – chiese Candy, accoccolata con le gambe ripiegate sotto di lei e il capo abbandonato sul petto del marito.
    Terence aveva portato Rickie a Westminster per assistere a un importante dibattito presso la camera dei deputati.
    - Molto bene – le rispose, accarezzando i capelli che Candy da qualche anno aveva tagliato appena sotto le orecchie, su suo suggerimento: Terence amava trovare la morbida linea del collo della moglie scoperta e indifesa sotto l’assalto della sua bocca – è stato un dibattito molto acceso, come mi aspettavo. Rickie e Robbie Westmoreland non si sono persi una parola e alla fine tuo figlio ha assolutamente preteso che lo accompagnassi a salutare Sir Winston Churchill, autore di uno dei suoi soliti visionari e appassionati interventi contro Hitler. Credo che nostro figlio abbia appena sostituito suo padre con un nuovo eroe.
    - Tu non sei stato da meno, Terry, alla camera dei Lord. Ti ho sentito poche settimane fa tuonare contro le violenze e le illegalità dei nazisti in Germania. Ti assicuro che mi hai fatto rabbrividire.
    - La mia pratica nel declamare versi shakespeariani con il tono di voce di Giulio Cesare mi è stata d’aiuto in quel frangente – commentò Terence, con il ghigno insolente che ancora dopo tanti anni dalla sua ribelle giovinezza ne costituiva il marchio di fabbrica – ma temo di essere una mosca bianca in una camera dei Lord così conservatrice. Credo che qualcuno di quei parrucconi dubiti addirittura della coincidenza dei miei geni con quelli di mio padre.
    Candy sorrise all’idea del suo giovane ed affascinante marito in quel consesso imbalsamato e stantio.
    - A ogni modo, Maria – riprese Terence con un tono fintamente oltraggiato, rivolgendosi direttamente al ventre di Candy e muovendo un indice minaccioso al suo indirizzo – spero che tu non ti dimostrerai ingrata come tuo fratello e che non mi accantonerai alla prima occasione come ha fatto lui, a beneficio del primo brillante oratore che ti affascinerà con il suo eloquio!
    - Oh, per favore, Terry! Ma se Rickie bacia la terra su cui cammini! Smettila di fare il buffone!
    - Questa sera quando l’ho lasciato in casa del duca di Westmoreland con il suo amico Robbie, non si è girato neanche una volta per salutarmi sulla soglia! – si lamentò Terence con voce piagnucolosa.
    Candy scoppiò a ridere. Quell’uomo era una contraddizione vivente, un affascinante mistero per chiunque, tranne che per lei.
    Terence, senza interrompere la sua ritmica carezza tra i capelli della moglie, compì a quel punto una delle proprie tipiche e repentine giravolte mentali, che lo portò ad abbassare il tono della voce di alcune ottave per sussurrare al suo orecchio:
    - Sa che giorno è oggi, Milady?
    - Mmmmh... – mugolò Candy, quasi ipnotizzata dal suo tocco – giovedì?
    - È giovedì primo luglio...
    - Ah sì, Vostra Grazia?
    - Sì, duchessa Tuttelentiggini, il che le suggerisce qualcosa?
    - Certo! Che da quindici anni sopporto ogni giorno quell’odioso soprannome.
    - Per l’esattezza da quindici anni questo è il tuo soprannome da donna sposata! La prima volta che lo hai udito era il trentuno dicembre del 1912, mia cara.
    - Come potrei dimenticarmene? Le mie lentiggini me lo ricordano di continuo! E anche la scritta all’interno del mio anello.
    Terence le mise un dito sotto il mento per sollevarle leggermente il viso e incrociare il suo sguardo, bruciando esattamente come il primo giorno dal desiderio di perdersi nell’immensità verde di quegli occhi di smeraldo.
    - Anch’io me lo ricordo sempre. E ringrazio il cielo di avere preso quel piroscafo.
    Candy sollevò una mano per accarezzare il volto del marito.
    - E io ringrazio il cielo di avere le lentiggini.
    Terence sorrise, completamente in balia del suo amore per quella donna incredibile che lo aveva trovato nella nebbia in una notte lontana e che lo aveva salvato mille volte da se stesso, entrando nel suo cuore per non uscirne più, nonostante tutti gli sforzi fatti dal destino per strapparvela.
    Si allungò verso di lei per posarle un bacio lieve sulla fronte e poi, scostandosi quel tanto che bastava per incatenarle gli occhi ai suoi, mise nella propria voce la stessa intensità con cui Romeo aveva parlato alla sua Giulietta per declamare:
    - È la mia donna, oh! Il mio amore. Ah potesse saperlo lei che è così! Ecco: parla... ma senza parole. E com’è? Parlano i suoi occhi...3
    Mentre pronunciava quei versi con la sua calda voce di velluto, Terence allungò una mano verso il grammofono alla sua destra e, senza spezzare il contatto tra i loro occhi, mise la puntina sul disco già pronto e avviò il meccanismo.
    Le dolci note e le struggenti parole d’amore di Annie Laurie modulate dal caldo timbro di John Mc Cormack si diffusero nell’aria, avvolgendo la stanza in un’atmosfera magica, amplificata dal tenue riflesso delle candele che creava giochi di chiaroscuri sui loro volti.
    Video
    Maxwellton braes are bonnie,
    Where early fa's the dew,
    And 'twas there that Annie Laurie
    Gave me her promise true.
    Gave me her promise true,
    Which ne'er forgot will be,
    And for bonnie Annie Laurie
    I'd lay me doun and dee.
    Her brow is like the snawdrift,
    Her neck is like the swan,
    Her face it is the fairest,
    That e'er the sun shone on:
    That e'er the sun shone on,
    And dark blue is her e'e,
    And for bonnie Annie Laurie,
    I'd lay me doun and dee.
    Like dew on the gowan lying,
    Is the fa' o' her fairy feet:
    And like winds in summer sighing,
    Her voice is low and sweet:
    Her voice is low and sweet,
    She's a' the world to me,
    And for bonnie Annie Laurie,
    I'd lay me doun and dee.


    Le colline a Maxwellton,
    Eran verdi, erano in fior,
    E splendevan di rugiada
    Quel dì che Annie Laurie
    La sua promessa a me donò
    E che mai più io scorderò
    E per Annie Laurie, sai,
    La vita mia darei

    La sua fronte è come neve,
    Il suo collo come un cigno,
    Mai volto più bello
    Baciato dal sole fu,
    E gli occhi suoi risplendon
    di un profondo blu
    E per Annie Laurie, sai,
    La vita mia darei

    Il passo suo legger
    È come rugiada che abbevera i fior,
    E la voce sua, profonda e dolce,
    È come il vento in un sospir d'estate
    Tutto il mondo è lei per me
    E per Annie Laurie, sai,
    La vita mia darei
    .

    - Vuoi ballare, Candy? – le sussurrò.
    - Perché, Terry? – chiese lei, come aveva fatto quel giorno sulla seconda collina di Pony.
    - Per poi poterlo ricordare – rispose lui ancora una volta dopo tutti quegli anni, prendendola per mano e aiutandola ad alzarsi.
    Terence strinse Candy tra le braccia, cominciando a muoversi lentamente con lei nella luce soffusa delle candele al ritmo romantico di quella ballata, sulle cui note era cominciato tutto.
    Il riverbero color miele generato dal chiarore tremulo delle candele creava sulle due figure allacciate al centro della stanza dei sinuosi giochi d’ombre che ne accompagnavano i movimenti.
    L’intensità della fiamma che ardeva reciprocamente nei loro cuori era la stessa che era divampata quella prima notte nella nebbia, alimentata a ogni passo del cammino che da allora avevano percorso, anche quando il destino li aveva separati per poi chinare il capo di fronte alla loro forza.
    Candy sapeva che entro pochi istanti Terence avrebbe posato le labbra sulle sue, reclamando il suo corpo e la sua anima che si sarebbero abbandonati completamente a lui, non anelando a nient’altro. Come sempre e per sempre.
    Ma prima, mentre i loro corpi si muovevano all’unisono nella magia di quel ballo, i loro occhi si incontrarono ancora una volta. E in quel momento, la soffusa e complice penombra creata dalla fiamma delle candele si accese di una nuova luce intensa e invincibile, che aveva i toni del verde e del blu: il riflesso degli smeraldi e dello zaffiro.


    L’amore è una nebbia formata da un vaporar di sospiri;
    se si scioglie, sfavilla il fuoco nelle pupille degli amanti;
    ma se si addensa, è un mare nutrito delle loro lacrime.
    Che è ancora?
    Una pazzia docile, un’amarezza che stringe il cuore;
    una dolcezza che risolleva.*



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    Disegno realizzato dalla dolcissima Desiree



    1Candy Candy Final Story, Ed. Kappalab, Volume II, pag. 237

    2 In Final Story Candy si chiede se i nuovi “proprietari” di Lakewood si prendano sufficiente cura dei luoghi della sua infanzia. Non ho avuto cuore di lasciare la mia amata Lakewood tra le mani dei Legan per più di 15 anni, quindi scelgo di interpretare quella frase come faccio in questo paragrafo... Spero che i puristi di Final Story mi perdoneranno...N.d.A.

    3 Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.

    *Romeo e Giulietta, Atto I, Scena I


    FINE




    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è->QUI<-

    n.d.a.2 A tutti coloro che sono passati da queste pagine e hanno amato questa storia: sarò lieta, qualora lo desideraste, di condividere con voi il pdf di "Gli Smeraldi e lo Zaffiro".
    Scrivetemi pure un messaggio privato con il vostro indirizzo email. Un abbraccio e grazie per la vostra vicinanza!


    Edited by Cerchi di Fuoco - 17/1/2021, 11:42
     
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34 replies since 8/9/2020, 08:47   7912 views
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