Gli Smeraldi e lo Zaffiro

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    "Se fuggire fosse una soluzione, io sarei fuggito da te già da tanto tempo"

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    New York,
    21 aprile 1919


    Terence sbarcò a New York in una radiosa mattina di primavera in cui il sole si rifletteva nelle acque dell’Upper New York Bay, creando un effetto simile ad un pavé di diamanti ai piedi dell’inconfondibile skyline, sempre più vicino e maestoso a mano a mano che la nave faceva il suo lento ingresso nel porto. Il rimorchiatore trainava la nave verso il suo attracco, scortata dal gioioso e chiassoso volo dei gabbiani che compivano le proprie evoluzioni di benvenuto al nuovo gigantesco arrivato.
    Affacciato al parapetto del ponte con i capelli lucenti scarmigliati dal vento ad accarezzargli il viso, Terence respirò a pieni polmoni l’aria salmastra del porto, godendo della sensazione di essere di nuovo a casa e nello stesso tempo vivendo emozioni totalmente nuove rispetto a quando era partito. Sfilando dinanzi alla maestosa Statua della Libertà quella mattina si sentiva in perfetta sintonia con i milioni di uomini e donne pieni di speranza in un futuro migliore che erano sbarcati e sbarcavano ogni giorno a Ellis Island, prima tappa dei loro viaggi verso le destinazioni e i destini più disparati. Sentiva di avere in comune con loro quel fremito di entusiasta curiosità per la scoperta di cosa avesse in serbo per loro quella nuova vita per la quale avevano abbandonato ogni certezza del passato, e nello stesso tempo i dubbi e la paura che dovevano attanagliarli al pensiero di avere scommesso tutto su un unico giro di roulette che aveva molte più probabilità di risultare perdente che vincente.
    Rouge ou Noir! Rien ne va plus...

    new_york




    Durante i cinque giorni della traversata, Terence aveva condotto vita molto ritirata e socializzato poco con i marinai del Pearl e il capitano Crawford. Consumava i pasti in orari e locali differenti da quelli degli uomini dell’equipaggio che, sempre intenti nelle proprie occupazioni, si limitavano ad osservarlo da lontano. Erano tutti incuriositi e affascinati da quel giovane taciturno e riservato dagli occhi seri e profondi dello stesso colore del loro elemento naturale, l’oceano, ombreggiati dal ribelle ciuffo castano che scendeva a coprirli, impedendo a chiunque di leggervi dentro. Nel complesso l’aura di mistero che emanava la sua figura li intimidiva non poco.
    Le voci sul suo conto crescevano di giorno in giorno e, se già la sua fama quale figlio di un duca ed erede di una delle maggiori fortune d’Inghilterra aveva preceduto la sua salita a bordo, Steve Red Pumpkin Stevens, così soprannominato per via di una folta zazzera rossa orgogliosamente esibita, da appassionato delle arti figurative e grande esperto di teatro (titolo che si era meritatamente guadagnato per aver allestito una versione del “Canto di Natale” di Dickens nella sua parrocchia a Liverpool, l’inverno precedente) aveva addirittura buttato sul tavolo tra gli “ooooh” e gli “aaaah” di stupore dei compagni la sorprendente novità che il marchese era addirittura uno dei più acclamati attori del momento!
    La notizia aveva suscitato il dovuto scalpore tra l’equipaggio, e sarebbe stato difficile dire se il timore reverenziale che da quel momento aveva accompagnato ogni passaggio del giovane taciturno sul ponte fosse dovuto più al titolo nobiliare o alla sua fulgida stella teatrale.
    Terence aveva ignorato deliberatamente le curiosità sul suo conto, scambiando solo dei cortesi cenni di saluto con chiunque incontrasse tra i corridoi o sul ponte della nave, sul quale era solito trascorrere gran parte della giornata, godendosi il sole primaverile e la dolce brezza che saliva dal mare. Avendo però colto gli echi dei molteplici interrogativi e delle leggende sul suo conto che, fomentate da Red Pumpkin, stavano ormai divampando a bordo, talvolta la sua vena maliziosamente beffarda aveva preso il sopravvento e il giovane si era divertito a stuzzicare le fantasie dei marinai, lasciandosi osservare mentre, assorto, passeggiava su e giù per il ponte, un libro di tragedie shakespeariane in una mano e l’altra teatralmente sulla fronte come in cerca di un’alta ispirazione. Sapeva che sarebbero bastati pochi minuti di tale pantomima per alimentare chiacchiere sufficienti a riempire lo spazio della cena in cambusa. E infatti puntualmente ogni sera Red Pumpkin, tra una pinta di birra e l’altra, chiedeva ai compagni con aria eccitata se non sarebbe stato fantastico che, in occasione della sua prossima intervista per il New York Times, quella star di Broadway avesse addirittura accennato al fatto di avere trovato l’ispirazione giusta per la sua più recente interpretazione proprio sul ponte del Pearl…
    Ma, a parte il diversivo fornito dai suoi scherzi ai danni dell’inconsapevole equipaggio, la maggior parte del tempo lo spirito di Terence rimaneva soffocato da una malinconia inquieta, e si poteva notarlo osservare il riflesso delle onde con aria assorta, come a cercare dentro di esse una previsione, con la stessa ansiosa aspettativa con cui una veggente avrebbe scrutato la propria sfera di cristallo. A volte le sue meditazioni erano accompagnate dalla struggente melodia dell’armonica che portava sempre con sé.
    Ma, soprattutto, aveva scritto.
    Aveva scritto tonnellate di carta e fiumi di inchiostro, producendo però – ahimè - ben poco: sembrava assolutamente evidente che non giungesse a essere mai soddisfatto dei frutti della propria fatica, almeno a quanto l’equipaggio poteva arguire dai cumuli di fogli appallottolati, cancellati e strappati rabbiosamente che ogni sera l’imperscrutabile ospite raccoglieva attorno a sé per gettarli via. Ben presto tra gli uomini dell’equipaggio si era diffusa una boutade secondo la quale in quel viaggio fosse stato risparmiato del tutto il carbone di alimentazione per le caldaie, poiché al suo posto l’energia necessaria a far girare i motori del Pearl dall’Inghilterra agli Stati Uniti era stata fornita dalla sola carta prodotta dal giovane lunatico marchese dai capelli mori.
    Si trattava ovviamente dei ripetuti, e ai suoi occhi mai soddisfacenti, tentativi di scrivere a Candy la lettera che Terence aspettava di comporre da troppi anni. Talvolta gli sembrava che le sue parole dicessero troppo e subito dopo riteneva di aver fatto virare il tono ad una eccessiva freddezza. Desiderava dar voce sulla carta al tumulto di sentimenti che gli si agitava dentro per la sua adorata Tuttelentiggini, ma nello stesso tempo ricordava l’impegno assunto con se stesso di non farla più soffrire, qualora fosse stata impegnata con qualcun altro. Ogni pensiero era un foglio appallottolato, ogni ripensamento una cancellatura.
    Ormai all’ultimo giorno di traversata, Terence aveva infine faticosamente vergato le righe che lo avevano soddisfatto (o forse si era soltanto arreso, stremato dall’impazienza e dal dubbio) per cui aveva firmato e aveva chiuso in una busta candida il foglio il cui contenuto gli aveva provocato tanto patimento, e aggiunto l’indirizzo che non aveva mai dimenticato di La Porte, presso la casa di Pony.
    Poi, prima di riporla in tasca, aveva lanciato un’ultima occhiata a quella busta apparentemente innocua, ma che aveva il potere di cambiare la sua vita o di trattenerlo per sempre in quel limbo di frustrazione e rimpianti nel quale si era arenato anni prima, riemergendo dall’abisso di Rocktown.
    Quasi naturalmente, la sua mente andò ai versi del sonetto 23 di Shakespeare, che sembrava il Bardo avesse scritto pensando a lui:

    “Come un pessimo attore in scena
    colto da paura dimentica il suo ruolo,
    o come una furia stracarica di rabbia
    strema il proprio cuore per impeto eccessivo,
    Anch'io, sentendomi insicuro, non trovo le parole
    per la giusta apoteosi del ritual d'amore,
    e nel colmo del mio amore mi par mancare
    schiacciato sotto il peso della sua potenza.
    Sian dunque i versi miei, unica eloquenza
    e muti messaggeri della voce del mio cuore,
    a supplicare amore e attender ricompensa
    ben piu' di quella lingua che più e più parlò.
    Ti prego, impara a leggere il silenzio del mio cuore:
    E’ sottile intelletto d'amore intendere con gli occhi.” *




    Sul molo, Terence salutò cordialmente il capitano Crawford e l’equipaggio, ringraziandoli per averlo ospitato a bordo, e fendette la folla pulsante dei lavoratori del porto mercantile di New York, così diversa e tanto più pittoresca e verace rispetto ai raffinati viaggiatori di prima classe dei piroscafi ai quali era abituato. Con il suo abito leggero color crema e una camicia nera dal colletto sbottonato a mostrare un foulard chiaro casualmente annodato attorno al collo, il nobile portamento che spiccava nella frenesia ipercinetica dei portuali, il giovane attore era decisamente fuori contesto in quella baraonda multicolore e multilingue.
    All’ingresso del molo chiamò un taxi e, caricato il bagaglio con particolare attenzione al prezioso quadro di Slim, che trovò posto accanto a lui sul sedile, fornì al tassista l’indirizzo del suo appartamento in West Third Street. Nonostante non rimpiangesse i mesi trascorsi ad Alberfoyle e la svolta che la sua vita aveva intrapreso in quel luogo tanto caro e pregno di ricordi felici di una lontana estate, si sentiva terribilmente eccitato all’idea di essere tornato a New York e il traffico pulsante di Manhattan, che gli sfrecciava attorno da ogni direzione, i suoni e i profumi della primavera nella grande metropoli, lo fecero fremere.
    Sì, era tornato a casa.
    Il taxi sfrecciò per Broadway e gli occhi di Terence ebbero un lampo blu di pulsante desiderio. L’indomani si sarebbe recato da Robert per informarlo del suo ritorno e programmare il rientro sulle scene. Passando davanti al teatro New Amsterdam lanciò però un’occhiata al cartellone de "La principessa sbagliata", e la piacevole eccitazione che lo aveva accompagnato dal momento dello sbarco fu repentinamente scalzata da un’ondata di rabbia, reazione ormai immediata ad ogni pensiero o immagine che riguardasse Susanna Marlowe.
    Ricordò la furiosa lite avuta quando lei gli aveva fatto leggere il copione di quell’ultima commedia, opera che nelle speranze della ragazza avrebbe dovuto sancire la sua consacrazione e alla quale Terence l’aveva vista dedicarsi con fervore quasi maniacale negli ultimi mesi.
    Susanna gliel’aveva sottoposta con un sorriso carico di aspettativa, come ogni volta che aspettava di conoscere il suo parere per decidere se il cielo fosse blu o giallo, e lui era rimasto allibito quando aveva letto la trama, riconoscendo la storia delle loro vite: la sua, quella di Candy e quella di Susanna, completamente stravolte e capovolte dietro lo schermo di carta velina della favola per adulti.
    Terence aveva fissato i fogli stretti tra le sue mani tremanti per qualche istante senza riuscire a parlare, sperando di aver letto male o che fosse uno scherzo.
    Ma di una cosa si poteva essere assolutamente certi: Susanna non scherzava mai.
    - Susanna, tu non pubblicherai questa storia! – le aveva sibilato, la voce tagliente come una lama e gli occhi che trapassavano i fogli manoscritti che lei gli aveva porto con l’entusiasmo di una bambina, per arrivare a frustare quelli nocciola di lei.
    - Cosa? Terence, ma cosa stai dicendo? Ho già ricevuto l’opzione per i diritti di messa in scena. La compagnia Trewelyan la produrrà il prossimo giugno, lo sai!
    - Io non avevo idea di cosa stessi scrivendo. Susanna, ti proibisco di mettere in scena questa storia così privata e dolorosa… e che hai banalizzato e ridicolizzato sotto la veste fiabesca che hai usato come foglia di fico per giustificare questa immonda spazzatura! Per l’amor del cielo, non hai un po’ di rispetto almeno per te stessa, se non per… - un’esitazione – gli altri?
    Terence stava alzando pericolosamente la voce, con gli occhi che lanciavano fiamme ardenti all’indirizzo di Susanna la quale, purtroppo per lei, scelse la tattica più sbagliata: rispondere sullo stesso tono. Quell’esitazione nella voce di Terence, e il nome che vi era celato dietro, l’avevano fatta impazzire di rabbia più che le critiche al suo lavoro.
    - Foglia di fico? Storia privata? Spazzatura? Terence, tu sei completamente impazzito! Questa è un’opera di fantasia! La mia opera, e andrà in scena esattamente così come l’hai appena letta, capisci?
    Susanna tremava e i suoi occhi avevano cominciato a brillare per l’arrivo delle lacrime pronte a sgorgare per dar corpo a tutta la propria rabbia e la propria frustrazione. Aveva lavorato per mesi su quella sceneggiatura e amava ogni pagina e ogni riga: costituiva la sua rivalsa verso tutto ciò che era andato male nella sua vita, il suo modo di rimettere i fili a posto, ogni pedina dove avrebbe dovuto essere fin dall’inizio…
    Terence l’aveva fissata, con il sangue che gli ribolliva dentro.
    Era impotente. Susanna aveva già un produttore ai blocchi di partenza, ansioso di sfruttare il richiamo mediatico della sua tragedia personale per realizzare il “tutto esaurito”.
    Non aveva nessun potere di fermare quell’infamia, quell’insulto a se stesso e soprattutto al ricordo di Candy. Ma in primo luogo al sacrificio che avevano compiuto per la donna che adesso esprimeva la propria gratitudine rappresentando colei che le aveva salvato la vita in panni tanto lontani dalla realtà.
    - Susanna, non pensi che tutti noi abbiamo sofferto abbastanza? Lasciamo per un attimo da parte i nostri sentimenti, ma non credi che un po’ di pace, di silenzio e rispetto siano quanto di più doveroso nei confronti del nostro passato? Di come io esca da questa faccenda, da questa ridicola sceneggiatura, non mi importa nulla. Ma tu stessa non senti il bisogno di voltare pagina?
    “Ipocrita! Tu sei il primo ad avere lasciato il cuore tra le stanze di quell’ospedale. Solo che la tua storia racconta una verità diversa da quella che ora Susanna vuole esibire al mondo…” Terence sentì la sua coscienza richiamarlo nell’istante stesso in cui terminava di rivolgere quell’appello al suo carnefice.
    Susanna aveva incrociato le braccia e distolto lo sguardo.
    - Non so di cosa tu stia parlando, Terence. Ti ripeto che la mia è un’opera di pura fantasia!
    A quel punto Terence si era sentito assalire dalla familiare ondata di impotenza e frustrazione che regolarmente si impadroniva di lui dopo ogni discussione al termine della quale Susanna si rifugiava nella negazione: quella sensazione di essere prigioniero di qualcosa di totalmente perverso e ormai incancrenito. Lui e quella donna erano ormai avviluppati in un nodo gordiano, che solo un taglio netto avrebbe potuto recidere.
    E così Terence si era rifiutato di accompagnare Susanna alla prima della Principessa sbagliata e di intervenire mai più ad alcuna occasione pubblica correlata allo spettacolo.
    Di lì era stato innalzato l’ulteriore muro di indifferenza tra lui e quella fragile donna, ormai totalmente preda delle sue dimensioni parallele. Muro dietro al quale si sarebbe consumato di lì a breve l’ultimo atroce dramma, con il suo tragico epilogo di morte.
    Terence riemerse dal passato solo per accorgersi che il taxi stava costeggiando Washington Square, ormai in prossimità del suo appartamento.
    - Per favore, si fermi un momento! – disse al taxista.
    Quando l’auto si accostò al marciapiedi, Terence scese e si diresse a passo lento verso una buca delle lettere, che sembrava essere lì da sempre in attesa proprio di quel momento, abbagliandolo con il suo riflesso scarlatto abbacinante sotto i raggi del sole.
    Trasse la preziosa busta dalla tasca interna a sinistra della giacca, nella quale l’aveva custodita negli ultimi due giorni, quasi a volerle trasmettere il battito del cuore sul quale era stata poggiata, affinché arrivasse insieme alle parole vergate sul foglio a colei che ne era l’unica destinataria.
    Avvicinò alla buca la mano tremante che stringeva la lettera. Rimase lì in uno stato di sospensione per qualche istante e poi, con un gesto rapido quasi temesse di non ritrovare più il coraggio, lasciò cadere la busta, e insieme ad essa tutte le proprie speranze, affidando l’una e le altre all’efficiente U.S. Postal Service.
    La busta non aveva ancora toccato il fondo della cassetta, che Terence aveva già cominciato a tenere il conto delle ore e dei giorni del lungo viaggio che avrebbe compiuto attraverso gli Stati Uniti, fino alla sua destinazione finale in uno sperduto villaggio dell’Indiana, sul lago Michigan.

    Messaggeri d’amore dovrebbero essere i pensieri;
    volano via dieci volte più veloci dei raggi del sole
    quando spoglia le fosche cime dei colli dai loro veli brumosi.
    Perciò il carro d’Amore è trainato
    da un volo di bianche colombe.
    E perciò ha Cupido ali di veloce vento. **



    ________________________



    New York,
    30 aprile 1919


    Candy scese dal tram affollato in prossimità del Metropolitan Museum. Sebbene New York fosse fornita di un’efficiente e già estesa linea metropolitana, lei preferiva muoversi in superficie, per godersi la vista di quella strabiliante città con la quale a poco a poco stava cercando di giungere ad una tregua, provando a lasciarsi alle spalle il burrascoso e conflittuale passato che l’aveva legata ad essa.
    L’ultimo colpo, ricevuto al teatro New Amsterdam, l’aveva lasciata stordita e ripiegata su se stessa per diversi giorni, durante i quali Patty le era stata accanto più che mai con il suo affetto discreto, nonostante la presenza in città di Hal. Come sempre Candy alla fine aveva rialzato il capo, rivolto uno sguardo luminoso alla croce della felicità di Miss Pony e poggiato di nuovo i suoi occhi verdi verso il mondo, trovandolo di nuovo bello nonostante le cadute.
    Anche Mrs. Roosevelt era stata particolarmente sensibile all’umore di Candy. In effetti, aveva capito che qualcosa doveva essere successo alla giovane briosa e piena di vita che, pur non facendo mai mancare sostegno ed energia nelle attività della fondazione, sembrava fosse stata adombrata da un velo di malinconia fin dalla sera della rappresentazione al teatro. Eleanor non le aveva chiesto nulla ma aveva osservato con discrezione e particolare sollecitudine la ragazza alla quale si era ormai molto affezionata, spiandone l’umore in attesa del momento più opportuno per parlarle.
    Pur continuando a rimuginare su quanto aveva scoperto e sulla nuova prospettiva da cui ripensare a tutto il passato che la legava a Susanna Marlowe, ciò che veramente tormentava Candy da quella notte era un rinnovato e lancinante bisogno, necessario come una boccata di ossigeno a chi stesse per annegare, di sapere cosa fosse stato di Terence in tutti quegli anni di lontananza, che avevano assunto all’improvviso contorni tanto nuovi e colori tanto diversi nella sua mente. Laddove aveva sempre immaginato il suo amore lontano, sì, ma quanto meno libero da sofferenze e rimorsi, oggi tutto le appariva confuso e incerto.
    Da quella sera a teatro la felicità di Terence non era più una certezza e proprio per questo era diventata una necessità, per dare un senso al passato e al presente.
    Tuttavia, Candy non riusciva a vincere la paura di ciò che avrebbe potuto scoprire. Continuava a dirsi che se Terence avesse davvero voluto o soltanto sentito il bisogno di mettersi in contatto con lei dopo la morte di Susanna, avrebbe avuto ogni modo e tutto il tempo per farlo. Eppure fremeva adesso più che mai dal desiderio di rivederlo, ogni cellula del suo corpo lo invocava: voleva sentire la sua amata e calda voce chiamarla con uno degli insopportabili soprannomi coniati appositamente per lei, che aveva imparato ad amare. E soprattutto, fremeva dal desiderio di essere ancora una volta sfiorata dal tocco delicato di quelle dita che l’avevano fatta tremare, fasciandole il braccio ferito sulla seconda collina di Pony in un maggio lontano, poco dopo averle marchiato l’anima ed il corpo con il morbido calore delle labbra che avevano preso possesso delle sue.
    Candy era terrorizzata soprattutto all’idea di portare altro dolore e nuovo rimpianto a colui che amava ancora con la stessa forza di cui aveva tardivamente preso coscienza sul molo di Southampton, con quel grido che aveva consegnato al vento gelido e alla bruma dell’alba.
    Sebbene Mrs. Roosevelt le avesse messo a disposizione auto e autista per muoversi come meglio e quando credeva, Candy nutriva da sempre una naturale indifferenza verso tali lussi, reputati inutili sfoggi di privilegio che tanto le ricordavano gli sgradevoli atteggiamenti di ostentazione che aveva dovuto subire da Iriza nell’infanzia. Inoltre, le piaceva mescolarsi alla folla delle cinque del pomeriggio: impiegati e impiegate che emergevano dai loro uffici e si riversavano sulle strade come minuscole formichine al cospetto degli svettanti edifici di Manhattan, che facevano giusto onore al proprio nome innalzandosi davvero fino a sfiorare il cielo.
    Quel giorno Candy aveva avuto un’impegnativa sessione di colloqui per le candidate al ruolo di infermiere al Roosevelt Children’s Asylum, l’ospedale per bambini fortemente voluto da Mrs. Roosevelt a Brooklyn, ormai praticamente pronto ad aprire i battenti.
    Grazie alla sua esperienza personale, aveva insistito particolarmente sulla necessità di selezionare personale non solo fortemente qualificato e titolato da un punto di vista infermieristico, ma soprattutto con il giusto approccio e umanità nei confronti dei piccoli pazienti di cui avrebbero dovuto occuparsi. Sapeva quanto un sorriso e una carezza sincere potessero risultare la più miracolosa delle medicine per i bambini, soprattutto gli sfortunati che sarebbero stati assistiti al Roosevelt Asylum: bambini che avrebbero dovuto giocare con i coetanei ed andare a scuola e invece lavoravano duramente in condizioni di scarsa o nessuna tutela, spesso rimanendo vittime di incidenti mortali o gravemente inabilitanti.
    Flanny Hamilton alla fine era stata scelta per il ruolo di capo-infermiera, e sarebbe arrivata da Chicago entro poche settimane. Candy non l’aveva ancora incontrata, né aveva in programma di farlo, volendo questa volta rispettare la riservatezza della vecchia compagna di camera.
    Pensava di aver fatto un buon lavoro quel giorno, e due o tre delle ragazze che aveva colloquiato le erano sembrate molto in gamba. In particolare una giovane infermiera neo-diplomata del Rhode Island, Tiffany Gillenhall, la cui dolcezza le aveva immediatamente rammentato la sua Annie.
    Il sole ormai restava alto nel cielo fino a tardi, illuminando con i suoi raggi ogni giorno più caldi e luminosi la primavera che si avviava maestosamente e trionfalmente al suo culmine. Nonostante fossero quasi le sei quando Candy giunse davanti all’ingresso dell’appartamento dei Roosevelt, il tramonto era ancora ben lontano e l’arenaria dell’elegante facciata era accesa da riflessi infuocati.
    Entrando in casa, Candy fu accolta dal maggiordomo, che la informò immediatamente che la signorina Patty e il signor Clement erano usciti per una passeggiata a Central Park e che, se avesse voluto raggiungerli, li avrebbe trovati presso la pista di pattinaggio. Seymour, che avrebbe potuto agevolmente posare come soggetto di qualsiasi dipinto sul perfetto maggiordomo british style, era un’istituzione di casa, al pari di Mrs. Delano Roosevelt. Una volta Candy aveva detto a Patty che doveva avere un’età indefinibile tra i cento e i duecento anni, ma ben portati.
    - Grazie Seymour, ma credo che andrò a fare un bagno e mi preparerò direttamente per la cena.
    - Molto bene, Miss Andrew. Mi consenta di consegnarle la posta che è arrivata oggi per lei.
    - Che meraviglia! Grazie Seymour! – Candy prese dalle mani del maggiordomo due spesse buste e gli rivolse uno dei suoi smaglianti sorrisi, di quelli che non mancavano mai di sciogliere anche le personalità più spigolose, come quell’austero maggiordomo al quale quarant’anni di servizio agli ordini di Mrs. Delano Roosevelt avevano implacabilmente piegato gli angoli della bocca di diversi gradi verso il basso.
    Seymour non ricordava che casa Roosevelt avesse mai brillato per eccitazione e sorrisi. Persino l’arrivo di Mrs. Eleanor, ai tempi giovane neo-sposa di Mr. Franklin, non aveva portato l’ondata di freschezza che ci si sarebbe potuti aspettare da una coppia di sposini. Mrs. Eleanor fin da giovanissima aveva avuto una personalità piuttosto seria e non era mai stata incline ad esprimere gioia o semplici manifestazioni di affetto. Non che sua suocera avesse mai favorito tali atteggiamenti, sospirò Seymour.
    Candy diede un’occhiata alle grafie sulle due buste, una bianca e una rosa pallido, e, senza bisogno di leggere i mittenti, riconobbe quelle di Albert e di Miss Pony. Stringendo al cuore le buste e con un ultimo affettuoso cenno di saluto all’anziano maggiordomo, volò su per le scale con il vestitino a fiori di varie tonalità di rosa che volteggiava lievemente dietro di lei ad ogni scalino e i riccioli biondi che le ondeggiavano morbidamente sulle spalle.
    Seymour sospirò: da quando i figli di Mrs. Eleanor e Mr. Franklin erano in collegio, o assegnati alle cure di attente ma fredde tate nella residenza di campagna di Hyde Park on Hudson, quella casa non conosceva gioventù, si permise di pensare prima di tornare alle sue incombenze quotidiane.


    * Ringrazio Musetto per aver messo alla mia attenzione questo Sonetto, già usato da Alys Alvalos ne “La Trampa”, che ho voluto inserire qui in quanto perfetto per il nostro Terence alle prese con i mille dubbi sulle parole da scrivere a Candy

    ** Romeo e Giulietta, Atto II, scena V.


    [continua]


    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-

    Edited by Cerchi di Fuoco - 31/10/2020, 07:26
     
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    Parigi,
    10 aprile 1919

    Carissima Candy
    È stato un piacere ricevere la tua lettera, che mi ha fornito un ottimo pretesto per troncare una fastidiosissima conversazione nel foyer del Ritz con un attaché della delegazione francese a Versailles, il quale stava cercando di persuadermi a investire una cospicua quantità dei profitti della Andrew Enterprises nel caseificio di suo suocero a Bordeaux.
    Per evitare noiosi (e purtroppo non infrequenti) abboccamenti come questo, da circa una settimana mi sono trasferito dal Ritz, peraltro decisamente troppo pretenzioso per i miei gusti, in un piccolo ma deliziosamente continentale appartamento nel quartiere di Montparnasse, in rue Delambre. Devo assolutamente raccontarti della vita notturna e della vivacità di questo quartiere, una vera rivelazione e scoperta, dopo settimane di noiosissime conferenze a Versailles, dove siamo ormai alla stretta finale.
    Non voglio tediarti con i dettagli, mia piccola femminista rivoluzionaria, ma sappi che quando un giorno la storia racconterà della conferenza di Versailles e dei grandi ideali che vi sono stati discussi, racconterà un mucchio di sciocchezze!
    Si tratta invece di un indegno mercato in cui ognuno sta cercando di strappare il prezzo migliore per la propria nazione e di un orrido banchetto attorno alla carcassa di una belva, feroce per quanto possa essere stata in vita, ma adesso completamente smembrata e dilaniata: la Germania.
    Non c’è onore né pietà per i vinti in questo nuovo mondo, mia piccola Candy…
    Per riprendermi dall’atmosfera mefitica di quelle sale, nelle quali il presidente Wilson sta riducendo di diversi anni la durata della sua futura vecchiaia, a giudicare dall’espressione sempre più tesa, stanca e disillusa che cala sul suo volto a mano a mano che i negoziati procedono, ho un antidoto però meraviglioso: la più straordinaria città del mondo che, seppure nei miseri ritagli di tempo che mi rimangono, sto cercando di vivere il più possibile.
    Non venivo a Parigi da molti anni ed è stata una fortuna decidermi a farmi accompagnare da George. Lui è originario della città, come sai, ed è molto più utile qui a me, per barcamenarmi tra i mille bistrot della città, che non ad Archie che se la sta cavando splendidamente da solo a Chicago.
    Montparnasse è piena di artisti giovani e straordinariamente innovativi nelle loro forme espressive; ho la sensazione che questi anni di Parigi rivoluzioneranno anche la Storia dell’Arte, oltre che gli assetti politici del dopo-guerra.
    Esattamente a fianco della villetta che ho affittato si trova uno studio artistico condiviso da un fotografo, un pittore e una scultrice, che insieme non mettono insieme tre franchi, e con i quali ho stretto amicizia, giacché li incontro praticamente ogni giorno. In occasione del nostro terzo incontro fortuito Josephine Lisser, la promettente scultrice, mi ha addirittura chiesto di posare per lei. Pare, cara Candy, che il mio naso abbia esattamente le misure che i greci classici reputavano indicative della perfetta armonia del viso; lo avresti mai creduto? Josephine lo ha deliberato senza possibilità di errore, con una semplice occhiata dei suoi attentissimi occhi neri.
    Ovviamente i miei nuovi amici non sanno chi sono, credo ritengano io sia un qualche artista americano, squattrinato e talentuoso al loro pari. Stasera, però, dovrò confessare almeno a Josephine di possedere qualche franco, poiché abbiamo in programma di recarci all’Opéra.
    Credo che tu e lei andreste molto d’accordo, il suo carattere è affine al tuo: dolce ma decisa e assolutamente priva di filtri che le impediscano di dire esattamente ciò che le passa per la mente nel momento stesso in cui lo pensa. Per non parlare della rapidità con cui fa seguire le azioni ai propositi. Ti ho già detto che la statua che mi raffigura ha già pronto il calco?
    Adesso ti lascio, mia cara. Non prima, però di averti detto quanto io sia orgoglioso di te e di come stai andando avanti, nella direzione che hai scelto. Sai che qualunque passo farai io ti sarò accanto e ti sosterrò. Intanto sono già orgoglioso del coraggio con cui la mia intrepida ragazza sta affrontando le sue paure e i suoi fantasmi.
    Ti pregherei comunque, per l’ennesima volta, di non firmarti “la tua amorevole figlia Candy”, come hai fatto nell’ultima lettera. Se finisse nelle mani di qualche mia pretendente, ti considererò personalmente responsabile delle conseguenze!
    Un abbraccio con tutto il mio cuore, a presto.

    Tuo Bert.



    Candy non si era accorta di avere schiuso l’espressione del viso a un sorriso, a mano a mano che la lettura della lettera di Albert le andava svelando scorci assolati dei quartieri parigini. Gli era sembrato di vederlo, in un disinvolto abito di lino bianco con tanto di panama di paglia, chiacchierare con la nuova amica davanti a un giardino in fiore, incorniciati da arbusti di viola buganvillee.
    Albert aveva sacrificato troppo della sua natura esploratrice sull’altare degli affari degli Andrew e per la prima volta da molto tempo Candy sentiva trasparire dalle sue parole un sincero entusiasmo per la vita, quale non aveva più avuto modo di leggere dai tempi delle sue lettere dall’Africa. E chissà quale ruolo aveva avuto in tutto questo l’intraprendente scultrice di Montparnasse, si chiese Candy con gli occhi brillanti di malizia. Era la prima volta che Albert accennava ad una figura femminile nelle sue lettere o nei suoi racconti, dopo quel fugace e mai più ripetuto riferimento all’infermiera conosciuta in Kenia tanti anni prima, e Candy moriva dalla curiosità di essere informata sugli sviluppi. Avrebbe risposto immediatamente ad Albert, chiedendogli maggiori dettagli sulla serata all’Opéra che ormai doveva essersi consumata da giorni, stanti i tempi del servizio postale intercontinentale.
    Prima, però, l’attendeva la lettera di Miss Pony.
    Se la lettera di Albert le aveva evocato (chissà perché!) il gusto di una zuppa un po’ piccante, le parole di Miss Pony erano sempre come uno dei dolci di cui Candy era golosa, pregustato per tutta la cena e atteso affinché lasciasse in bocca il sapore di buono.
    Comodamente seduta al suo posto preferito, sul cuscino del bovindo davanti alla finestra, Candy strappò i lembi del rettangolo di carta e fece per trarne il contenuto. Estrasse dalla busta - come di consueto ottenuta ripiegandone un’altra già usata - i due fogli vergati con la fitta e amata grafia di Miss Pony.


    Casa di Pony,
    La Porte, Indiana
    26 aprile 1919

    Piccola mia,
    Come stai?
    Da quando ti sei trasferita a New York, molto colpevolmente io e Suor Maria non ti abbiamo ancora scritto, completamente prese dalla primavera, stagione in cui, come sai, la maggior parte delle famiglie che desiderano adottare un bambino si dedicano a questo importante passo.
    La piccola Lottie e Freddie hanno infatti appena trovato la loro nuova famiglia e siamo molto contente di poter dire che si tratta di due coppie veramente splendide e che li riempiranno di tutto l’amore che meritano.
    Suor Maria è, come sempre in questa stagione, alle prese con la sua allergia da fieno, ma ciò non le impedisce di dirigere le sue classi con il consueto pugno di ferro in guanto di velluto. Di certo la cosa non ti stupisce!
    Ma veniamo a noi, cara bambina.
    Spero che la vita a New York scorra serena e che le paure e i turbamenti che (pur senza confessarceli apertamente) devi aver certamente nutrito all’idea di recarti proprio in quello tra tutti i luoghi del mondo, abbiano lasciato il posto ad una riconciliazione con il tuo doloroso passato.
    Sono veramente orgogliosa del tuo coraggio, della tua forza e della sfida con te stessa che hai intrapreso.
    Mia cara Candy, come ti ho sempre detto, il passato non ci abbandona mai. Non possiamo far nulla per cancellarlo e per liberarci delle ferite e delle cicatrici che ci lascia addosso, per fortuna insieme anche a tanti ricordi felici. Tutto ciò che abbiamo vissuto, nel bene e nel male, ci rende ciò che siamo oggi. E la splendida persona che sei, bambina mia, è proprio il frutto dei momenti belli e brutti che hai vissuto.
    Tutto ciò che possiamo fare è sforzarci sempre con tutta la nostra dedizione di fare tesoro di ogni insegnamento che ci riserva la vita, pregare il Signore e aspettare ciò che di nuovo e imprevedibile ha in serbo per noi, più forti anche grazie alle esperienze che abbiamo vissuto.
    Tuttavia a volte il passato compie degli ampi cerchi, per tornare a saldarsi esattamente con il punto di inizio del nostro viaggio, e la strada percorsa, che pensavamo retta, si rivela invece un’ampia e lunghissima curva che compie una giravolta solo per tornare indietro all’origine di ogni cosa.
    È quello che ho pensato pochi giorni fa quando è arrivata qui, indirizzata a te, la lettera che ti allego alla presente, che ha anche materialmente compiuto un viaggio circolare fino al nostro angolo di mondo per tornare al suo luogo di origine: New York.
    Ovviamente non è stata aperta e te la trasmetto così come è giunta a noi, con l’assoluta certezza che la mia forte e coraggiosa Candy sia pronta a scoprire quale nuova svolta le presenti il suo cammino, e per percorrerla a testa alta fino a quella che spero e prego essere la chiusura del cerchio della sua felicità.
    Quando si ama come tu sai amare, Candy, l’amore ci trova sempre, ovunque noi ci rifugiamo e per quanto cerchiamo di nasconderci a esso.
    Ti abbraccio con tutto il mio infinito affetto di madre.

    Pauline Giddings.



    Candy aveva gli occhi bagnati delle lacrime che erano scese a inzuppare il foglio tra le sue mani. Attraverso lo spazio e il tempo sentiva la forza dell’amore e il senso di protezione di Miss Pony giungere fino a lei da tanto lontano.
    Si sentì percorrere da uno intenso brivido di premonizione nel prendere in mano la busta aperta che giaceva sul cuscino al suo fianco, così apparentemente innocua e così potenzialmente pericolosa.
    Fluttuando tra la paura e l’anticipazione, con mani tremanti Candy trasse lentamente una seconda busta, più piccola e leggera, che era stata custodita in quella giunta dalla casa di Pony e, sospirando per raccogliere tutto il suo coraggio, abbassò gli occhi verso quel piccolo rettangolo bianco.
    Non ci fu bisogno di leggere il mittente, riconobbe fin dal primo sguardo la grafia di cui conosceva a memoria ogni tratto aristocratico e regolare, avendo trascorso infinite notti a rileggere fino a impararle a memoria le lettere di colui che, proprio come le aveva scritto Miss Pony, tornava adesso dal passato con la forza dirompente del destino. Come se i suoi pensieri e le sue lacrime di quegli ultimi giorni (o forse di quegli ultimi anni) fossero arrivate fino a lui, che così rispondeva al suo silenzioso e disperato richiamo.

    “Terence Graham Granchester
    47, West Third Street,
    New York City, New York”



    Lo scorrere del tempo perse di consistenza, liquefacendosi al pari di ogni altra cosa che non fossero quelle tre righe, le cui lettere sembravano brillare di luce propria nella penombra sempre più opaca della stanza. In quel momento quel nome vergato sulla carta costituiva l’unico frammento di realtà percepibile da tutti i sensi di Candy, interamente concentrati e focalizzati su quella piccola busta che poteva racchiudere il mondo o farlo crollare per sempre.
    Il tesoro che teneva tra le mani tremanti era stato solo pochi giorni prima tra quelle di Terence!
    Se solo avesse potuto, Candy avrebbe voluto restare per sempre lì, con quella busta tra le mani e Terence di nuovo realtà concreta, anziché rimpianto o rimorso. Aveva paura di scoprire quale piega avrebbe preso la sua esistenza una volta aperto quel vaso di Pandora. Candy sapeva, senza sapere se vi fosse preparata, che, dopo aver schiuso quella busta, il suo destino sarebbe cambiato di nuovo, in un modo o nell’altro.
    Rouge ou Noir! Rien ne va plus!
    Candy aprì lentamente il lembo di carta che sigillava il suo prezioso contenuto. Le sembrava che le palpebre avessero perduto la capacità di abbassarsi, da quanto il suo sguardo era fisso sulla busta, le iridi di un verde così intenso da sembrare riflettere all’esterno la fiamma che vi bruciava dietro, concentrando negli occhi ogni nota di colore, invece totalmente defluito dal resto del suo viso.
    Estrasse l’unica pagina accuratamente ripiegata in quattro che la busta aveva custodito e lentamente, come se ne dipendesse la sua vita (cosa che in effetti era) spiegò il foglio e lesse:

    Cara Candy
    Come stai?
    E’ passato un anno da allora… Trascorso quest’arco di tempo, mi ero ripromesso di scriverti, ma poi, preso dai dubbi, ho lasciato che passassero altri sei mesi.
    Ora, però, mi sono fatto coraggio e ho deciso di inviarti questa lettera.
    Per me non è cambiato niente.
    Non so se leggerai mai queste parole, ma volevo che tu sapessi almeno questo.

    Tuo
    T.G. 1



    Candy terminò la lettura e senza dir nulla, stringendo al cuore la preziosa pagina, si appoggiò con movimenti lentissimi e con infinita cura alla parete dietro di lei, le ginocchia raccolte al petto e le palpebre finalmente abbassate, le lunghe ciglia scure ad accarezzarle le guance. In quella posizione lasciò infine che le lacrime facessero erompere dal suo corpo tutta la solitudine e il silenzio, il lungo inverno che vi aveva albergato dal momento lontano nel tempo in cui le braccia di Terence avevano allentato la stretta con la quale l‘avevano tenuta contro il suo petto, per lasciarla andare via, incontro al buio che l’aveva avvolta da allora.
    Le sembrò di riudire la calda voce del suo Romeo sussurrare disperatamente al suo orecchio, in quella lontana e feroce notte:
    “…Fermiamo il tempo…”.
    E fu in quel preciso istante, in quella stanza dell’Upper East Side avvolta dalle prime ombre del crepuscolo, che il tempo riprese a scorrere…

    “Come sei arrivato sin qui, chi ti ha guidato?”

    “Amore mi ha spinto a cercarti,
    che poi mi prestò il suo consiglio;
    e io a lui prestai i miei occhi.
    Io non sono un pilota,
    ma fossi tu lontana quanto la più deserta spiaggia
    che bagna l’oceano più remoto,
    per una merce tanto preziosa, mi ci imbarcherei.” *




    1 Tratta - e parzialmente rimaneggiata - da: Kioko Mizuki, Final Story, Volume II pag. 207, 2015 - Kappalab

    *Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II


    [continua]


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    Eleanor Roosevelt salì le scale diretta in camera di Candy. Aveva una sorpresa per lei che sperava avrebbe definitivamente cancellato le ultime tracce di tensione dal suo volto.
    Eleonor si sentiva molto responsabile per le due fanciulle che aveva accolto sotto la propria ala. Patty adesso aveva Hal a prendersi cura di lei e accudirla con amore sincero, sentimento che Eleanor approvava di vero cuore. Era convinta che i due ragazzi fossero davvero fatti l’uno per l’altra, nonostante sua suocera storcesse il naso, ritenendo che chiunque provenisse da oltre l’area delimitata da Park Avenue e Fifth Avenue non fosse all’altezza del lignaggio dei Roosevelt.
    Candy invece le faceva tenerezza: le sembrava una vispa rondine dall’animo lieve, desiderosa del caldo bacio del sole primaverile ma intrappolata contro la sua volontà in un costante inverno, che ne tarpava le ali e ne frenava il volo.
    Eleanor bussò alla porta della camera verde e ricevette in risposta un sommesso:
    - Avanti!
    La donna aprì la porta con decisione e la consueta sicurezza che muoveva ogni suo gesto ed entrò.
    Fu accolta da una penombra ormai quasi completa, che per un momento le impedì di riconoscere i contorni degli oggetti. Fece scorrere il suo sguardo sorpreso attraverso la stanza dai contorni sfocati a causa dell’oscurità fino a che non fu attirata dal movimento di un’ombra seduta davanti alla grande finestra, ormai orfana dei raggi del tramonto che dovevano averne acceso i contorni fino a pochi minuti prima con i loro riflessi infuocati. Candy si stava strofinando gli occhi con il dorso di una mano, come una bambina.
    Eleanor accese l’abat jour di Tiffany in vetro soffiato elegantemente modellata in un raffinato ma allegro fregio di tulipani e lasciò che una calda luce filtrasse ad illuminare la stanza. Le bastò solo una veloce occhiata al volto di Candy per rendersi conto che la ragazza aveva pianto, e molto. Il viso, frettolosamente strofinato, era ancora più arrossato di quanto i soli singhiozzi avessero provocato, gli occhi luccicavano delle lacrime che ancora premevano per fluire all’esterno e lo sguardo con cui Candy la accolse era il più profondamente commosso che avesse mai visto in vita sua.
    Eleanor Roosevelt non aveva mai avuto un istinto materno particolarmente sviluppato, forse a causa della rigida e anaffettiva educazione che aveva ricevuto sin da bambina, poi perpetuata dalla suocera dopo le nozze con Franklin D. Nonostante avesse avuto sei figli, di cui uno morto pochi mesi dopo la nascita, aveva spesso dichiarato come non le fosse mai riuscito naturale entrare in sintonia con i bambini o divertirsi in loro compagnia.
    Eppure, rifletté Eleanor, quella dolce ma determinata ragazza così aperta e forte, ma capace di profonde fragilità, che tra l’altro possedeva il dono naturale di entrare in sintonia con chiunque incontrasse, l’aveva completamente conquistata. Non era affetto materno, il suo, ma una sincera stima e empatia verso ciò che quella ragazza rappresentava: come una sorta di suo alter ego leggiadro e solare, laddove lei era sempre stata animata solo da ideali e determinazione feroci.
    - Candy cosa ti succede, ragazza mia? Cosa è successo? – le chiese precipitandosi verso la finestra per sedersi accanto a lei e poggiarle le mani sulle spalle, in quello che rappresentava uno dei più grandi gesti d’affetto avesse mai concesso a persona non appartenente alla sua famiglia.
    Candy la colse però completamente di sorpresa lasciandosi andare contro di lei e abbracciandola con trasporto, mentre le lacrime ricominciavano a scorrerle sul viso bagnandole il vestito, senza riuscire a frenarle. Singhiozzava apertamente adesso e Mrs. Roosevelt cominciava ad essere veramente preoccupata, non riuscendo a capire quale emozione avesse provocato un’ondata emotiva così forte e, sì, imbarazzante.
    - Candy ti prego aiutami a capire, cosicché io possa aiutarti.
    Eleanor le passò una mano sui morbidi riccioli con un gesto affettuoso.
    - Mi spiace, Mrs. Roosevelt… io… io non riesco a… - Candy cercava di articolare le parole, ma i singhiozzi spezzavano irrimediabilmente ogni frase.
    Dopo qualche minuto, durante i quali Eleanor era rimasta con lei in silenzio, continuando ad accarezzarle i capelli, la frenesia del pianto finalmente cominciò ad attenuarsi e Candy sollevò il viso arrossato e stravolto a guardare Mrs. Roosevelt. Quest’ultima le porse un fazzoletto cifrato di delicata batista bianca, lasciando che la sconvolta fanciulla si tamponasse gli occhi e il viso e riprendesse un contegno più tranquillo, prima di tornare a domandarle:
    - Candy, bambina, da diversi giorni sei molto triste. Da quella sera al teatro New Amsterdam, per l’esattezza. Ma non ti avevo ancora vista in preda a un pianto così violento. Non voglio violare la tua privacy, cara, ma non puoi stupirti se sono molto preoccupata per te. Non vuoi dirmi cosa ti è accaduto?
    Candy, per la prima volta dall’ingresso della donna nella stanza, aprì il viso a un sorriso e le rispose con semplicità disarmante, sorprendendola completamente:
    - Non sono triste, Mrs. Roosevelt. Sono felice!
    Gli occhi di Eleanor si sgranarono per lo stupore. Quella ragazza decisamente sapeva come stupirla! Da giorni si aggirava come un’anima in pena, l’aveva appena trovata straziata dalle lacrime da sola al buio e le diceva di essere felice? Eppure, a ben guardare il bagliore adesso splendente nei suoi occhi verde acqua, la donna si sentiva propensa a crederle.
    - Ecco... io ho ricevuto questa lettera, Mrs. Roosevelt - spiegò Candy porgendole il prezioso foglio che teneva ancora stretto tra le dita e dal quale, se fosse stato per lei, non si sarebbe più separata.
    - Bambina mia, innanzitutto chiamami Eleanor, vuoi? – Candy annuì e la donna proseguì, prendendo il foglio tra le mani – posso leggerla?
    Candy osservò la donna. L’ammirazione che aveva nutrito per lei fin dal primo momento si era lentamente evoluta in un affetto sincero e in una fiducia totale. A Candy Eleanor Roosevelt ricordava, per determinazione e forza d’animo, la sua amata suor Maria.
    - Sì, Eleanor, la prego. Ho bisogno di confidarmi con lei!
    Eleanor lesse rapidamente le stringate ma intense righe che in poche e semplici parole raccontavano una storia. Fu trafitta al cuore dal complesso passato di cui riusciva a intravedere i fili che si annodavano dietro quelle scarne frasi, scritte da qualcuno che era mirabilmente riuscito a trasmettevi amore, desiderio, nostalgia, speranza. Come solo quando si parla col cuore si può osare.
    Alzò uno sguardo interrogativo ma dolce verso Candy, aspettando che la ragazza le concedesse di accedere agli altri pezzi di quel mosaico di cui cominciava lentamente a intravedere l’immagine complessiva.
    - Quest’uomo che ti scrive, Candy… è un amore del tuo passato?
    - È l’unico amore del mio passato, del mio presente e il solo che riesca a immaginare nel mio futuro, Eleanor – rispose Candy con una semplicità disarmante nella sua assolutezza – lo amo da quando è entrato nella mia vita, sei anni fa. Mi ha fatto scoprire cosa sia l’amore, e capire che prima di lui per me non poteva esserci altro che la sua attesa. E dopo di lui, il suo ricordo.
    Eleanor rimse profondamente colpita dalla profondità dei sentimenti espressi così semplicemente e con voce chiara e sicura da quella dolce ragazza. Si chiese come e perché un sentimento così intenso e totale fosse stato spezzato.
    - Quando lo conobbi, l’amore che conoscevo era fatto di tenerezza e protezione, come quelle di cui mi hanno sempre circondata Miss Pony e suor Maria. O della dolcezza e delle attenzioni infinite del mio Anthony. Di comprensione e vicinanza, come quelle che mi ha sempre riservato il mio Albert. Terence invece è entrato nella mia vita e ha sconvolto ogni mia certezza, ferendomi con gli aculei con i quali si era sempre protetto dal mondo prima di spogliarsi da loro, uno ad uno, rivelandomi ogni volta quale meraviglia vi tenesse celata dietro. Terence mi ha privata di tutte le mie difese, nello stesso tempo facendomi sentire al sicuro come non lo ero mai stata prima…
    E così, Candy cominciò a raccontare a Eleanor tutta la storia sua e di Terence, da quel fatale incontro nella nebbia del Mauretania ai giorni della St. Paul School. Di come il ribelle e scontroso ragazzo che si muoveva sul filo della misantropia avesse incontrato la ragazza più sopra le righe della scuola, in una terra di nessuno frequentata solo da loro, e di come si fossero miracolosamente incastrati, in modo che le asperità dell’uno coincidessero perfettamente con le convessità dell’altra, in un incrocio perfetto che in un certo senso aveva salvato entrambi.
    Raccontò dell’emozione di quel primo bacio che ancora sentiva bruciare sulle labbra, insieme al rimpianto per averlo respinto proprio nel momento in cui lui si dava completamente a lei, ingenua e immatura qual era allora.
    La voce le si incrinò quando raccontò della loro prima separazione sul molo di Southampton, ancora una volta nella nebbia, e dei lunghi mesi in cui i loro cuori si erano parlati a distanza.
    Quando giunse a narrare dei giorni a New York in quel lontano inverno del 1914 e dell’incidente di Susanna, della sua decisione di allontanarsi dall’uomo che amava per dargli la possibilità di fare l’unica cosa giusta e salvarlo dai rimorsi che gli avrebbero avvelenato la vita, se avesse abbandonato colei che gliel’aveva salvata, la stanza era ormai satura di un carico di emozioni così forte che entrambe le donne rabbrividirono.
    Un silenzio avvolgente e totale seguì lo spezzarsi della voce di Candy dopo la rievocazione del percorso a piedi fino alla Grand Central Station e del suo rientro a Chicago, col cuore frantumato in più pezzi dei cristalli contenuti in ciascuno dei fiocchi di neve che avevano accompagnato il suo dolente cammino fino al treno.
    Eleanor, la donna di ghiaccio mai scalfita dall’ombra di una emozione, aveva ascoltato Candy sempre più rapita dalla forza, dal coraggio, dall’amore di quei due giovani. Due anime gemelle che, dopo essersi trovate nella nebbia, avevano cercato in tutti i modi di ribellarsi al destino che sembrava accanirsi su di loro per separarli a ogni costo, arrendendosi solo di fronte all’ineluttabile sentenza consegnata loro da Susanna Marlowe su quella terrazza, come ad un appuntamento scritto da tempo al quale nessuno dei tre aveva potuto mancare.
    Adesso capiva anche perché Candy fosse rimasta annientata quella sera, nel ritrovare di nuovo le tracce di quella donna e di quel passato nel suo presente, ancora così totalmente pieno di Terence Graham.
    Candy riprese il suo racconto spiegando perché vedere La principessa sbagliata l’avesse tanto turbata e come quel cambio di prospettiva sulla donna nelle cui mani aveva messo il suo tesoro più prezioso l’avesse riempita di panico per la sorte di Terence, che invece aveva sempre ritenuto al sicuro dopo Rocktown e il suo ritorno al successo. Di come il senso di colpa per quella scelta, fatta su quella terrazza per amore, e forse invece portatrice di sofferenza per tutti e tre, la stesse schiacciando e le avesse impedito di dar voce al suo bisogno di correre da lui.
    - ...e poi, proprio mentre cercavo di raccogliere le mie forze per cercarlo e chiedere il suo perdono, se non più il suo amore, lui è arrivato fino a me con questa lettera e quest’unica frase: “I miei sentimenti non sono cambiati”.
    - Candy, un amore come quello che tu mi hai descritto non può avere altro epilogo che questo, non credi? Se dopo tutti questi anni Terence torna a te per dirti con parole così semplici e chiare che ti ama ancora è perché lui è assolutamente certo che tu sei in grado di leggere il mondo che si nasconde dietro quella semplice frase. E questa certezza è solo di due anime gemelle, che si comprendono anche senza bisogno di parole.
    - Io… io sono terrorizzata, Eleanor.
    - Cosa ti spaventa, bambina? – Eleanor era disorientata.
    Candy sospirò, prima di dar voce alle sue più grandi paure di sempre.
    - Ho paura che non saremo capaci di superare la rinuncia che gli ho imposto. Ho paura delle conseguenze e di come siamo cambiati in questi anni.
    Eleanor si sistemò meglio sui cuscini del bovindo e cercò le parole giuste per rispondere.
    - Sai, Candy, io e Franklin D. abbiamo avuto una storia molto travagliata. Quando ci siamo innamorati eravamo molto giovani. Sebbene fossimo cugini ci siamo veramente scoperti solo quando io avevo diciotto anni. Mia suocera Sarah Ann, contraria al matrimonio, riuscì a farlo rimandare per sedici mesi e, nel vano tentativo di farmi dimenticare da suo figlio, lo spedì a fare un lungo viaggio con degli amici in giro per il mondo. Sai qual è stato l’unico effetto di questo tentativo, Candy? Che al ritorno dalla separazione che ci era stata così… stupidamente imposta ci siamo sposati immediatamente, senza aspettare più un solo attimo. L’amore esige solo amore, Candy. Tu e Terence avete avuto la vostra più che sufficiente dose di separazioni e prove, bambina. Lui era con te su quella terrazza. Ti ha lasciato decidere per tutti perché è quello che avrebbe deciso lui stesso, se ciò che gli era accaduto non lo avesse completamente stravolto e paralizzato, come sarebbe successo a qualunque diciassettenne nelle stesse circostanze. In effetti, quello che stupisce, qui, è la forza che tu sei riuscita a tirar fuori in quel momento. Nessuno di voi aveva un’idea di ciò che sarebbe stato il futuro fuori da quell’ospedale e avete dovuto decidere della vostra vita con i pochi elementi che avevate a disposizione in quel momento. Il principale dei quali era una donna senza una gamba che aveva appena tentato il suicidio sotto i tuoi occhi. Sì, Candy, tu hai deciso per tutti, ma di certo non sarò io a dirti che hai fatto male a decidere. E se Terence, dopo tutti questi anni, e qualunque sia stata la sua vita, ti dice che i suoi sentimenti non sono cambiati è perché lui per primo comprende che la tua decisione non fu sbagliata, allora. Per quanto dolore abbia portato. Non saprai mai, Candy, quanto, e per chi, ne avrebbe generato una diversa. E questo è un fatto. Puoi solo cogliere la seconda preziosa opportunità che la vita e l’amore ti stanno offrendo. Non dimenticando – concluse Eleanor con uno sguardo deciso che perforò Candy come una lama – che, se la rifiuti, decidi ancora una volta anche per lui. E questa volta non solo tu, ma anche chiunque conosca la vostra storia, e soprattutto Terence, potrà più perdonarti!
    Candy fissava Eleanor. Le sembrava che ogni sua parola avesse definitivamente liquefatto ogni incubo e che la mettesse con semplicità di fronte alla verità profonda delle cose. Adesso si sentiva pronta per quel passo.
    Terence la stava chiamando, come quella sera su quella scala.
    E stavolta non c’era un solo motivo al mondo per cui lei non dovesse voltarsi al suo richiamo.
    - Allora… allora… lei pensa che potrei scrivergli una lettera?
    Eleanor alzò gli occhi al cielo con uno sguardo esasperato.
    - Per l’amor del cielo, Candy! Quanto tempo ancora vuoi sprecare, dopo tutti questi anni? – Candy spalancò gli occhi, sorpresa dalla veemenza di quella risposta. Eleanor era sempre stata una donna d’azione e non amava frapporre inutili e dispersivi indugi al raggiungimento dei propri obiettivi – Vivete nella stessa città, adesso! Potresti uscire di qui in questo momento e raggiungere casa sua nel giro di un quarto d’ora, lo sai bambina?
    La ragazza voltò lo sguardo alla finestra, scrutando il buio della dolce sera primaverile: la sua lieve brezza portava fin lì la fragranza di natura in fiore proveniente da Central Park. Le sembrava che il suo fruscio sussurrasse delicatamente al suo orecchio la parola “rinascita”.
    - A…Adesso? – balbettò però, improvvisamente terrorizzata.
    Eleanor scoppiò in una risata di cuore, la prima da quando era entrata in quella stanza. O forse la prima che Candy le avesse mai sentito sgorgare dall’anima. Mrs. Roosevelt non sarebbe certo passata alla Storia per la sua simpatia, pensò Candy, ma la Storia non avrebbe mai saputo come le fosse stata vicina quella sera, né come la sua anima camaleontica sapesse assumere la forma più adatta a dare conforto o a spronare con energia. Candy quella sera era una persona bisognosa d’aiuto e Eleanor Roosevelt non era mai insensibile alle invocazioni d’aiuto dei più deboli.
    - No, mia cara bambina, meglio di no: la tua faccia è un vero disastro, con tutte le lacrime che hai versato. Dopo tutti questi anni Terence non avrà di certo voglia di trovarsi dinanzi uno spaventapasseri con due palle verdi al posto degli occhi, non credi?
    Candy sbatté le palpebre, perplessa. Non aveva mai visto né udito Eleanor in quelle vesti sardoniche e divertenti. Aveva il sospetto che la stesse addirittura prendendo in giro, ma era troppo stravolta dalle emozioni di quella giornata per approfondire tale sensazione.
    - E quindi Eleanor, lei cosa suggerirebbe?
    - Suggerisco che tu faccia un bel bagno caldo, mangi qualcosa e poi vada subito a letto per farti un bel “sonno di bellezza”, quello che mia suocera consiglia sempre come unico trucco di beltà per le giovinette – sì, decisamente Eleanor era impazzita, fu la conclusione di Candy ascoltandola imitare Sarah Ann con la voce in falsetto – Domani andremo da Bergdorf Goodman’s in Fifth Avenue a comprare il più strepitoso dei vestiti da sera. Dopo tutti questi anni credo che il nostro divo di Broadway si sia assolutamente meritato la doverosa attenzione alla confezione nella quale ti presenterai a lui… Sebbene io sia più che convinta che l’unica cosa che conterà per lui sarà la sua dolce ragazza, no?
    Eleanor era ormai un fiume in piena.
    - E dovrei andare a casa sua vestita da sera? – provò timidamente a domandare Candy, perplessa e sopraffatta da quel profluvio di parole.
    - No, Candy, non a casa sua – Mrs. Roosevelt, ormai totalmente posseduta da un’altra donna, le fece l’occhiolino – il mio buon amico Robert Hathaway ci ha inconsapevolmente fornito la cornice per l’incontro perfetto!
    Eleanor trasse dalla tasca del vestito grigio, certamente non all’ultima moda ma di sicuro acquistato da Bergdorf Goodman’s, ciò che in origine voleva regalare a Candy quale semplice diversivo per distrarla dalla vena malinconica degli ultimi tempi, che adesso si rivelava invece quale più provvidenziale degli incastri.
    Candy prese in mano quattro biglietti per la rappresentazione al teatro Stratford dell’indomani sera. Si trattava della serata di chiusura della stagione, dopo la trionfale tournée in giro per gli USA appena conclusasi.

    oErWbYd



    - Non occorre che io ti dica chi interpreterà il ruolo di Benedick, immagino! – sorrise Eleanor – E non credo proprio che Robert Hathaway, il regista nonché vecchio compagno ad Harvard di mio marito, avrà nulla in contrario se al termine della rappresentazione gli chiederemo il permesso di recarci dietro le quinte nel camerino del protagonista, per complimentarti con lui! Credi che Terence preferisca ricevere da una sua ammiratrice un mazzo di rose o di tulipani, mia cara?

    Per Diana! Questa festa improvvisata si mette bene.*




    *Romeo e Giulietta. Atto I, Scena V


    FINE CAPITOLO 5°




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    Edited by Cerchi di Fuoco - 7/11/2020, 21:02
     
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    Capitolo 6°: Stairway to Heaven


    G0ie1ub



    New York,
    01 maggio 1919


    Ore 09.00 a.m.

    Questa pazienza imposta
    e la libera esplosione della mia rabbia
    scontrandosi dentro di me
    mi fanno tremare per tutto il corpo…*



    Uscendo dal suo appartamento, intenzionato a sfogare la propria tensione nervosa in una lunga camminata attraverso Manhattan, e mescolandosi così al caos multicolore e brulicante di vite delle strade di New York, Terence Graham Granchester si ritrovò a pensare che quel giorno avrebbe agevolmente potuto illuminare lui stesso tutte le insegne della Great White Way semplicemente con l’elettricità generata autonomamente dal suo corpo e dalla sua mente, facendo così risparmiare un bel po’ di dollari alla compagnia elettrica newyorkese.
    Da quando aveva lasciato cadere la lettera indirizzata alla casa di Pony nella buca delle lettere, dieci giorni prima, non aveva avuto più un attimo di requie. Ogni minuto di quei dieci giorni era stato minuziosamente passato al setaccio per accertarsi che fosse trascorso, prima di rassegnarsi ad archiviarlo come un altro minuto in cui non aveva ricevuto alcuna notizia da Candy.
    I pensieri di Terence viaggiavano alla velocità della luce e diverse volte aveva coniato nella sua mente febbrile tutta una serie di nuovi epiteti indirizzati al servizio postale americano ed al suo incedere degno di una lumaca, tutti impronunciabili in presenza di orecchie virginali e diversi dei quali avrebbero destato sconcerto persino in alcuni dei più malfamati bar di Brooklyn. In un paio di occasioni si era anche recato presso il post office di East 14th Street per accertarsi che non vi fosse stato alcun intoppo nel servizio di smistamento della posta e verificare se per caso una lettera per lui non fosse stata rinvenuta a qualcuno degli altri otto milioni circa di indirizzi che New York vantava oltre al suo.
    In quel radioso primo giorno di maggio in cui la città risplendeva come una sposa la mattina delle proprie nozze e tutti i passanti avvolti dalla sua luce sembravano più sorridenti e immersi in piacevoli pensieri, il giovane bruno disinvoltamente vestito con giacca di tweed leggero e pantaloni spezzati sui toni del beige, che incedeva a passo marziale risalendo Broadway, sprizzando impazienza da ogni poro e con gli occhi blu cobalto accesi da un ansia feroce e quasi febbrile, strideva terribilmente con il contesto circostante. Era forse per questo che molti dei passanti con i quali si era scontrato lungo il suo cammino non avevano osato proferire lamentela, dopo avergli lanciato uno sguardo indignato ed averne ricevuto in risposta uno tagliente come una lama blu.
    Terence sapeva che miss Pony e Suor Maria, alle quali aveva indirizzato la lettera di accompagnamento a quella per Candy, avrebbero seguito le sue raccomandazioni di non consegnare la lettera alla ragazza qualora lei avesse ormai contratto un legame con qualcuno. Ma anche così… gli avrebbero pur scritto per farglielo sapere, no?
    Ricordava perfettamente il suo primo e unico incontro con le due eccezionali mamme di Candy, in occasione del suo pellegrinaggio alla casa di Pony, appena tornato in America dopo aver lasciato il collegio. Era stato mosso da un’invincibile attrazione verso i luoghi da cui proveniva il suo amore, come se sentisse di dover mantenere una promessa tacitamente contratta prima di lasciare la St. Paul School. Sentiva fortissimo il bisogno di entrare in contatto con quel pezzo della vita di Candy di cui lui non aveva fatto parte, avvertendone quasi con dolore un senso di esclusione. Quel passato che ancora viveva tanto in lei: nell’entusiasmo con cui si arrampicava sugli alberi volando di ramo in ramo, nella fiducia (ai suoi occhi esasperante) che concedeva indistintamente ad ogni essere umano, nella sua capacità di perdonare sempre. La sua fede, il suo coraggio, il suo sorriso, le sue lacrime…. tutto aveva avuto origine su quei pendii dell’Indiana per poi condurla fino a lui, a Londra, su una fedele riproduzione di quella collina che dava lustro alla profonda provincia americana, ricoperta però di narcisi, anziché di ginepro come l’originale. Era tutto ciò che aveva fatto di lei la ragazza di cui si era innamorato con tutto se stesso e che per lui rappresentava una pagina bianca, come un ultimo tassello da inserire tra le altre tessere per completare un meraviglioso mosaico.
    Miss Pony e suor Maria erano esattamente come Candy gliele aveva descritte nei suoi ricordi commossi. Avendole conosciute, poteva comprendere bene da quale delle due fosse derivata a Candy quella inossidabile forza d’animo che la muoveva in ogni passo che faceva e da chi invece la fede profonda nel futuro e nel prossimo. Si era sentito immediatamente a suo agio in compagnia di quelle due donne straordinarie, come non gli capitava mai con degli estranei… anzi, come gli era successo solo con Candy. E aveva capito che era come se lei fosse stata in quella stanza con loro quel giorno, a generare quella corrente d’affetto che aveva immediatamente legato le tre persone che l’amavano più di chiunque altro al mondo. Avevano parlato per gran parte del pomeriggio, sorseggiando tè e sgranocchiando biscotti mentre candidi fiocchi di neve cadevano incessantemente davanti alla finestra, contribuendo, insieme al fuoco che ardeva scoppiettante nel camino, a creare un’atmosfera familiare che Terence non aveva mai assaporato prima in vita sua. Eccezion fatta per quel pomeriggio sospeso nel tempo durante il temporale a Granchester Manor… In quel momento aveva compreso perfettamente perché allora a Candy quell’atmosfera intima avesse immediatamente evocato la casa di Pony.
    Nonostante l’ansia dominante, le sue labbra si atteggiarono quasi involontariamente a un dolce sorriso, come ogni volta che l’immagine di Candy minuscola e dolcissima, sperduta tra le morbide pieghe della vestaglia di seta di Eleanor e con la pelle illuminata dai caldi riflessi del fuoco, si presentava alla sua mente. Sentì ancora una volta la forza dirompente dell’amore per quello scricciolo biondo e quel riflesso verde smeraldo che a lui era sembrato fagocitare ogni altra fonte di luce nella stanza, compreso il riverbero ardente delle fiamme nel camino. E che aveva attirato il suo cuore a quello di lei con la forza irresistibile di una calamita cui non aveva potuto, né voluto, opporre alcuna resistenza.
    Dannazione! Perché ancora nessuna notizia dalla casa di Pony? Forse avrebbe fatto meglio a ripassare dal post office nel pomeriggio, prima di andare a teatro: probabilmente l’indirizzo sulla busta era sbagliato e…
    Ma chi voleva prendere in giro?
    A questo punto era evidente che Candy non aveva risposto alla sua lettera. Se la cosa non gli avesse provocato quella indicibile fitta di dolore proprio al di sotto dello sterno, si sarebbe certamente dato dell’idiota e accusato di essere il primo colpevole di quel dramma. Ma ormai aveva esaurito le energie per dare sfogo alla rabbia persino nei confronti di se stesso.
    Era talmente immerso in questi lugubri pensieri nell’attraversare la Fifth Avenue all’altezza della 57th Street, che per poco non si fece investire da una Isotta Fraschini Tipo 8 nera fiammante, che incedeva sulla corsia opposta alla sua. Riuscì appena in tempo a fare un balzo in avanti e a evitare il paraurti anteriore dell’auto.
    Quell’incidente sfiorato servì a fargli riacquistare un barlume di lucidità. Scrollando il capo, raggiunse la sicurezza del marciapiedi di fronte, prima di lanciare un’occhiata all’auto, il cui autista non si era verosimilmente accorto di nulla e procedeva tranquillamente in direzione opposta lungo Fifth Avenue. Gli sembrò che sul sedile posteriore tre figure femminili fossero immerse in fitta conversazione.
    Era abbastanza! Doveva recuperare la concentrazione necessaria per calarsi nella parte di Benedick, anche se quella sera avrebbe preferito di gran lunga un Amleto o, meglio ancora, un Otello che gli consentisse almeno di dar libero sfogo alla frustrazione e alla gelosia verso l’ignoto marito di Candy che si permetteva di tenerla lontana da lui.
    Terence strinse i pugni e chiuse gli occhi, traendo un profondo respiro per tornare in sé. Quando li riaprì, fu attratto irresistibilmente da un bagliore di quello stesso tono di verde che un tempo aveva illuminato lo studio del castello avito in Scozia e che tuttora gli sembrava continuasse a guidarlo come un faro nella nebbia.
    Si avvicinò alla vetrina di Tiffany per ammirare il meraviglioso paio di orecchini in vetrina, che lo avevano richiamato con la forza della loro luce e dei suoi ricordi: erano due stupendi e raffinati pendenti, costituiti ciascuno da una montatura in platino a forma di goccia, che racchiudeva incastonati al suo interno centinaia di minuscoli frammenti di smeraldo misti ad altrettanti brillanti, i cui riflessi trasparenti si mescolavano a quelli delle verdi pietre preziose. Quei monili semplici e raffinati spiccavano sul velluto crema della vetrina, dominando trionfalmente la scena con la propria maestosità rilucente e cangiante.
    A Terence si spezzò il respiro mentre li ammirava in silenzio. Quella luce verde lo ipnotizzava e lo riportava indietro nel tempo. Allo stesso tempo, quella vista ebbe un effetto benefico sui suoi nervi scossi dall’attesa e dall’impazienza.
    Senza riflettere e facendosi guidare solo dall’istinto, varcò l’elegante porta girevole ed entrò da Tiffany.

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    _______________________




    Ore 11.30 a.m.


    Candy viveva dalla sera prima in una sorta di limbo. La lunga chiacchierata con Eleanor Roosevelt e la consapevolezza che entro poche ore avrebbe rivisto Terence avevano ovviamente fatto decadere qualsiasi possibilità che lei chiudesse occhio, quella notte.
    Mrs. Delano Roosevelt sarebbe di certo stata molto scontenta di lei…
    Alle sei del mattino non era più riuscita ad aspettare oltre e si era recata in camera di Patty, invece completamente immersa nel suo “sonno di bellezza”.
    Quando, con gli occhi ancora semi-chiusi, aveva ascoltato le novità della sera prima e Candy le aveva porto la lettera di Terence, Patty si era però all’improvviso sentita sveglissima. Si era in effetti lanciata sull’amica, seduta sul bordo del letto accanto a lei a fissarla con occhi pieni di attesa per scrutare la sua reazione, e l’aveva abbracciata con tale impeto che entrambe erano finite riverse sul letto, allacciate l’una all’altra come ai tempi dei loro slanci di affetto alla St. Paul School.
    - Oh Candy, lo sapevo, lo sapevo! Terence ti ama ancora, non poteva essere altrimenti! Chiunque vi avesse visti insieme a Londra non avrebbe potuto nutrire il minimo dubbio! – esclamò eccitata, non appena si furono risollevate tra le risate.
    - Patty, a voler essere precise, in nessun punto di questa lettera si parla di “amore”. Anzi, a dirla tutta, io quelle parole me le sono ripetute nella mia mente mille volte, ogni singola volta in cui il suo volto si è presentato alla mia mente, stanca di ricordarlo anziché di vederlo… ma mai sono state pronunciate. L’unica cosa che ho sempre sentito urlare tra noi è la loro assenza – Candy aveva un tono di nuovo incerto e bisognoso di conferme.
    La lunga notte insonne e la tremillesima lettura di quel foglio, di cui conosceva ormai ogni dettaglio della trama filigranata, avevano alla fine, complice la stanchezza della veglia, rinfocolato paure e ansie.
    Patty non ci vide più:
    - Sì? E dimmi, Candy: quando avrebbe dovuto presumibilmente Terence dirti che era innamorato di te? Dopo che lo hai schiaffeggiato per averti baciato? O magari avrebbe potuto ritenere che il momento più appropriato potesse essere urlandolo dal predellino del treno quando vi siete incrociati per pochi secondi, mentre lui ripartiva da Chicago? Dopo che, non dimentichiamolo, aveva passato tutta la notte davanti all’ospedale per aspettarti! Magari se tu, testarda come sei, non ti fossi incaponita a girare per tutti gli alberghi della città, lo avresti trovato lì e avresti potuto sentirtelo dire! Oh, no, aspetta! Forse avrebbe potuto aggiungere una postilla al biglietto di sola andata per New York che ti mandò, se solo lo avesse sfiorato il pensiero che potessi essere così miope da non leggerlo da sola tra le righe, in quel messaggio così chiaro. Oppure, Candy, perdonami la franchezza nel rievocare quel momento così doloroso, avrebbe potuto dirtelo quando vi siete visti qui a New York e il suo cuore era colmo di ansia, dubbi e angoscia per quello che gli era successo e che avrebbe distrutto chiunque? In quale di questi momenti esattamente avrebbe dovuto dirtelo Candy? Ah, e scusa se te lo chiedo, perché mi sfugge: ma tu perché non glielo hai mai detto in nessuna di queste interessanti circostanze?
    Gli occhi di Patty fiammeggiavano adesso. Non c’era nemmeno più l’ombra della timida ragazza terrorizzata da tutto e tutti che Candy aveva conosciuto adolescente, scacciata da una donna consapevole e piena di personalità, in quel momento infiammata dalla tendenza di Candy a cadere nell’autolesionismo e nei dubbi figli del senso di colpa ogni volta che pensava alla sua travagliata storia con Terence.
    Candy la fissava con la bocca atteggiata a un ovale perfetto e sconcertato. I suoi occhi erano pieni di sorpresa per le frasi dolorose come schiaffi che Patty le aveva appena scagliato addosso, le labbra cominciarono a tremarle e Patty temette di avere esagerato. Dispiaciutissima per averla spinta alle lacrime, volendo invece solo scuoterla, stava per chiederle scusa per essersi spinta troppo oltre, quando fu interrotta da uno dei cristallini scrosci di risa che solo Candy sapeva produrre. La sua amica cominciò a ridere irrefrenabilmente, con il corpo squassato da singulti d’ilarità che non riusciva a trattenere. Rovesciò la testa indietro ridendo a più non posso, prima di ributtarla avanti per nascondere il viso tra le mani, continuando a ridere sonoramente, il suono soffocato dalle mani sulla bocca.
    Patty la osservava basita, chiedendosi se la lettera di Terence non fosse stata un po’ troppo per i nervi già scossi di Candy. Di tutte le possibili reazioni, di sicuro quella era la più imprevedibile e scioccante. Ma durò poco. Come sempre, la risata di Candy ebbe la meravigliosa capacità di contagiare chiunque la ascoltasse e quindi anche Patty cominciò ad essere scossa, prima da piccoli singulti ancora controllabili e poi dallo stesso empito di risate squassanti delle quali l’amica era già preda.
    Per diversi minuti rimasero entrambe lì, sedute sul letto a ridere… ridere senza riuscire a fermarsi e quasi senza riuscire a respirare, le lacrime che scorrevano a fiumi sui loro visi. Ma per una volta non erano lacrime di disperazione: erano lacrime che davano sfogo a ore, anzi ad anni, di tensione e tristezza, in quella complice vicinanza che solo ridere di cuore accanto ai veri amici sa dare.
    - Oh… Patty…oh, mio Dio! – provò finalmente ad articolare Candy quando le risate cominciarono ad attenuarsi e il respiro tentava di regolarizzarsi, al termine dei cinque minuti di follia che le avevano colpite.
    - Candy, io…
    - Non dire niente, Patty, ti prego – disse Candy, dopo essersi asciugata le lacrime con il dorso della mano e la manica della vestaglia e prendendole le mani tra le sue, ormai quasi calma – È stato meraviglioso, amica mia. Perché nessuno mi ha mai fatto vedere le cose in questo modo? Cielo, lo sai che hai proprio ragione?
    - Candy, non ti avrei mai detto quello che ti ho detto se tu non avessi in mano quella lettera. Avete sofferto tanto, avete avuto tante occasioni mancate. Adesso c’è un’occasione da cogliere, invece, per dirvi finalmente quelle parole che il destino ha sempre voluto mettere a tacere.
    Candy sospirò, finalmente tranquilla.
    - Hai ragione Patty. Sai una cosa? Cascasse il mondo, io quelle parole le pronuncerò prima di domani! E vedremo cosa avrà da replicare al riguardo il signor Terence Granchester, il destino, o chiunque altro!

    E così era cominciata quella frenetica giornata che le aveva viste caricate in macchina da Eleanor Roosevelt e condotte lungo Fifth Avenue fin nelle sale affrescate di Bergdorf Goodman’s.

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    Abituata alle botteghe senza troppe pretese di La Porte o, al massimo, a una piccola boutique a conduzione familiare di Chicago nella quale si era sempre servita, mal sopportando l’opulenza dei saloni di haute couture presso i quali Annie non desisteva dai suoi tentativi di farla vestire, Candy rimase letteralmente abbagliata nel varcare l’imponente atrio di uno dei negozi di abbigliamento più chic di New York, famoso in tutto il mondo per le grandi firme che esponevano e vendevano i propri capi unici solo tra quelle pareti in tutti gli Stati Uniti.
    Era tutta una magnificenza di oro, stucchi raffiguranti foglie di acanto, enormi specchi sfavillanti e lampadari di cristallo. Tavolini di mogano lucido esponevano accessori e gioielli unici, alternandoli a giganteschi mazzi di fiori esposti con il più raffinato buon gusto in vasi di Tiffany. Ciò che più colpì Candy entrando in quel luogo fu però la luce, che sembrava moltiplicarsi da ogni goccia di cristallo dei lampadari o da ogni riverbero delle ampie vetrate dalle quali filtrava il sole di un radioso mattino ormai inoltrato.
    Candy e Patty erano affascinate e intimidite da tanta raffinata opulenza. Gli occhi sgranati per lo stupore e l’ammirazione, si guardavano attorno abbagliate. Eleanor Roosevelt, con il suo semplice e un po’ demodee tailleur blu e un cappellino dalla foggia classica era la più lontana delle tre dalle atmosfere a-la-page di quei saloni, ma nello stesso la più completamente a suo agio. D’altra parte, fin da bambina era stata abituata a frequentare i più esclusivi salotti e santuari della privilegiata borghesia newyorkese e, pur avendo maturato una personalità totalmente anticonformista, non c’era niente nell’affettato sfarzo di Bergdorf Goodman’s che potesse metterla a disagio.
    - Non posso credere che questa sia una boutique. Sembra una residenza reale… – mormorò Patty, intimidita.
    - È quello l’intento, mia cara, non farti abbagliare. È fumo negli occhi. Ma, d’altra parte, ho avuto più volte prova di quanto un abito di Chanel possa conferire credibilità a qualsiasi oratrice che intenda perorare la causa della riduzione dell’orario di lavoro per i bambini, agli occhi una platea di finanziatori alto-borghesi – rispose Mrs. Roosevelt in tono pratico.
    Avevano appena avuto il tempo di guardarsi intorno quando furono raggiunte da una donna che sembrava uscita dalla copertina di Vogue, tanto era il concentrato di glamour che trasudava da ogni dettaglio della sua figura.
    Indossava un morbido abito color crema dalla linea sciolta e raccolta sotto la vita da una invisibile cintura, i cui lembi formavano due morbide e seriche code sinuosamente ondeggianti ad ogni movimento. I capelli di un artificiale ma raffinato biondo platino erano tagliati all’ultima moda sotto le orecchie, acconciati in onde scolpite una per una, sulle quali era adagiato, con presunta semplicità ma in realtà quale frutto di accurati studi dinanzi allo specchio, una cloche di morbido tessuto operato, dell’identico colore dell’abito, abbellita da un fermaglio di agata. Una lunga e sottile catena dorata scendeva dal collo fino alla vita, terminando in un ciondolo ovale dall’effetto molto drammatico e dello stesso colore del fermaglio. Sul viso, truccato alla perfezione, la tonalità eburnea dell’incarnato estremizzava il contrasto con la macchia nera costituita dall’ombretto e dalla matita scura attorno agli occhi, nonché con il tocco scarlatto delle labbra.
    Tanto effetto scenico non poteva che essere completato da una pronuncia affettata e straordinariamente ammaliante, con una erre perfettamente arrotata che nascondeva abilmente tra le sue cadenze un tocco servile, pur senza renderlo volgarmente troppo evidente:
    - Benvenuta Madame Roosevelt, sono lieta di rivederla. Come sempre è un vero piacere averla nostra ospite.
    - Buongiorno Celia, grazie. La trovo bene.
    - Se mi avesse fatto sapere che sarebbe venuta a omaggiarci della sua presenza, avrei organizzato per farle già trovare tutto pronto, madame. Ma faremo in modo di soddisfarla comunque al meglio.
    - Ne sono certa Celia. In realtà non sono qui per me stessa: il guardaroba che abbiamo rifatto l’anno scorso va benissimo. E d’altra parte solo ieri sera è sorta l’esigenza di questa nostra improvvisata. Oggi vengo in veste di accompagnatrice di queste due fanciulle, che sono certa sarà per lei più piacevole vestire di quanto non potrei essere io con i miei gusti noiosi e ripetitivi.
    Vista da vicino Miss Hungtinton appesantiva la sua età di almeno dieci anni e dimostrava forse di essere vicina per età a Mrs. Roosevelt, anziché la fresca ventenne che a Candy era sembrata mentre si avvicinava loro. La donna si volse verso lei e Patty senza smarrire neanche un frammento della sua espressione deliziata.
    - Oh, queste due cherie mademoiselles sono vostre parenti, madame? Sarà un vero piacere trovare qualcosa per loro. Abbiamo dei meravigliosi nuovi arrivi da Parigi che mi sembrano veramente perfetti! – cinguettò Miss Huntington, con la erre più arrotata che mai.
    - La signorina Patrizia O’Brien è la fidanzata di mio nipote, mentre la signorina Candice Andrew è una mia cara amica, Celia.
    - Ooooh! Forse gli Andrew di Chicago, mademoiselle Candice? – chiese una estasiata Miss Hungtinton, la quale per lavoro si teneva aggiornatissima sulle vicende di tutti i più importanti clan degli Stati Uniti.
    - Ehm… sì, in effetti, miss Celia. Sono molto felice di fare la sua conoscenza - rispose Candy, sempre imbarazzata nel riconoscere la propria appartenenza a quell’importante lignaggio, cosa a cui ancora non aveva fatto l’abitudine dopo tutti quegli anni.
    - Che meraviglia! Sarà un vero piacere per me dedicarmi a voi, mademoiselles! – esclamò Celia, la quale veniva pagata a commissione.
    - Questa serata sarà un’occasione speciale e la nostra Candy ha bisogno dello più straordinario abito da sera che lei possa scovare per noi, cara Celia – spiegò Eleanor.
    - Se posso dirlo, madame, siete proprio nel posto giusto! Andiamo al piano superiore, prego, madame et mademoiselles. Sono certa che sapremo trovare l’abito giusto.

    Dopo circa un’ora di prove, Mrs. Roosevelt e Patty, che aveva già scelto un delizioso e semplice abito verde acqua a balze sovrapposte morbide e impalpabili come seta, erano sprofondate su un morbido divano di velluto bianco. A intervalli regolari Candy usciva dal camerino, sfoggiando di volta in volta una delle creazioni di Schiapparelli o delle firme francesi più cool del momento, che Celia Hungtinton le presentava in successione.
    Era una profusione di tendenze dell’ultima moda, di tessuti lussuosi, scollature vertiginose, tagli a sbieco, rossi fuoco e verdi intensi, grigi perla e neri provocanti, che stava causando a Candy una ubriacatura di alta moda, senza però che riuscire a sentirsi a proprio agio in nessuno di quei capolavori di alta sartoria. Le scollature profonde che cominciavano a dettare le tendenze nell’ultimo anno la imbarazzavano e non riusciva a immaginare di potersi presentare al cospetto di Terence (né di chiunque altro, se per quello) seminuda; gli eccessi di sbuffi e morbide gale la facevano sentire a disagio e addobbata come un albero di Natale. Cercò di fare comprendere a una Celia Hungtinton ancora completamente padrona della situazione, nonostante la sonora bocciatura subita da due dei suoi abiti preferiti, uno Chanel e un Lanvin, cosa desiderasse:
    - Non mi interessa che sia all’ultima moda, Miss Hungtinton… desidero qualcosa di semplice e confortevole. Un abito nel quale sentirmi a mio agio e che… ecco, che rispecchi la mia personalità.
    Alla parola “personalità” Miss Hungtinton sembrò illuminarsi. Squadrò Candy, reduce dall’ennesima prova in sottoveste e calze color crema. Guardò i capelli biondi che le sfioravano le spalle, scendendo da un lato del viso ad accarezzarle la fronte, naturalmente mossi da morbide onde, per riprodurre le quali lei avrebbe dovuto passare diverse ore con il ferro arricciacapelli davanti allo specchio. Gli occhi di un chiarissimo e indescrivibile verde smeraldo sembravano illuminare il piccolo camerino tappezzato di raso color avena. il suo occhio esperto intuiva, nascosta dalla sottoveste, la silhouette esile ma aggraziata, ingentilita dalla morbida curva del piccolo seno e dei fianchi stretti.
    Sì, quella era una moderna ragazza d’altri tempi. Non era nelle nuove tendenze flapper dell’ultima moda che doveva ricercare l’abito per lei, ma nella rivisitazione in chiave moderna della raffinatezza del passato. Improvvisamente seppe qual era l’outfit perfetto...
    Quando Candy uscì dal camerino per farsi ammirare da Patty e Mrs. Roosevelt immerse in conversazione, sapeva già che non avrebbe fatto altre prove. Le due donne alzarono lo sguardo e sorrisero apertamente. Candy era veramente bellissima, splendente e… lei. Quello era il suo abito da sera, senza bisogno di vertiginose scollature e tagli della gonna a mostrare le gambe.
    Mrs. Huntigton aveva tirato fuori dal cilindro un abito di una stilista francese di nicchia, meno sulla cresta delle rivoluzionarie e visionarie Coco Chanel ed Elsa Schiapparelli, ma dotata di un gusto e di una cura del dettaglio impeccabili e raffinatissimi: Jeanne Kojì

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    disegno realizzato da koj70


    L’effetto strabiliante dell’abito era tutto giocato sulla sovrapposizione di differenti tessuti e tonalità di colore: dal delicato rosa della sopraveste di seta, al raffinato porpora degli inserti sul busto e sulla cinta, all’impalpabile grigio perla della sottoveste che si intravedeva sul davanti e accompagnava in onde sinuose ogni movimento. Anche la scollatura riproponeva la stessa sovrapposizione di tessuti e colori, con un taglio retto del corpetto di seta chiara sul seno, e la morbidezza delle maniche leggere e fluttuanti sotto le spalle. A completare il tutto, una fascia di seta porpora annodata lateralmente sul capo esaltava l’oro dei capelli Candy, e una morbida sciarpa dello stesso colore e tessuto faceva da immaginario trait d’union di tutto l’outfit.
    Patty aveva le lacrime agli occhi e Mrs. Roosevelt un sorriso soddisfatto mentre commentava:
    - Tesoro, qualunque impedimento lo abbia trattenuto, credo proprio che, dopo averti vista stasera, il nostro Terence si morderà le mani per non averti scritto prima quella lettera. Celia, mia cara, che ne direbbe di mostrarci anche gli accessori più adatti?

    *Romeo e Giulietta, Atto I, scena V.


    [continua]

    La colonna sonora di questo brano è un dono della mia cara amica MrsGraham, che ringrazio per aver voluto dedicare alla mia storia e alle emozioni che ci hanno legato ad essa questa intensa interpretazione del brano che dà il titolo al capitolo



    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-

    Edited by Cerchi di Fuoco - 1/3/2021, 16:12
     
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    - Mamma, a che ora parte il treno per Los Angeles domani? Vorrei accompagnarti.
    - Alle nove, caro. Ma non occorre. Credo che sarai stremato, dopo la rappresentazione di stasera e la festa di fine stagione al Waldorf Astoria, alla quale non potrai mancare, ovviamente, data la tua lunga assenza.
    - Ehm… vedremo! – rispose vago Terence, per nulla intenzionato a recarsi al ricevimento in programma. Eppure rassegnato, se non altro per rispetto e amicizia nei confronti di Robert, a farvi almeno un’apparizione.
    - No, tesoro, non “vedremo”. Semmai “andremo”. Tra l’altro, se posso permettermi, a giudicare dalle occhiaie che scorgo sul tuo viso, direi che non rischi di perdere una bella notte di sonno…
    Terence lanciò un lampo color fiordaliso dagli occhi e sollevò un angolo della bocca in una smorfia ironica, ma piena d’affetto. Sua madre come sempre gli leggeva dentro, ma aveva la grazia e la discrezione di non forzarlo mai ad alcuna confidenza. Tuttavia, l’arte dell’allusione era una di quelle nelle quali era maestra, al pari di quella della recitazione.
    Madre e figlio erano seduti al tavolino della terrazza dell’attico di lei con vista su Bryant Park, in West 42th Street, e sorseggiavano il caffè dopo un gradevole e intimo pranzo, godendo del sole e della reciproca compagnia. Nell’anticamera erano già pronte le dozzine di bauli, valigie e cappelliere per la trasferta californiana di Eleanor. Quella sera l’attrice avrebbe presenziato alla rappresentazione di Molto rumore per nulla per applaudire l’ennesima mirabile interpretazione del figlio e poi si sarebbe congedata per un po’ dal mondo di Broadway, per lanciarsi nella nuova ed eccitante sfida nel mondo della celluloide, sotto la guida del più grande attore e regista di tutti i tempi.
    - Facciamo un patto, mamma: io mi affaccerò con te alla festa di Robert, se tu mi permetterai di accompagnarti alla stazione domani. Probabilmente gli Studios e Mr. Chaplin ti ruberanno a New York per un tempo indefinito e voglio approfittare degli ultimi momenti che potremo trascorrere insieme. E, quando sarai lì, guardati le spalle da Mary Pickford e Gloria Swanson: sono certo che staranno facendo i loro riti voodoo per tenerti lontana dalle cineprese. È del tutto evidente che il tuo arrivo sconvolgerà lo star system hollywoodiano.
    - Terry, non ti sembra di esagerare, tesoro? Credo proprio che quei mostri sacri abbiano di meglio da fare che occuparsi di una debuttante come me… - rispose Eleanor con una falsa modestia talmente affettata che Terence inarcò un sopracciglio sorridendo.
    - Mamma, calchi i palcoscenici di Broadway da più di vent’anni: non fingere di ignorare le dinamiche del mondo dello spettacolo. Tutte le attrici cinematografiche più importanti saranno già in preda a crisi isteriche per il tuo arrivo. Non vai certo a bussare a una porta di servizio, tra l’altro… farai un film con la più sfavillante stella del momento!
    Terence era orgoglioso e felice del successo della madre, che riteneva una meritata e parziale riparazione alle sofferenze da lei patite in gioventù. Ciò gli fece ricordare il motivo di quella visita, oltre a un pranzo di congedo con sua madre prima della sua partenza. Mise una mano nella tasca interna della giacca, e ne trasse un sacchetto di velluto candido chiuso da un nastro di raso rosso e una busta chiusa.
    Eleanor, elegantemente seduta di fronte a lui, si fermò a fissarlo interrogativamente con la tazza a mezz’aria e il piattino nell’altra mano.
    - Mamma, ho qui per te qualcosa da parte di mio padre.
    Gli occhi blu dell’attrice, così simili a quelli del figlio, si sgranarono per lo stupore. Con movimenti attenti e controllati, Eleanor ripose la tazza sul piattino che poi poggiò delicatamente sul tavolo, appoggiandosi allo schienale della poltroncina e distogliendo lo sguardo dal figlio per indirizzarlo oltre la ringhiera in ferro battuto della terrazza.
    Terence non si aspettava che sarebbe stato facile. Ricordò la sua stessa reazione quando aveva ricevuto la lettera dal duca di Granchester, alcuni mesi prima. E sua madre non aveva neanche il vincolo del sangue a richiamarla alla lettura delle parole di quell’uomo. Sospirò per raccogliere le idee, prima di continuare, non voleva che sua madre fosse turbata.
    - Ascoltami mamma. Non mi hai chiesto nulla su mio padre da quando sono tornato, se non per accertarti che la sua salute si fosse ristabilita. Nessuno più di me accetta e comprende la riservatezza. Ma devi sapere almeno che lui si sta impegnando veramente per cambiare. A dire il vero, non sembra neanche che si stia sforzando: è come se i conti fatti col suo passato abbiano compiuto una lenta metamorfosi in lui, senza che nessuno possa dire come e da quando. So solo che è diventato un uomo che sa riconoscere i propri errori e sa chiedere scusa. È consapevole che al mondo non vi sia persona che lui abbia ferito più di te - Eleanor continuava a tenere lo sguardo fisso verso un punto lontano, nello spazio e forse anche nel tempo – Una volta mi hai chiesto di dargli una possibilità e di leggere una sua lettera. Non mi sono pentito di averlo fatto. Adesso ti chiedo di fidarti di me e di ascoltare anche tu ciò lui che ha da dirti.
    Terence allungò la mano sul tavolino per spingere verso la madre la lettera con lo stemma dei Granchester e il sacchettino di velluto. Al fruscio prodotto da quel movimento Eleanor si riscosse e tornò a voltarsi verso suo figlio. Si fissarono per qualche secondo. Poi, come rassicurata da ciò che aveva letto nelle iridi blu di fronte a lei, Eleanor annuì e allungò la mano per prendere la busta. La aprì con un movimento lento e ne trasse due fogli scritti fittamente nella grafia del Duca di Granchester, che aveva ritrovato tutta la decisione dei suoi segni netti e allungati verso l’alto.
    Suo figlio la osservò scorrere quelle pagine, il quasi impercettibile movimento delle pupille quale unica manifestazione dell’assorta lettura. L’espressione della donna non subì il minimo mutamento per i lunghi minuti che trascorsero in silenzio.
    Quando ebbe terminato, Eleanor sospirò lievemente. Senza alzare lo sguardo verso Terence posò la lettera davanti a sé e allungò sul tavolino la mano, adesso visibilmente tremante, per prendere il sacchetto di velluto. Con gesti eleganti delle lunghe, affusolate e curatissime dita sciolse il nastro per trarne la collana e il ciondolo di diamanti che Terence aveva già visto in Scozia e che aveva portato con sé, quale pegno di affetto e stima, umile richiesta di perdono per un passato impossibile da dimenticare.
    Eleanor tenne il ciondolo sul palmo della mano per diversi secondi, fissandone la luminescenza cangiante e quasi abbagliante esaltata dai raggi del sole, che sembravano catturati dalla brillantezza della pietra preziosa. La donna era completamente immersa nei suoi pensieri. Forse nel suo passato, al quale stava probabilmente dicendo addio per sempre. Infine, chiuse gli occhi e nello stesso tempo strinse il pugno attorno al prezioso monile. Si alzò e si diresse in silenzio verso il parapetto della terrazza.
    Si era levata una lieve brezza che muoveva delicatamente i suoi capelli del colore del grano e l’orlo del vestito lilla.
    Ammirando la figura della madre di spalle, dritta e affusolata sullo sfondo azzurro del cielo senza una nube, in quel momento a Terence venne in mente l’eroina di una tragedia greca, alta e magnifica e avvolta in un’aura di epicità e onore. Sì, quella era una storia di onore e di amore perduti, che in quel momento stavano lottando dentro di lei per chiudere definitivamente la porta su un passato che aveva terminato di gettare le proprie lunghe ombre sul presente, concedendole una speranza di rinnovamento, un nuovo inizio senza il peso dei ricordi.
    Terence capiva molto bene cosa stesse provando la madre: in pochi minuti le era stato chiesto di compiere quel percorso di accettazione e compromesso con un doloroso passato che lui aveva invece avuto gli ultimi mesi per compiere a fatica. Si alzò dalla sua poltroncina per avvicinarsi a lei in silenzio.
    Madre e figlio rimasero lì, l’uno accanto all’altra nel sole del pomeriggio e con l’unica compagnia del cinguettio dei passeri di Bryant Park a rompere il silenzio che li avvolgeva dolcemente.
    Dopo un po’ Eleanor, rivolse verso il basso lo sguardo, fissandolo sul grande edificio adiacente il parco e, in maniera alquanto imprevedibile, chiese al figlio:
    - Terence, sai cosa raffigurano le due grandi statue ai lati dell’ingresso della Public Library?
    Il ragazzo, colto alla sprovvista, diresse a sua volta lo sguardo verso l’imponente colonnato in marmo dell’edificio beaux-arts, dominato dalle due sculture alle quali alludeva sua madre. Vi era stato spesso: gli piaceva trascorrere del tempo all’interno della vasta sala di lettura al terzo piano, illuminata da un gigantesco lampadario a foglie d’oro e interamente rivestita di librerie di caldo mogano.
    - Si tratta di due leoni – rispose perplesso.
    - Esatto. Sai qual è il loro nome?
    - No, mamma – Terence si chiese come facesse la madre a sapere tale informazione. Era una donna sorprendente.
    - Sono chiamati Patience e Fortitude.
    - “Pazienza” e “Forza d’animo” – ripeté Terence a bassa voce.
    - Sì, caro, esatto – Eleanor si voltò verso di lui e finalmente Terence poté vedere il suo viso, sereno e sorridente.
    Qualunque cosa le avesse scritto il padre, sua madre adesso si era riconciliata con i dolorosi spettri del loro passato
    - Pazienza e Forza d’animo – concluse la donna – ovvero tutto ciò che occorre nella vita per superare le difficoltà e andare avanti. Se ve ne fosse un terzo, figliolo, si chiamerebbe Perdono.

    patience_e_fortitude



    ___________________________



    Ore 07.00 p.m.

    Candy fremeva davanti allo specchio della sua camera, intenta a dare gli ultimi ritocchi alla toletta per la serata che la attendeva:
    “Quando ci si sente veramente pronti per la serata più importante della propria vita?” si chiese posandosi una piccola mano sul petto, cercando di contenere il battito che, da quando aveva cominciato a prepararsi, era diventato incontrollato.
    La giornata era stata frenetica, in giro per New York con Patty e Mrs. Roosevelt alla ricerca prima dell’abito perfetto, poi da uno dei coiffeur più a-la-page di Manhattan, dove Eleanor aveva insistito perché Candy si abbandonasse alle sapienti mani di Monsieur Raimond (dietro le cui spoglie Candy sospettava fortemente si celasse un più che anglosassone Raymond) per dare una morbidezza e una lucentezza ancora più intense ai suoi capelli, raccolti nella fascia color porpora. L’effetto finale era di freschezza e naturalezza, grazie ai quali l’acconciatura, pur raffinatissima, non strideva con la personalità semplice e argentina della ragazza.
    Da quando si era ritirata per cambiarsi, però, non c’era stato scampo all’ansia sempre più incombente.
    Il vestito era perfetto e anche gli accessori scelti dall’infallibile Celia: la donna aveva abbinato una collana di piccole e lucide perline rosa, che compivano un doppio giro, uno attorno al collo e l’altro fino alla vita di Candy.
    “Mi sentirei più a mio agio con la divisa della St. Paul School… o magari con un costume di Giulietta…” pensò Candy, riuscendo finalmente a sorridere.
    Chissà se Terence l’avrebbe riconosciuta così abbigliata… e chissà se, e quanto, lui stesso era cambiato. L’immagine del ragazzo alto e slanciato, avvolto in un mantello blu come il cielo e come gli occhi che l’avevano fissata quando si era voltato verso di lei sul ponte nebbioso del Mauretania, i capelli color cioccolato mossi dal vento gelido di una notte di dicembre, era indelebilmente impressa nella sua mente. Insieme a quella voce musicale e profonda, accesa dal raffinato accento inglese che lei non aveva mai sentito prima:
    “Chi è là?”
    Così era iniziato tutto.
    E, dopo sei anni e mille vite, lui non era più uscito dal suo cuore, dove era entrato con i suoi silenzi che preludevano alla risata più trascinante che Candy avesse mai udito. Con i suoi sguardi taglienti come lame e altrettanto freddi, che proprio per questo rendevano tanto straordinariamente magici gli inaspettati e caldi sorrisi che li seguivano. Con i suoi gesti imprevedibilmente delicati... Come quando l’aveva raccolta tra le sue braccia la notte in cui era caduta dalle scale della St. Paul School. Come ogni volta in cui l’aveva protetta da lontano dalle infamie dei Legan. Con il suo bacio carico di una passione per la quale lei non era pronta, e di cui aveva frainteso il significato in un modo per il quale non c’era rimpianto sufficiente. Con la morbidezza delle sue labbra che le sfioravano lievemente la fronte nel giardino del castello dei Granchester, dopo un pomeriggio di complici giochi. Nell’intimità del silenzio di un meraviglioso pomeriggio di pioggia davanti al camino. Avvolgendola con la melodia della sua armonica nella notte più buia della sua vita. Col viso incorniciato dai suoi meravigliosi capelli scomposti dal vento e illuminato dal più dolce dei sorrisi, sul predellino di un treno in corsa che li allontanava, sì, ma felici di essersi finalmente ritrovati. Stringendole le braccia attorno alla vita per trattenerla a sé, come a volerla proteggere mentre il mondo crollava attorno a loro…
    Inavvertitamente Candy si era portata le braccia attorno alla vita, in una replica di quell’ultimo abbraccio, di quell’addio. Era davvero possibile superare quella notte?
    Scrollò il capo.
    No, non quella sera!
    Ci avrebbe pensato dopo. Prima doveva rivederlo, tuffarsi di nuovo in quegli occhi di zaffiro e cercarvi dentro il significato di quell’unica frase:
    “…I miei sentimenti non sono cambiati…”
    Aveva attraversato l’oceano a quindici anni da sola… poteva percorrere le poche strade che la separavano da Broadway e dal teatro Stratford e andare a vedere cosa si nascondeva dietro quella nuova curva del suo cammino!
    Candy pensò ad Albert e le mancò moltissimo. Sapeva che si sarebbe sentita più sicura di sè al suo braccio, come in ogni momento difficile della sua vita. L’indomani, qualunque fosse stato l’esito di quella notte, gli avrebbe scritto per sentirlo più vicino.
    Sospirando indossò la stola e, prima di uscire, aprì il cofanetto di legno contenente i suoi più preziosi tesori e le lettere di Terence. Non lo aveva più aperto dalla sera in cui aveva strappato in mille pezzi la lettera di Susanna. Ne trasse il carillon della felicità del suo caro Stear, l’ultimo dono che le aveva fatto, il suo augurio per lei.
    Dalla notte in cui aveva lasciato New York e il suo amore tanti anni prima, quel talismano sembrava aver perso la capacità di diffondere la propria melodia di felicità e non suonava più. Così, da quando era tornata a Chicago, era stato deposto, silente come il cuore della sua proprietaria, nel cofanetto dei ricordi. Ma adesso Candy sentiva il bisogno imperioso di averlo accanto per trarne forza. Lo depose con delicatezza nella borsetta di seta e finalmente si sentì pronta ad avviarsi.
    Con un ultimo profondo respiro uscì dalla stanza diretta al piano inferiore dove Patty, Hal e Mrs. Roosevelt la aspettavano, impazienti quasi quanto lei e partecipi della sua emozione.

    [continua]



    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-
     
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    Ore 07.30 p.m.

    Terence si aggirava per il camerino, fiocamente illuminato solo dalle luci della specchiera davanti al tavolino da trucco, in cerca della totale concentrazione necessaria ad entrare in scena. Ogni suo gesto proiettava affascinanti ombre che guizzavano fluidamente sulle pareti chiare, inseguendo i suoi movimenti.
    Come sempre, dal momento in cui giungeva in teatro per una rappresentazione fino a quando il sipario calava lentamente, di solito in un tripudio di applausi e acclamazioni, Terence Graham cessava di esistere, sostituito dal personaggio che lo invadeva completamente, prendendo possesso di ogni fibra del suo corpo, donato di volta in volta a Giulio Cesare, Antonio, Riccardo III o, come in quell’occasione, al brillante Benedick.
    Si era già truccato (non tollerava che nessun altro lo facesse al suo posto, trovandolo un atto di contatto fisico troppo intimo, diversamente da molti colleghi che pretendevano ormai una truccatrice dedicata) e aveva indossato il costume di scena: una blusa di morbido velluto marrone ricamato a fili d’oro e verdi, stretto in vita da una cintura di cuoio marocchino dalla quale pendeva una spada, la cui elsa dorata pregiatamente istoriata non aveva nulla da invidiare all’opera del più autentico armaiolo rinascimentale. Le gambe muscolose e tornite erano avvolte in una calzamaglia color muschio, sopra alla quale Terence calzava degli stivali alti fino al ginocchio dello stesso cuoio della cintura. Sotto il giustacuore, le cui maniche erano tagliate sotto le spalle, indossava una candida camicia di seta dalle lunghe e morbide maniche a sbuffo, e il tutto era completato da una catena d’oro pendente sul davanti della blusa, recante le insegne del casato d’appartenenza del personaggio shakespeariano. L’impressione di vigore, gioventù, nobiltà, erano impressionanti, anche se non si sarebbe potuto affermare quanto fosse dovuto al costume di scena e quanto alla fierezza dello sguardo e del portamento di Terence, che sommava mirabilmente la sua naturale e aristocratica eleganza a quella richiesta dall’interpretazione per la quale si stava preparando.
    Si fermò al centro del camerino e, rivolgendosi ad un immaginario Leonato, declamò con la sua voce stentorea ma calda come caramello fuso:
    - Eh, sì, tutti son buoni a farsi forti al dolore degli altri, eccetto chi lo deve sopportare!
    - Ben detto, amico mio! – esclamò Robert Hathaway, aprendo la porta ed entrando con un sorriso di approvazione e ammirazione alla vista di Terence già in abiti di scena, pronto per l’esibizione alla quale mancava ormai solo mezz’ora.
    Terence trasalì, cacciato fuori a forza dal personaggio di Benedick per ritornare ad essere se stesso, a causa di quell’intrusione per la quale era pronto a fulminare l’inopportuno invasore con uno dei suoi sguardi, famigerati nel mondo dello spettacolo. Solo quando si accorse che si trattava del vecchio amico riuscì a vincere il fastidio. Insieme a Eleanor Baker, Robert era l’unica persona ammessa al suo santuario nei momenti immediatamente antecedenti l’ingresso in scena. Tale concessione era la più grande manifestazione di stima e affetto da parte del lunatico interprete nei confronti del suo regista.
    - Robert, mi hai fatto spaventare.
    - Non dire sciocchezze, amico mio, sei soltanto infastidito dalla mia intrusione, anche se cerchi di mascherarlo con molta meno capacità interpretativa di quella che mettevi nei panni di Benedick. A dimostrazione del fatto che la vita è la nostra recita peggio riuscita.
    Terence chiuse gli occhi e sorrise alla freddura del suo amico e mentore.
    - Sei pronto per tornare a calcare le scene dello Stratford Theatre, mio caro? Ci sei mancato in tour e, sebbene Charles se la sia cavata egregiamente, credo che non sia ancora sorta all’orizzonte una nuova stella sfavillante come quella di Terence Graham – aggiunse Hathaway.
    - Ne sono lieto, Robert. Il mutuo per l’acquisto del mio appartamento al Village è decennale!
    Robert rise e Terence sorrise, ancora troppo calato nella parte di Benedick per lasciarsi andare completamente.
    - Eleanor interverrà allo spettacolo, Terence? Mi farebbe piacere che venisse anche alla festa al Waldorf, dopo.
    - Certo che verrà a teatro. Non foss’altro per trascinarmi con sé alla festa, accertandosi che io non me la svigni come mio solito.
    - Bene! Strano, non l’ho ancora vista nel suo solito palco e mi chiedevo se non fosse già partita per Los Angeles.
    - No, parte domani mattina. Ancora per questa sera mi farà da accompagnatrice. Da domani faticherai molto di più a convincermi a presenziare ai tuoi noiosissimi e futili ricevimenti, amico mio!
    Robert pensò all’altra dama, anzi, alla damigella, che aveva incontrato a Washington poche settimane prima. Intuiva che quella ragazza doveva avere un pesante passato condiviso con Terence e la sua sensibilità arrivava a fargli ritenere che quel passato gettasse i suoi strascichi ancora nel presente. Ma, da quando era tornato dalla Scozia, non aveva ancora avuto modo di approcciare il giovane attore e parlargliene. Conoscendo bene il ragazzo, cui voleva bene come ad un figlio, aveva molte remore a violare quella parte della sua vita attorno alla quale aveva innalzato un così solido bastione difensivo di riservatezza.
    - Il pubblico è quasi tutto arrivato e platea e loggione sono gremiti. Credo che rivederti dopo tanti mesi costituisca uno dei motivi di maggior richiamo per gli spettatori di questa sera, Terence.
    - Mi fa piacere, Robert. Quindi lasciami in pace, in modo che io possa recuperare la concentrazione necessaria per non deluderli.
    E, rispondendo a quelle parole d’accusa con una sardonica risata e lanciando a Terence un ultimo sguardo di affetto, Robert si ritirò chiudendosi la porta alle spalle.

    “Eppure è certo che a me voglion bene tutte le donne,
    voi soltanto no;
    e vorrei tanto ritrovarmi in petto un cuore meno duro,
    perché con quello che mi porto dentro,
    non ne amo nessuna, in verità.” *



    Declamò quindi Terence ad una immaginaria Beatrice. La quale però, invece di avere gli occhi e i capelli castani di Karen Kleiss, aveva il volto incorniciato da morbidi riccioli biondi e lo guardava con occhi del colore dello smeraldo.

    ____________________________



    Ore 08.00 p.m.

    Seduta tra Patty e Eleanor nel centrale palco di primo ordine riservato ai Roosevelt, Candy tremava come una foglia. Dopo cinque infiniti anni stava per rivedere il volto di Terence, anziché evocarlo nella sua mente, come aveva fatto ogni giorno da allora. Fissava come in trance il pesante sipario di velluto blu pavone, mentre gli ultimi ritardatari riempivano i pochi palchi ancora vuoti e il brusio della conversazione tra eleganti uomini in tight e donne inguainate in elaborati abiti da sera riempiva la platea.
    Il teatro Stratford era uno dei più piccoli di Broadway, ma grazie al repertorio shakespeariano ispirato alla più intransigente interpretazione del First Folio e alle indimenticabili interpretazioni di Robert Hathaway, prima, e di Terence Graham, poi, si era ritagliato un posto di primo piano nella Great White Way, potendo ormai vantare tra i suoi habitué le più importanti e modaiole personalità del jet set newyorkese.
    Candy si guardò intorno, chiedendosi se anche Eleanor Baker fosse presente quella sera. Se la tensione per il prossimo incontro con Terence non l’avesse attanagliata in quel modo, sarebbe andata a cercarla. Ma si sentiva paralizzata al suo posto, le mani ad artigliare il parapetto foderato di velluto davanti a lei, gli occhi sbarrati in attesa dell’inizio della commedia.
    Durante la sua lunga notte insonne, Candy aveva letto e riletto il testo e calcolato al secondo il momento dell’ingresso in scena di Benedick, pronto a dare il via alle sue schermaglie verbali con la loquace nipote di Leonato, Beatrice.
    La campanella finalmente suonò e le luci si attenuarono lentamente, provocando in Candy un balzo imprevisto del cuore. Senza accorgersene, cominciò a trattenere il respiro e fu solo grazie a Patty, e alla mano che l’amica posò dolcemente sulla sua, stringendola con infinita dolcezza per rassicurarla, che si ricordò che, se voleva arrivare viva al momento in cui avrebbe finalmente incontrato Terence, doveva necessariamente fornire aria ai propri polmoni.
    Quando le luci furono completamente spente e il teatro immerso nel buio e nel silenzio totali che si materializzano magicamente solo un istante prima dell’ingresso in scena degli attori, il sipario si sollevò, arricciandosi in morbide pieghe, sospinto verso l’alto in pari misura dalle corde tirate dietro il palcoscenico e dalla forza del desiderio di una delle spettatrici in un palco del primo ordine.

    - Questo messaggio annuncia che don Pedro sarà a Messina questa sera stessa – scandì l’attore che interpretava Leonato, dando il via alla rappresentazione.
    Terence, al lato del palcoscenico, si preparava ad entrare in scena insieme al suo giovane e talentuoso collega Charles Dawson, l’interprete di Claudio, a Don Pedro e a Don Giovanni.
    Karen era già al centro della scena e la dominava graziosamente, scambiandosi facezie con Leonato nelle vesti di Beatrice, ruolo che si sarebbe detto il Bardo avesse scritto tre secoli prima proprio pensando alla sua impudenza.
    Come sempre pochi minuti prima del suo ingresso in scena, Terence era stato completamente rapito da Talia, per cui platea, palchi, loggione, ogni dettaglio del teatro e delle quinte erano scomparsi ai suoi occhi, mentre la Musa protettrice del teatro lo prendeva per mano e conduceva i suoi passi sul palcoscenico fin dalla prima battuta. Si sarebbe poi separata dal suo discepolo preferito solo quando il sipario fosse calato definitivamente. I suoi occhi accesi di feroce determinazione fissavano il punto preciso del palcoscenico che avrebbe raggiunto di lì a pochi secondi, oscurando tutto il contesto circostante. Da lì, avvolto nell’aura smagliante della luce dei riflettori, avrebbe lasciato che la magia del teatro si ripetesse, ogni volta uguale a se stessa e ogni volta nuova.
    - No di certo! Fin quando non farà caldo a gennaio – declamò Karen, con la giusta intonazione tra il beffardo e il malizioso.
    Era il momento!
    Con passo deciso e militaresco, Benedick entrò in scena insieme ai suoi tre compagni d’arme e fu a Messina.

    “Terence!”
    Nonostante ogni raccomandazione ripetutasi nelle ultime ore, nell’istante stesso in cui Terence comparve in scena, gli occhi di Candy si riempirono di lacrime che non avrebbero smesso di sgorgare ininterrottamente per tutta la durata dello spettacolo.
    Lui era lì, di fronte a lei.
    Solo adesso, dopo tutti gli anni di separazione straziante, rimpianto lancinante, ricordi struggenti e immenso amore, Candy comprendeva davvero appieno la portata dei propri sentimenti, misurandoli dall’intensità dello sforzo che dovette compiere per non uscire di corsa dal palco e correre da lui.
    I suoi capelli castani, ancora ribelli e lunghi fino alle spalle, erano tali e quali li ricordava, mentre il fisico era diventato più slanciato e… maturo, ancora più elegante e nobile.
    Attraverso il velo di lacrime che le sfocava la vista, conferendo a tutto il contesto la consistenza di un sogno, Candy lo guardò muoversi con esperienza e disinvoltura sul palcoscenico. Persino dal luogo dove si trovava, distante diversi metri dal punto in cui recitava l’oggetto del suo amore, riusciva a distinguere il fuoco blu che tanto bene ricordava e che ardeva nei suoi occhi. Era la stessa fiamma dalla quale era stata riscaldata in un pomeriggio in riva al lago Loch Lomond, mentre lui le recitava per la prima volta versi di Shakespeare, aprendole il cuore e lasciando che lei sbirciasse le meraviglie che custodiva: i suoi sogni.
    “Lo farai, Terence. Sarai un grande attore, lo so! Tu sei intelligente, carismatico, coraggioso, orgoglioso ma anche onesto, generoso e… potrai diventare qualsiasi cosa tu vorrai, nella vita. Devi solo decidere quello che vuoi, veramente!”
    E lo era diventato: il suo meraviglioso ragazzo era divenuto uno splendido uomo, che aveva avuto la forza e la determinazione di inseguire il suo sogno e di andarselo a prendere.
    “Io so esattamente quello che voglio, Candy…”
    Mentre continuava a piangere lacrime miste di gioia ed emozioni a lungo represse, Candy si permise di pensare che il sacrificio che aveva fatto, e che forse gli aveva anche imposto in una lontana notte di neve, non era stato vano se gli aveva consentito di diventare colui che si stava esibendo davanti ai sui occhi: quel meraviglioso essere che si muoveva trasudando fascino e commovente talento dinanzi a lei e a tutti gli spettatori ammutoliti dall’ammirazione.
    A Rocktown aveva rischiato di perdersi, ma aveva vinto la sua guerra contro gli istinti peggiori e i retaggi oscuri della sua anima, consegnandosi definitivamente alla luce che adesso irradiava dal palco.
    Quanto lo amava! E quanto dolorosamente le era mancato…
    Sempre più avvinta dalla recitazione, Candy seguiva rapita ogni più piccolo e impercettibile gesto di Terence sul palco, muovendosi insieme a lui e sussurrando gli immortali e scoppiettanti versi del bardo, che aveva imparato a memoria, in perfetta sintonia con la sua voce. Non si accorse di avere a sua volta inarcato le sopracciglia, indignata quanto Benedick nei confronti di don Pedro, quando quest’ultimo osò insinuare che il suo ospite fosse vittima dell’amore. Ammirava i movimenti armoniosi del corpo e del volto di Terence, ipnotizzata dall’onda del colore delle castagne che faceva da splendida cornice al suo volto, muovendosi allo stesso ritmo dei suoi movimenti sul palco e accendendosi di caldi riflessi ramati sotto la luce dei riflettori.
    Quando Benedick esclamò riferendosi a Beatrice:
    - Questa madamigella Tuttalingua io proprio non riesco a digerirla! - a Candy sembrò che avesse invece detto “madamigella Tuttelentiggini”, e sussultò sulla sua poltroncina.
    Le schermaglie fintamente stizzite tra Benedick e Beatrice celavano, dietro una parvenza di indifferenza, la nascente e irrefrenabile attrazione tra i due, e risvegliarono i sensi di Candy, facendola fremere al ricordo dei loro dialoghi sulla seconda collina di Pony: lei che correva a cercarlo per battibeccare con lui, quale inconsapevole antidoto alla tensione e all’eccitazione che già allora le provocava il suo pensiero.
    Tra le lacrime irrefrenabili, sul suo viso si disegnò un dolcissimo sorriso.
    Dopo quasi due ore sul palco, Terence era ancora assolutamente padrone di ogni gesto e intonazione della voce che stava donando al complesso e arguto personaggio di Benedick, ben rispecchiando il suo stesso atteggiamento di un tempo: la totale sfiducia verso il mondo e le donne.
    Con le mani strette l’una all’altra tanto convulsamente che, se i suoi sensi non fossero stati interamente calamitati dall’uomo sul palcoscenico, avrebbe provato un acuto dolore a ciascuna delle articolazioni delle dita, e con gli occhi fissi su quella che per lei poteva tranquillamente definirsi l’unica presenza in quel teatro, Candy seguì ogni dettaglio della commedia, che intanto si avvicinava al suo lieto epilogo. La saggezza e l’arguta oratoria di Beatrice avevano finalmente vinto le misogine resistenze di un Benedick ormai totalmente conquistato.
    - Miracolo! Le nostre mani unite e in conflitto con i nostri cuori… su, che ti sposo! Ma, per questa luce, lo faccio solamente per pietà! – esclamò il cavaliere.
    - E io non mi rifiuto – rispose Beatrice - Ma per la luce di questo bel giorno, lo faccio solo perché tutti qui hanno tanto insistito, e anche un po’ per salvarti la vita, ché m’han detto che te ne stavi andando in consunzione.
    - Basta, ti devo chiudere la bocca – tagliò corto Benedick, imprigionando le labbra di Beatrice in un bacio che trasudava passione.
    Del tutto inconsapevolmente, Candy sciolse l’intreccio delle dita e portò una mano a sfiorarsi le labbra, risentendo di nuovo, dopo tanti anni, il calore delle labbra di Terence come fossero sulle sue.

    Staccandosi da Karen, Terence si preparò alla conclusione dell’ultimo atto e, solo dopo aver pronunciato la battuta che chiudeva la commedia - Su, pifferi, suonate! – lasciò finalmente defluire Benedick dal suo corpo, del quale si riappropriò provando la consueta ondata di eccitazione mista a spossatezza che sempre lo coglieva in quel particolare momento, in cui volava nel tempo e nello spazio per rientrare nella propria dimensione, abbandonando quella shakespeariana.
    Si passò le dita tra i capelli per scaricare i residui di tensione e prese per mano Karen alla sua destra e Margareth Lebowsky, l’attrice che aveva interpretato il ruolo di Ero, alla sua sinistra, facendo insieme a loro un passo avanti e inchinandosi con movenze eleganti per ricevere il tributo della folla in delirio.
    Il pubblico era più che entusiasta, praticamente osannante. Dal loggione, tradizionalmente roccaforte dei più accaniti critici, da cui poteva giungere una stroncatura definitiva o l’innalzamento trionfale di una carriera, pioveva sul palcoscenico una profusione di fiori di ogni foggia e colore. Gli applausi scroscianti erano per tutta la compagnia, ma il nome di Terence era di gran lunga il più acclamato nel teatro.
    Gli attori raccolsero l’applauso del pubblico per qualche minuto, inchinandosi e salutando all’indirizzo del loggione. Terence volse lo sguardo alla sua sinistra, verso il palco a ridosso del palcoscenico solitamente occupato dalla madre, e si stupì nel vederlo vuoto. Ma non c’era tempo per le domande, il pubblico acclamava un’uscita del regista e Robert Hathaway raggiunse i suoi attori sotto i riflettori, per raccogliere il meritato tributo.
    Quando tutti gli altri furono usciti e Robert fu rimasto solo a calcare le assi del palcoscenico, gli applausi e le urla divennero talmente frenetiche da farlo sussultare. Era un vero trionfo, e c’era un solo artefice di tale delirante acclamazione! Con un cenno della mano Robert richiamò Terence sul palco. Quando il giovane, deposto il mantello di Benedick, si ripresentò al pubblico accanto al suo mentore, il teatro sembrò venir giù dagli applausi. Sul palcoscenico dello Stratford Theatre c’erano il passato e il futuro di Broadway: la storia del teatro quella sera aveva scritto una nuova pagina e l’indomani i giornali ne avrebbero di certo sancito il trionfo.
    “Candy, come vorrei poter condividere questi momenti con te…”
    Raccolti ancora gli ultimi secondi di battimani, Terence e Robert lanciarono un saluto finale al pubblico e lasciarono definitivamente il palcoscenico, dando appuntamento alla successiva stagione, mentre il sipario si chiudeva lentamente.

    * Molto rumore per nulla, Atto I, Scena I.

    [continua]


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    Anonymous
    Appena dietro le quinte, i due uomini si abbracciarono, commossi a loro volta per l’ondata di emozione collettiva che era corsa attraverso il teatro, pervadendoli.
    L’adrenalina era ancora in circolo attraverso il suo corpo, simile a scariche elettriche, quando Terence si sentì chiamare tra il frastuono, le urla di congratulazioni e le pacche sulle spalle che cercava in tutti i modi di evitare, facendosi strada a fatica verso il suo camerino.
    - Terence! – era la voce di Karen – Terence, vieni qui, presto!
    Il ragazzo si voltò incuriosito verso la collega che si trovava a diverse facce di distanza da lui e gridava e si sbracciava per farsi notare attraverso il trambusto. Il volto di Karen, pallido sotto il trucco, non aveva più alcuna traccia della gratificata gioia con la quale aveva accolto gli applausi poco prima. Terence inarcò un sopracciglio, chiedendosi cosa avesse provocato un mutamento così radicale, e si accorse che anche Robert era accorso al suo fianco, a sua volta improvvisamente vigile.
    - Cosa c’è Karen? – chiese Terence, lanciando un fugace sguardo alla borsa di cuoio che la ragazza aveva in mano, quella che lui stesso aveva preparato contenente il cambio per la festa al Waldorf Astoria.
    - Terence, ecco la borsa coi tuoi vestiti – esclamò Karen, porgendogliela, per nulla imbarazzata di aver violato la privacy del suo camerino; ma Terence sentiva troppo intensamente la pericolosa tensione del momento per curarsene - prendili e corri fuori, troverai un taxi ad aspettarti.
    Il ragazzo rimase interdetto e lanciò un’occhiata a Robert, la cui espressione, però, rivelava la medesima perplessità che aveva colto lui. Un’ondata premonitoria lo attraversò: improvvisamente rivide davanti agli occhi il palco della madre. Vuoto.
    - Karen, cosa accidenti è successo?
    - Sono venuti ad informarci solo pochi minuti fa. Tua madre… - il cuore di Terence mancò un battito – tua madre ha avuto un incidente. Pare sia stata investita da un’auto mentre usciva di casa per venire in teatro…
    Terence si sentì schiacciare da un peso opprimente e improvvisamente gli mancò l’aria. Rimase immobile, sentendosi accecare da un fascio di luce, prima che attorno a lui calasse, così almeno gli sembrò, un’oscurità totale. Quando ritrovò l’uso della parola chiese, scandendo le parole ma senza riuscire a terminare la frase:
    - Lei è…
    - Non so molto, solo che l’hanno portata all’ospedale. Vai da lei, subito. Potrai cambiarti lì! - rispose Karen che aveva completamente abbandonato i suoi vezzi per lasciare spazio a una premurosa preoccupazione verso il collega e amico.
    Con un fugace sguardo a Robert, che annuì gravemente, Terence ghermì la borsa dalle mani di Karen e stava già correndo verso l’uscita riservata allo staff quando, voltandosi appena al di sopra della propria spalla, gridò all’indirizzo della collega:
    - In quale ospedale si trova?
    - Il St. Jacob’s! – fu la risposta urlata, di cui Terence era già certo prima ancora che l’attrice scandisse la prima sillaba.
    Il destino non aveva ancora finito di burlarsi di lui.


    _________________________



    Ore 10.30 p.m.

    Le mani di Candy, già duramente provate dalla forza con cui avevano artigliato il parapetto del palco per tutta la serata, nonché dall’energia con la quale si erano strette l’una all’altra nei passaggi più emozionanti della commedia, subirono il colpo di grazia a causa dei venti minuti di battimani selvaggio cui la ragazza le aveva sottoposte al termine del quinto e conclusivo atto.
    Con gli occhi e il viso ormai talmente inondati di lacrime di gioia e ammirazione, tanto da provocare sorrisi comprensivi in Patty e Mrs. Roosevelt, nonché il più totale imbarazzo in Hal, Candy, in piedi e tutta protesa sul ciglio del palco, si chiese se fosse opportuno verificare la sensazione che provava: quella di poter volare fin sul palcoscenico dal suo Terence.
    Teneva gli occhi incollati alla figura slanciata che raccoglieva con eleganza gli applausi, oscurando con la sua luce tutti gli altri interpreti, almeno agli occhi di Candy, che pure aveva riconosciuto con affetto Karen Kleiss nelle vesti di Beatrice.
    Le lacrime a poco a poco cessarono di scorrerle sul viso quando Terence e Robert Hathaway lasciarono definitivamente il palcoscenico. Gli applausi scroscianti si spensero riluttantemente, e insieme a loro anche il corridoio di luce che Candy aveva avuto la sensazione illuminasse per tutta la sera lo spazio tra il suo palco e il punto del palcoscenico in cui di volta in volta si spostava Terence.
    Patty fece appena in tempo a bloccare il braccio di Candy, che stava per asciugarsi il volto con il dorso della mano nel suo solito gesto infantile. Gesto che avrebbe però messo in serio pericolo il delicato merletto dei guanti forniti da Miss. Hungtington.
    - Candy, ecco, usa questo! – le sussurrò gentilmente Hal, porgendole un fazzoletto cifrato che aveva estratto dal taschino del suo impeccabile tight.
    Nonostante la tensione, Candy sorrise con espressione colpevole, prendendo il fazzoletto di lino del ragazzo. Le mani però le tremavano ancora.
    - Ecco, Candy, lascia fare a me – sorrise Patty, togliendole il fazzoletto dalle mani e iniziando a tamponarle dolcemente il viso e gli occhi, sotto lo sguardo indulgente di Hal e quello divertito di Mrs. Roosevelt – Ecco… così va meglio! È una fortuna che tu non usi trucco, altrimenti saresti una maschera nera, a questo punto.
    - Non avrei mai immaginato che i dotti lacrimali di una fanciulla così esile potessero essere tanto provvisti. È contrario alle leggi della fisica, credo! – intervenne Hal, serio, provocando uno scoppio di ilarità tra le donne, che però riuscì finalmente a stemperare la tensione.
    - È anche una fortuna che tu non sia una di quelle donne che al primo pianto si chiazzano completamente di rosso porpora, con gli occhi strabuzzati e gonfi come quelli di un rospo – chiosò Eleanor Roosevelt, in tono pratico.
    - Oh no! Invece hai solo le gote deliziosamente arrossate, Candy, e negli occhi una lucentezza speciale... che non saprei se attribuire al pianto che ti sei fatta, o all’eccitazione per l’incontro che ti aspetta – la rassicurò Patty, spostandole delicatamente un ricciolo dalla fronte.
    A quelle parole Candy realizzò improvvisamente che era giunto il momento. La mano le corse all’inseparabile ciondolo di zaffiro al quale non aveva voluto rinunciare proprio quella sera, a costo di provocare un attacco apoplettico all’ineffabile Miss Hungtington, data la totale incoerenza con il resto della sua mise tutta sui toni del rosa.
    - Sei pronta, bambina? – le chiese Mrs. Roosevelt, con il tono più dolce che seppe trovare.
    Candy si guardò dentro e capì che sì, lo era. Da sempre.
    Sospirò e rispose con sicurezza:
    - Sì, Eleanor, sono pronta. Svoltiamo quest’angolo!
    Patty l’abbracciò affettuosamente e Hal le sorrise mentre usciva dal palco dietro la carismatica donna che la precedette dietro le quinte, seguendone il passo deciso e privo di esitazioni.
    I corridoi del teatro erano gremiti dal pubblico che sciamava fuori dai propri palchi per dirigersi verso il foyer, pregustando la parte più eccitante della serata: i commenti e i pettegolezzi del dopo rappresentazione. Facendosi strada con sapienza tra la folla e rispondendo sbrigativamente ai saluti e agli ossequi della maggior parte delle persone che incontravano lungo il cammino, Eleanor guidò Candy fino ad una porta, sulla quale era affissa la scritta “staff only”, che la donna aprì senza tentennamenti, attraversandola per mano a Candy. A quest’ultima sembrava di galleggiare su una bolla d’aria, non ricordando di aver camminato fin lì, né nessuna delle facce che avevano incontrato lungo il percorso.
    Abbandonati velluti, sfavillanti lampadari di cristallo e stucchi, i corridoi e gli spazi dietro le quinte erano invece una profusione di legno, cavi pendenti dal soffitto o arrotolati sul pavimento, luci soffuse e trambusto di inservienti e operai che andavano e venivano dal palcoscenico, il quale aveva perso tutta la sua magia, sventrato e privato dell’illusione creata dai meravigliosi fondali che adesso venivano rumorosamente abbassati e rimossi.
    L’effetto creato dalla coesistenza nel medesimo spazio di dipendenti in abiti da lavoro del ventesimo secolo e aristocratici in costume rinascimentale, molti dei quali fumavano sigarette totalmente incongruenti con la propia mìse, era straniante.
    Candy non era nuova a quell’atmosfera: ricordava la sua incursione dietro le quinte del teatro di Chicago, quando cercava un posto da cui assistere al Re Lear, anche allora in preda all’ansia per la prossima riunione con il suo Terence, considerato perduto fino a pochi giorni prima.
    Anche adesso il cuore le batteva all’impazzata a ogni passo e la ragazza guardava freneticamente alla sua destra e alla sua sinistra mentre avanzava in mezzo alla confusione, aspettandosi da un momento all’altro di veder sbucare tra quei volti sconosciuti quello amato di Terence. Immaginava che avrebbe tenuto con noncuranza una sigaretta tra le dita, ricevendo con imperturbabile indifferenza i complimenti per la sua interpretazione da qualche collega di cui ricordava a stento il nome, con il volto atteggiato a quell’espressione canzonatoria che lei ricordava tanto bene.
    Mentre procedeva con lo stomaco ormai aggrovigliato dall’impazienza, scorse invece, tra le altre, due facce conosciute immerse in fitta conversazione: quelle di Karen Kleiss e di Robert Hathaway.
    Mrs. Roosevelt la guidò con sicurezza verso il regista.
    - Robert! – chiamò con vigore.
    Hathaway sussultò nel sentire latrare il suo nome, assorto com’era nello scambio di battute con Karen, con la quale stava cercando di decidere se raggiungere Terence in ospedale o, conoscendone la ritrosia alla condivisione con chicchessia dei propri momenti più intimi, lasciargli il tempo di rendersi conto delle condizioni della madre, prima di imporgli la loro presenza.
    - Eleanor! – esclamò sorpreso il regista, stupito per la presenza della sua vecchia amica in quel contesto.
    Eleanor e Candy si avvicinarono alla coppia e Karen fece un’esclamazione sorpresa quando riconobbe il volto della ragazza, splendida nel suo abito da sera, che si era avvicinata timidamente insieme alla conoscente di Robert.
    - Candy, sei proprio tu?
    - Sì, Karen. Ci rivediamo dopo tanto tempo. Come stai? – rispose la ragazza, cui l’emozione non aveva tolto il piacere di incontrare la vecchia amica di un tempo passato.
    - Miss Andrew, è una vera sorpresa rivederla in queste circostanze – intervenne Robert Hathaway con il tono caldo che celava una sorpresa profonda nel trovarsela davanti in quel momento e in quelle circostanze. Se fino ad allora avesse nutrito ancora qualche dubbio circa il fatto che il destino legava con invisibili fili le vite di quella ragazza e di Terence, questo sarebbe appena stato spazzato via dalla certezza che doveva esserci un motivo molto forte per la sua presenza lì, proprio quella sera.
    - Tu conosci Candy, Robert? – chiese Eleanor, colta di sorpresa come le capitava molto di rado. Candy non le aveva mai raccontato del casuale incontro con Robert Hathaway a villa Lansing.
    - Sì, Eleanor, ho avuto il piacere di conoscere Miss Andrew in una precedente occasione – rispose il regista, abbracciando l’amica e palesandole il suo affetto in modo del tutto inappropriato all’alta società di cui Eleanor si divertiva a sovvertire le regole.
    - Buonasera Mr. Hathaway. È un vero piacere rivederla. Complimenti per la splendida rappresentazione. E complimenti anche a te, Karen! – aggiunse Candy, rivolgendosi con uno dei suoi caldi sorrisi alla ragazza bruna, che la fissava come se si trovasse di fronte a un fantasma.
    - Molto bene, bando alle ciance! – esclamò sbrigativamente a quel punto, esauriti i convenevoli, Mrs. Roosevelt – Robert, siamo qui perché avremmo bisogno di un favore.
    - Se posso, Eleanor, sai bene che sono a tua disposizione – rispose l’uomo, cui la curiosità circa la presenza dell’amica dietro le quinte, per giunta insieme a quella ragazza dall’oscuro legame con Terence, aveva per il momento fatto accantonare la preoccupazione per la sorte di Eleanor Baker. Come se tutto ciò non bastasse a ingarbugliare la situazione, sembrava che la sua prima attrice conoscesse a sua volta la bionda visitatrice.
    - Ecco, Robert: Candy, che per inciso è una mia cara amica e ospite in queste settimane, vorrebbe incontrare il suo vecchio… uhm…amico, Terence Graham. Sono certa che potrai aiutarla a raggiungere il suo camerino. E, prima che tu parta con le tue obiezioni, ti dico subito che il giovane in questione non avrà nulla da ridire, al riguardo. Me ne assumo personalmente la responsabilità.
    Karen e Robert si voltarono contemporaneamente verso Candy, la quale aveva abbassato timidamente gli occhi e le cui guance si erano prontamente imporporate sotto i loro sguardi.
    - Candy… - mormorò Karen, con gli occhi che le si facevano lucidi.
    Robert osservò la ragazza bionda, in piedi di fronte a lui, eterea e meravigliosa nel suo delicato abito da sera e con gli occhi accesi della più ardente fiamma d’amore e aspettativa che avesse mai veduto. A un tratto si rese conto che di fronte a lui si era materializzata Giulietta, affacciata al suo balcone, pochi istanti prima di udire la voce del suo Romeo salire dal cortile. Nessuna attrice sarebbe mai riuscita a riprodurre quell’intensa espressione. Annuì. Capiva tutto.
    “Come avrebbe potuto accontentarsi di Rosalina, quando aveva perduto Giulietta?” si chiese il regista, sentendo il cuore spezzarsi per la notizia che avrebbe dovuto dare a quella dolcissima Giulietta.
    - Ecco, Miss Andrew, non avrei assolutamente nessuna remora ad accompagnarla nel camerino di Terence – Robert fece una pausa mentre gli occhi di Candy, incollati ai suoi, si sgranavano – ma temo ci sia un problema.
    Karen si lasciò sfuggire un singhiozzo e Candy guardò ora l’uno ora l’altro. Un’ansia nuova, diversa dall’anticipazione per l’incontro con Terence e più acuta e dolorosa, si faceva strada in lei. Robert quindi riprese, a mo’ di spiegazione:
    - Ecco, Terence non si trova più qui…
    - Per l’amor del cielo! Quel ragazzo è più sfuggente di un’anguilla! – esclamò esasperata Mrs. Roosevelt – e dove si trova, di grazia?
    - Subito dopo la fine della rappresentazione è giunta una notizia… triste – intervenne Karen, rispondendo a Eleanor, ma con gli occhi incollati a quelli di Candy, adesso terrorizzata.
    - La madre di Terence ha avuto un incidente – concluse Robert, posando una mano sulla spalla di Candy coperta di impalpabile chiffon, immaginando che avrebbe necessitato di conforto – non sappiamo esattamente in quali condizioni si trovi, ma è stata ricoverata in ospedale e Terence si è precipitato da lei senza neanche il tempo di cambiarsi.
    Candy singhiozzò e si portò una mano alla bocca.
    Eleanor…
    Terence!
    “Oh mio Dio!”
    Non riusciva a ricomporre nella sua mente il significato di ciò che aveva appena udito, mentre ogni cosa attorno a lei cominciava a girare vorticosamente e la realtà perdeva consistenza. Riusciva a distinguere nella sua mente solo lo sguardo angosciato di Terence e a sentire l’impellente bisogno di stringerlo tra le sue braccia, passare le dita attraverso i suoi serici capelli scuri e baciargli le palpebre. Di confortarlo nel momento in cui subiva l’ennesima rabbiosa aggressione da parte del destino.
    Sollevò il capo con decisione, gli occhi che mandavano lampi di giada e determinazione.
    - Dove si trova, Mr. Hathaway? Desidero raggiungerlo subito.
    Tale volontà, che espressa in quel momento da chiunque altro sarebbe apparsa fuori luogo e inopportuna, pronunciata da quella bocca che aveva appena assunto le fattezze di una linea di pura risolutezza, non sembrò altro che la cosa più naturale ai tre spettatori di quel dramma. Conoscendo ciascuno una diversa porzione del legame che univa quei due giovani, Robert, Karen e Eleanor immediatamente e unanimemente arrivarono alla medesima conclusione: che in quel momento non vi era altro luogo al mondo in cui Candy dovesse trovarsi se non accanto a Terence. E, in maniera altrettanto chiara, che non vi era in tutto l’universo altri che quest’ultimo dovesse e volesse avere al suo fianco, il più presto possibile.
    - Si trova all’ospedale St. Jacob’s, Miss Andrew. Faccio chiamare subito un taxi per lei – rispose con dolcezza Robert, senza accorgersi del sussulto che aveva scosso Candy nell’udire il nome dell’ospedale.
    - Non sarà necessario! – intervenne Mrs. Roosevelt, con autorità. E rivolgendosi alla ragazza tremante al suo fianco aggiunse – Candy, prendi la nostra auto. Io e i ragazzi ci arrangeremo con un taxi. Vai, fai presto!
    Nonostante l’angoscia che la pervadeva, Candy lanciò uno sguardo grato a Mrs. Roosevelt e, con un ultimo cenno riconoscente a Robert si lanciò verso l’uscita, inseguendo il suo cuore che già la precedeva presso quel capolinea del fitto incastro dei loro destini, là dove tutto era finito… o forse iniziato.

    In macchina, sprofondata nell’avvolgente tappezzeria del sedile posteriore della Isotta Fraschini, mentre l’autista secondo le sue raccomandazioni volava lungo Broadway in direzione sud, Candy rabbrividì, ma non per il freddo. Anche stavolta le sembrarono infiniti i pochi minuti necessari a coprire il tragitto dal teatro Stratford all’ospedale, lo stesso percorso che aveva compiuto in carrozza cinque anni prima, interrompendo la visione di Romeo e Giulietta animata da un’angoscia parimenti opprimente, pur se completamente diversa dall’attuale.
    Mentre l’auto si lasciava alle spalle le sfavillanti luci del quartiere dei teatri, Candy, stringendo con entrambe le mani il suo prezioso ciondolo si chiese se stesse davvero facendo la cosa giusta nel seguire il suo istinto e soprattutto il suo cuore, che già si trovavano al fianco di Terence.
    Che diritto aveva di piombare lì dopo tutto quel tempo, in un momento per lui tanto doloroso e privato, imponendo la sua presenza nella peggiore delle circostanze possibili? Di certo la lettera che le aveva spedito e quelle parole: “…i miei sentimenti non sono cambiati” non avevano alcun valore per lui in quel momento.
    Eleanor…
    Candy pregò intensamente per lei, supplicando con tutto il cuore che la sua vita non fosse in pericolo e che a Terence venisse risparmiato quell’ennesimo dolore.
    Quando l’auto svoltò sgommando a sinistra e frenò davanti all’ingresso dell’ospedale St. Jacob’s con la maggior dolcezza consentita dalla folle velocità che l’autista aveva tenuto per tutto il tragitto, Candy non poté impedirsi di provare una fitta dolorosa al petto. In quel luogo aveva perso tutto ciò che per lei contava nella vita, lasciandolo tra quelle pareti e su quella terrazza che ora la sovrastava placidamente, apparentemente innocua e lambita teneramente dalla fresca brezza di una notte primaverile piena di stelle, tanto quanto feroce e implacabile le si era mostrata sotto la neve, quando era stata teatro del suo addio ai sogni, all’adolescenza e all’amore.
    Raccolse l’orlo del vestito da sera in una mano e con passi esitanti si diresse verso il cancello esterno, il cui cigolio sotto la spinta della mano tremante le ferì le orecchie e il cuore.
    Entrò.

    _________________________




    Ho sognato la mia donna che arrivava e mi trovava morto
    - strano sogno, che attribuiva ad un morto la facoltà di pensare –
    ma coi suoi baci m’infondeva per le labbra un tale soffio di vita
    che io, risorto, mi sentivo un imperatore.
    Ah, che deve essere pur dolce il vero possesso dell’amore,
    se sono così ricchi di gioia i suoi fantasmi!*




    Ore 11.15 p.m.

    Terence, ancora in costume di scena, era seduto accanto al letto della madre, il cui respiro era regolare quanto lo consentissero i due tubicini che salivano dalle narici e la flebo di sedativo a cui era stata attaccata.
    Quando era arrivato come una furia all’ospedale mezz’ora prima, non aveva avuto neanche il tempo di rivolgere un rabbioso pensiero a quel luogo che sembrava richiamarlo a sé in ognuno dei momenti più drammatici della sua vita, prendendosi gioco di lui con la sua indifferente crudeltà.
    L’infermiera gli aveva indicato il reparto di chirurgia generale al secondo piano, lo stesso in cui era stata ricoverata Susanna la notte dell’incidente, il che gli fece immediatamente pensare ad un intervento.
    In effetti, il dottor Stanford, il primario di chirurgia, gli aveva confermato che Eleanor era stata sottoposta ad una delicata operazione chirurgica.
    Pur non essendo mai stata in pericolo di vita, la donna era stata portata in ambulanza al pronto soccorso verso le sette di quella sera. Dalla ricostruzione fatta da alcuni giornalisti, che fiutato lo scoop avevano seguito la famosa attrice fino in ospedale, pareva che, non appena uscita dal portone del suo appartamento e diretta all’angolo con la Fifth Avenue per prendere il taxi che l’avrebbe condotta in teatro, Eleanor fosse stata travolta dal furgoncino di un fruttivendolo che sfrecciava a tutta velocità e totalmente fuori controllo lungo la 42th street. In seguito si sarebbe appurato che l’autista era completamente ubriaco al momento dello schianto. Dopo un urto che l’aveva sollevata da terra, Eleanor era ripiombata sul selciato, riportando una commozione cerebrale che le aveva fatto perdere i sensi, la frattura di tre costole e, cosa che destava la maggiore preoccupazione, una fuoriuscita della spalla destra dalla sua normale sede, per la quale era stata condotta d’urgenza in sala operatoria. Nel frattempo, poiché alcuni membri dello staff sanitario avevano riconosciuto la famosa attrice, degli inservienti erano stati mandati al teatro Stratford per avvertire il figlio della star, ma si era dovuta attendere la fine della commedia per poterlo informare.
    Quando Terence era giunto affannato, scarmigliato e in preda all’angoscia nei pressi della camera di Eleanor, che non aveva mai ripreso conoscenza dall’incidente ed era da poco uscita dalla sala operatoria, il dottor Stanford si era visto assalire da una furia in abito rinascimentale, armata di occhi taglienti come lame e animati dalla più viva preoccupazione, il quale aveva immediatamente ruggito al suo indirizzo una serie di domande circa la salute della madre.
    - La prego, sig. Graham, si calmi... – cercò di rasserenarlo il dottore, abituato alle reazioni sopra le righe dei parenti dei suoi pazienti, anche se non ad essere assalito da un cavaliere in giustacuore di velluto e con la spada appesa alla cintura – ...si calmi e le dirò tutto ciò che desidera sapere. Sua madre è fuori pericolo.
    A quelle parole, Terence era crollato di schianto sopra la panchina poggiata alla parete, i gomiti appoggiati alle ginocchia e il volto nascosto tra le mani, immobile e tremante.
    - Dovrà restare sotto osservazione per qualche giorno e nutrirsi con un sondino. Sorveglieremo le sue reazioni, ma posso dirle che l’ematoma alla testa si sta riassorbendo rapidamente e che l’intervento alla spalla è andato benissimo.
    Terence annuì senza sollevare il viso, troppo provato per qualsiasi altra cosa che non fosse cercare di recuperare lucidità e autocontrollo, astraendosi da tutto l’universo circostante.
    Se avesse perso anche sua madre dopo avere perso lei… un brivido lo attraversò.
    “Pazienza e Forza d’animo.”
    Richiamò alla mente le parole che Eleanor gli aveva rivolto poche ore prima sulla terrazza di casa sua. Sembrava passata un’intera esistenza.
    Sollevò lentamente il viso a guardare il dottore. Aveva gli occhi lucidi di lacrime inespresse, che li facevano brillare più che mai, simili a fiordalisi inumiditi dalle stille di rugiada del mattino.
    - Posso vederla? – chiese con la voce di chi tornasse a parlare dopo anni di silenzio. E in effetti gli sembrava un’altra vita quella in cui quella sera aveva recitato le sapide battute di Benedick sul palcoscenico dello Stratford Theatre.
    - Certo, ma tenga presente che rimarrà sedata fino a domattina. Stia tranquillo, le ripeto che è fuori pericolo. Io le consiglierei di tornare a casa a riposare, dopo averla vista. Domani potrà tornare e la troverà sveglia e lucida, sebbene un po’ dolorante. Mr. Graham... – aggiunse il dottore con un sorriso – ...le assicuro che sua madre è stata molto fortunata quest’oggi.
    Il concetto di fortuna non era esattamente quello che Terence associava principalmente alla sua vita, né tanto meno al luogo in cui si trovava in quel momento, ma ringraziò il dottore annuendogli grato e si voltò per dirigersi verso la camera di sua madre.
    La stanza era immersa nella semi-oscurità, così come i corridoi fiocamente illuminati da lampade disposte a intervalli regolari per spezzare le ombre che vi si annidavano nella notte, affrontandole però troppo pavidamente con una luce soffusa e tremante. Terence si diresse alla poltroncina di fianco al letto e si sedette, allungando la mano per posarla sopra quella di Eleanor. L’altro braccio di sua madre era avvolto in una spessa fasciatura e assicurato al busto per impedire ogni movimento della spalla.
    Pur nel pallore quasi diafano del suo incarnato di quella sera, Terence pensò per l’ennesima volta che era bellissima.
    “Ho soltanto te al mondo. Vorrei continuare ad avere la tua Pazienza e la tua Forza d’animo e poter credere ancora, ma so di avere perso il mio amore per sempre!”
    La rabbia e l’esaltazione impaziente di quella mattina erano scomparse, scacciate dalla dirompente forza della consapevolezza che Candy non avrebbe risposto alla sua lettera e che il complesso e perverso meccanismo ad orologeria per distruggergli la vita che si era messo in moto proprio lì, sulle scale a pochi metri dal punto in cui si trovava adesso, aveva portato a compimento la propria opera. Il destino, Susanna, lui stesso. Persino Candy. Tutti avevano complottato contro il suo amore e il risultato era che lui aveva perduto ogni cosa, tranne la donna esanime davanti a lui, sua madre, l’unico punto fermo che gli fosse rimasto.
    Per un attimo fu assalito dal terrore che, come gli era già accaduto, non avrebbe avuto la forza di sopportare l’onda di dolore che lo stava schiaffeggiando rabbiosamente, come le mareggiate spumose di una tempesta si abbattono con tutta la propria violenza su una scogliera. Temette che questa nuova fase della sua vita lo avrebbe fatto ripiombare giù, in basso, di nuovo nel precipizio dell’autocommiserazione e della depravazione. Verso un’altra Rocktown. Poi guardò la borsa che conteneva i suoi vestiti, sapendo che nella tasca della sua giacca erano custoditi i due più preziosi tesori che gli fossero rimasti: un’armonica argentata e un paio di orecchini di smeraldo. Strinse i pugni e rinnovò silenziosamente la promessa che aveva fatto a se stesso prima di lasciare per sempre le scalcinate assi di quel teatro di quart’ordine: di lì in avanti si sarebbe sempre comportato in modo tale che non avrebbe più potuto causare alcuna lacrima al suo angelo, al suo amore i cui occhi facevano impallidire di vergogna le pietre preziose custodite in quella borsa. Sebbene le sue speranze fossero tramontate per sempre, affogate nel silenzio seguito alla sua lettera, quella promessa era sempre valida e avrebbe continuato a fare da cartina di tornasole della sua vita: mai più Candy avrebbe avuto di che vergognarsi, anche se lui non avrebbe più potuto perdersi in quel mare verde acqua.
    “Pazienza e Forza d’animo” si ripeté dunque come un mantra, sfiorando con una carezza per l’ultima volta la mano di sua madre e lasciandole un bacio lieve sulla fronte prima di alzarsi, raccogliere la sua borsa da terra e dirigersi verso l’uscio.
    Terence richiuse delicatamente la porta alle sue spalle e si guardò attorno nel corridoio, cercando un posto dove cambiarsi.
    A pochi passi da lui si stagliava nella penombra la scala maledetta, quella sulla quale aveva cercato di fermare il tempo che invece gli era sfuggito tra le mani insieme al calore, strappato dal suo petto, di quella donna che non avrebbe mai smesso di amare. Muovendo a fatica le gambe, si avviò verso il ciglio, nello stesso punto in cui anni prima aveva atteso che Candy uscisse dalla stanza di Susanna, sapendo di doverle dire addio e del tutto impreparato a farlo.
    “Candy, imparerò mai a vivere senza di te, anziché semplicemente a sopravvivere?”
    Il lancinante dolore al petto che accolse questa domanda fu la più eloquente delle risposte. Turbato e angosciato, Terence si appoggiò al corrimano e, prima di iniziare la discesa, lanciò uno sguardo verso il fondo delle scale, dove sapeva attenderlo il resto della sua vita.
    Fu folgorato dallo splendore di due pupille di smeraldo, che spiccavano nella semioscurità del corridoio sottostante e che lo fissavano, accendendo della loro luce tutto lo spazio che li separava.

    Candy era appoggiata al corrimano alla base della scala, l’orlo del vestito raccolto in una mano e l’altra, tremante, poggiata sul legno lucido. Cercava di trovare dentro di sé la forza di iniziare quella salita, quel percorso a ritroso attraverso le sue memorie più strazianti. Cercava di raccogliere le idee, di scegliere le parole giuste da dire a Terence quando se lo fosse trovato davanti dopo tanti anni, proprio nel luogo d’origine di tutti i rimorsi e i rimpianti che nutriva nei suoi confronti.
    I gradini di quella scalinata, alla quale si era avvicinata lentamente e con timore, le sembravano infiniti e minacciosi. Giunta alla base aveva raccolto tutte le sue energie e, con un profondo respiro, aveva levato lo sguardo.
    Separati da lei dall’infinità di quella scala, trovò ad accoglierla i due occhi di zaffiro che aveva evocato mille volte nella sua mente, dall’ultima dolente volta in cui quello sguardo l’aveva accarezzata, proprio in quello stesso luogo.

    Il tempo si fermò di nuovo.
    I due giovani si fissarono in silenzio, immobili. L’unico suono che si propagò attraverso i corridoi vuoti, ma che nessuno dei due udì, fu quello prodotto dalla borsa che Terence si lasciò sfuggire dalle dita e che crollò a terra dimenticata, mentre i suoi occhi contemplavano la visione avvolta in una nuvola di seta rosa, col viso incorniciato dall’oro dei suoi capelli, che lo osservava tremante dal fondo di quella scala.
    Non voleva abbassare le palpebre, era terrorizzato di non ritrovarla lì, dopo, proprio come il fantasma di Rocktown.
    Candy pose un piede sul primo gradino e quel semplice movimento ruppe l’incantesimo che li aveva paralizzati per infiniti secondi uno di fronte all’altra, separati da tutto ciò che li aveva divisi in quegli anni.
    Terence si riscosse e a sua volta mosse verso il basso una gamba inguainata nello stivale di cuoio.
    Si muovevano all’unisono, lentamente, ogni passo una cura infinita, come se ne andasse delle loro vite. Ogni passo che annullava un pezzo in più della distanza su quella scala che li aveva separati. Come se, ad ogni gradino in meno tra loro, un frammento di dolore scivolasse via dai loro cuori. Gli occhi blu di lui erano incollati a quelli verdi di lei, non si erano lasciati un attimo da quando si erano rituffati gli uni dentro gli altri, mentre accorciavano passo dopo passo, gradino dopo gradino, la distanza che li divideva.
    Ad un tratto, come se un ideale direttore d’orchestra avesse dato il segnale, entrambi ruppero gli indugi e cominciarono a correre l’uno incontro all’altra, improvvisamente e simultaneamente incapaci di sopportare oltre quella separazione.
    Corsero su quella scala con tutto il fiato, la forza delle parole non dette, l’amore che avevano represso in quegli anni. Corsero su quella scala con lo stesso bisogno di allora di essere uniti per sentirsi vivi.
    Ma stavolta correvano l’uno verso l’altra, e non via da sé stessi. Stavolta i loro sguardi su quella scala erano rivolti l’uno all’altra, anziché verso la fine di quella corsa e verso il cupo futuro che li attendeva una volta esauriti i suoi gradini.
    In pochi attimi che parvero eterni furono finalmente l’uno nelle braccia dell’altra. Le braccia di Terence si strinsero di nuovo attorno alla vita di Candy, cingendola come se volesse imprigionarla per sempre con la forza del suo desiderio.
    Candy sentì ancora una volta il calore del petto di Terence su di lei, ma stavolta non era la sua schiena ad essere stretta a lui, ma il suo volto e il suo cuore, in un abbraccio che sapeva di buono, di dolce, di amore e di tutto ciò che di bello e puro vi fosse al mondo, anziché sapere di addio.
    Una guancia di Terence si posò delicatamente sul capo di Candy e finalmente le lacrime di entrambi ruppero gli indugi e sgorgarono. Lacrime di felicità.
    Quando i due giovani sollevarono infine i propri visi per scrutarsi, per la prima volta videro l’uno sul volto dell’altro quelle lacrime delle quali avevano in quella notte lontana solo intuito la consistenza salata e sentito il calore.
    Una mano di Terence abbandonò la schiena di Candy, per raggiungere delicatamente il suo viso e asciugarle dolcemente con il pollice le lacrime che le scendevano sul volto, sempre con gli occhi incatenati ai suoi. A quel tocco Candy rabbrividì, abbassando le palpebre dalle lunghe ciglia nere per assaporare con tutti i suoi sensi il tocco di quelle morbide dita sul suo viso. La carezza si estese lentamente alle sue guance e al collo, fino a raggiungere la nuca.
    Non c’era più niente a impedirlo, non c’era niente di più giusto, e quindi il viso di Terence annullò la breve distanza che ancora lo separava da quelle labbra tanto desiderate, per sancire una volta per tutte di fronte al destino che quella donna era sua, e che da allora in poi lo sarebbe stata per sempre.
    Candy accolse il tocco delle labbra di Terence sulle proprie, come un assetato finalmente ammesso a una fonte. Tutta la sua vita l’aveva condotta lì, tra le braccia dell’uomo che amava e che adesso le sfiorava le labbra con un tocco dolce e delicato, come se fosse la cosa più preziosa al mondo.
    E ad un tratto, nel chiuso di quell’ospedale, sembrò penetrare una leggera brezza profumata di narcisi e Candy e Terence furono sulla seconda collina di Pony.

    Ballano felici l’una tra le braccia dell’altro, facendosi cullare dall’eco della musica che arriva soffusa fino a loro dal salone da ballo e lasciandosi accarezzare dai raggi del sole che filtrano attraverso le foglie. Il sorriso di Terence è rilassato e felice e Candy non si è mai sentita tanto serena e al sicuro come in quel momento, tra le sue braccia.
    Di colpo Terence si immobilizza, interrompendo i passi di valzer con i quali la stava guidando sull’erba, così bruscamente che Candy finisce contro di lui, il volto sul suo petto.
    Spaventata, alza il viso e si sente perforare dallo sguardo più ardente che si sia mai posato su di lei in vita sua, come se quegli occhi, di un blu ora talmente profondo da sembrare nero, la stessero trapassando.
    - Terence…
    Gli occhi di Terence brillano. Candy riconosce in quegli occhi un sentimento nuovo e sconosciuto, un desiderio intenso che la paralizza e la spaventa.
    Terence la fissa per qualche secondo, cercando di trasmetterle ciò che lo agita e lo turba da quando l’ha presa tra le braccia e poi, abbracciandola repentinamente per stringerla a sé, abbassa il viso su quello di lei e assapora le labbra che non ha smesso un istante di desiderare da quando l’ha vista indossare il costume di Giulietta e che, sole, possono dare pace al suo animo tormentato.


    La bocca di Terence si impadronì di quella di Candy, reclamandola senza indugi, avvertendo dall’accelerazione del suo respiro che anche lei lo desiderava con tutta se stessa. Stringendola ancora di più a sé, con la mano immersa tra i morbidi e folti capelli dorati, iniziò a muovere con piccoli baci la bocca su quella di lei, esplorandone prima con lievi tocchi e poi con sempre maggiore avidità ogni piccolo dettaglio, mentre lei gli si offriva senza riserve, aderendo al suo corpo e stringendogli le braccia attorno alla schiena.
    Bevvero l’uno il respiro dell’altro, socchiudendo in armonia le proprie labbra e lasciando che le loro lingue si incontrassero per la prima volta, guizzando dolcemente l’una attorno all’altra, in una danza che non era un gioco, ma la vita che tornava a scorrere nelle loro vene, reclamando ciò a cui la giovinezza, la lunga separazione e il loro amore avevano stretto diritto.
    Terence le fece reclinare dolcemente il viso, in modo da potersi chinare ancora più verso di lei, senza smettere di divorarla con le labbra. Entrambi cercavano di saziare con quel bacio una fame reciproca che li attanagliava da troppo tempo, ma anche di dirsi tutto ciò che era sempre stato taciuto tra loro. Le parole “ti amo” passarono infinite volte dall’uno all’altra attraverso l’unione delle loro labbra e il respiro che si scambiarono.
    Candy stavolta non si sottrasse a quel tocco, che risvegliava i suoi sensi acuiti uno per uno: dal fresco profumo dei capelli di Terence che le accarezzavano il viso, al tocco imperioso ma al contempo delicato della mano di lui sulla sua nuca; dalla musica dei loro respiri sempre più ansanti, al calore delle sue labbra ardenti e infine al sapore della lingua di lui, che ormai si era completamente impadronita della sua bocca.
    Sospirò, sentendo intensi brividi scorrerle lungo la schiena.

    Terence cerca la pace che il suo animo non ha mai conosciuto nel tocco di quelle labbra tremanti. Non lo aveva programmato, ma sa che non può più separarsi da lei. Ha bisogno di bere da quelle labbra l’amore che non ha mai avuto nella sua vita, restituendoglielo con pari intensità.
    Lievemente, la stringe più forte a sé, cercando il contatto col suo corpo ma attento a non spaventarla. Con piccole carezze delle labbra esplora la bocca di lei, saggiandone la dolcezza come se ne dipendesse il mondo.
    Candy è paralizzata dalla sorpresa, non ha mai sperimentato un tocco così intimo. Ma soprattutto è spaventata dalla reazione del suo corpo, che desidera solo abbandonarsi a quello di lui, lasciandosi trasportare in alto, dove sente di poter volare. Già i suoi piedi sfiorano appena l’erba, mentre l’abbraccio di Terence la solleva da terra. Sta per lasciarsi andare, il desiderio e l’ebbrezza sono sul punto di prendere il dominio delle sue azioni, mentre il tocco della bocca di Terence diventa lentamente più esigente ed intimo. Candy sta per socchiudere le labbra, sta per lasciarsi invadere da una nuova felicità, quando all’improvviso un barlume di razionalità fa capolino nella sua mente e lei riesce a riprendere per un momento il controllo di sé.
    Solleva un braccio verso la guancia di Terence e lo schiaffeggia con tutta la forza della sua paura, della sua inesperienza e del desiderio che prova di abbandonarsi a lui.


    Incollata al corpo di Terence, persa nelle sensazioni di quel bacio infinito, Candy sollevò un braccio verso la guancia di Terence, per accarezzarla con tutto l’amore e il desiderio che finalmente fluivano liberamente in lei, passandogliela poi dietro la nuca, tra i folti capelli color del mogano, per stringerlo ancora di più a sé.
    Quando non ebbero più fiato da scambiarsi, i due giovani si separarono con riluttanza, le labbra infiammate dal contatto intimo che avevano condiviso.
    Terence sollevò finalmente il viso e prese quello di Candy tra le mani, posandole delicatamente sulle sue guance arrossate.
    Fissò intensamente quegli occhi verdi accesi dall’emozione, cercando di trasmetterle in silenzio tutto l’amore e la gratitudine che provava.
    Lei era lì, tra le sue braccia, e lui era seriamente intenzionato a non lasciarla andare mai più.
    Candy ricambiò il suo sguardo adorante e schiuse a sua volta le labbra in un sorriso puro e colmo d’amore.
    Quanto gli era mancato quel viso!
    Terence le sorrise a sua volta e poi, con un lampo divertito nello sguardo, inarcò imprevedibilmente un sopracciglio in quel modo che lei ricordava tanto bene e, sfoggiando la più irriverente delle sue espressioni, le rivolse le prime parole da quasi cinque anni a quella parte:
    - Baci molto meglio di sei anni fa, Tuttelentiggini!

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    Disegno realizzato dalla dolcissima Desiree



    “Se con mano del tutto indegna
    ho profanato questa sacra reliquia
    (è il peccato dei devoti)
    le mie labbra –pellegrini coperti di rossore –
    sono qui pronte a raddolcire il ruvido contatto
    con un tenero bacio”

    “Buon pellegrino,
    voi trattate con troppo rigore la vostra mano
    che seguì un rituale di devozione:
    perché anche i Santi hanno due mani
    e possono, i pellegrini, toccarle;
    e palma a palma è il bacio dei palmieri”

    “Non hanno labbra i santi e neanche i palmieri?”

    “Sì, pellegrino: labbra destinate alla preghiera”

    “E allora, cara Santa, facciano le labbra
    quello che fanno le mani che ti pregano:
    e tu ascoltale,
    perché non si volga a disperazione la speranza”

    “E allora non ti muovere,
    finché io abbia colto il frutto della mia.
    Così dalle mie labbra,
    con le tue labbra, hai tolto il mio peccato”

    “Ma ora, se te l’ho tolto, è sulle mie…”

    “Il peccato che hai tolto dalle mie labbra?
    Oh colpa squisitamente biasimata!
    Rendimelo!” **




    *Romeo e Giulietta, Atto V, Scena I.

    **Romeo e Giulietta, Atto I, Scena V.


    FINE CAPITOLO 6°




    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è
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    Edited by Cerchi di Fuoco - 18/1/2021, 11:01
     
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    Capitolo 7°: Il soffio del destino1


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    L’alba dagli occhi grigi
    sorride alla notte accigliata
    frastagliando di sprazzi luminosi
    le nuvole da levante;
    e la tenebra sbrecciata,
    barcollando come un ubriaco,
    si allontana dal varco del giorno
    e dalle fervide ruote di Titano*



    New York,
    02 maggio 1919


    L’aurora brillante faceva timidamente capolino tra i profili dei magnificenti edifici di New York e si apriva faticosamente la strada tra le ombre di una città che di notte si concedeva un volto completamente diverso da quello esibito alla luce del sole: col favore delle tenebre la metropoli si abbandonava al divertimento più sfrenato, si ubriacava, giurava vendette, uccideva, chiedeva pietà, piangeva. Amava.
    Era quel momento di transizione tra il vecchio e il nuovo, non più protetti dal buio e non ancora svelati dal sole, in cui per pochi istanti ci si poteva permettere di essere veramente se stessi.
    Quante volte Terence, nelle sue notti tormentate e insonni prima e dopo la morte di Susanna, aveva atteso l’alba come una benedizione che potesse strapparlo all’inferno delle ore troppo lentamente impilatesi una dopo l’altra nel buio... per poi, quando il tenue bagliore rosato lasciava spazio ai più invadenti raggi del sole, chiedersi affranto come avrebbe riempito di vita l’enorme vastità di tempo che ancora lo separava da una nuova notte.
    E quante volte Candy si era fatta trovare già sveglia dalla carezza delle dita rosate di Aurora, ansiosa di cominciare un nuovo giorno artificiosamente pieno di attività, energia, incontri... determinata a sostituire l’intensità di una vera vita con il suo surrogato: una esistenza frenetica. Concentrandosi su mille diversi e futili pensieri al solo scopo di distogliere la mente dall’unico sul quale desiderava disperatamente avvitarsi con tutta se stessa.
    Ma quel giorno l’alba aveva un sapore nuovo per entrambi.

    I primi raggi del sole li trovarono seduti fianco a fianco su una panchina di Battery Park, da cui avevano seguito l’incessante movimento di luci del battello per Staten Island e da dove adesso seguivano in silenzio l’armonioso volteggio dei primi gabbiani del mattino sopra di loro. Per una volta, entrambi provarono una piacevole sensazione di aspettativa per le meraviglie del nuovo giorno, anziché i noti laceranti dubbi compagni di mille veglie.

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    Terence si era tolto il costume di scena e aveva indossato il vestito da sera che teneva nella borsa di cuoio, quello che avrebbe dovuto indossare per il ricevimento al Waldorf. Lo smoking color dell’ebano e la camicia dallo sparato candido, sulla quale spiccavano ribelli ciocche castane, gli conferivano un aspetto profondamente aristocratico e di straripante fascino. Candy aveva sembianze più surreali, visto che adagiato sulle spalle sopra al meraviglioso abito da sera di Jeanne Kojì (che Terence aveva dimostrato di apprezzare, sia con l’espressione di profonda ammirazione con cui l’aveva rimirata per tutta la notte, sia con le innumerevoli volte in cui le aveva dichiarato che era “semplicemente incantevole, molto meglio della informe divisa della St. Paul School con cui ti arrampicavi sugli alberi”) portava il giustacuore di velluto di scena del ragazzo, per proteggersi dal freddo.
    La ragazza gli teneva la testa appoggiata su una spalla e guardava le onde che si infrangevano sui frangiflutti del porto, mentre lui, col braccio appoggiato allo schienale della panchina a circondarle le spalle, teneva la mano immersa nei suoi capelli biondi, accarezzandoli dolcemente.
    La fissava, non aveva smesso un istante di guardarla da quando l’aveva ritrovata, come se intendesse recuperare in una notte tutti gli sguardi persi nel pozzo oscuro e senza fondo del loro passato. Una mirabile trasformazione si era verificata sul volto di Terence: era come se la maschera di pietra che aveva indossato negli ultimi cinque anni si fosse frantumata. Lo sguardo di Candy aveva avuto un effetto opposto a quello della mitologica Medusa, riportandolo alla vita. I suoi lineamenti erano distesi e non c’era più traccia della tensione nervosa che aveva mosso ogni suo gesto e accompagnato ogni suo sguardo da quando si erano separati. Se non fosse stato per le tracce di una nuova maturità nei gesti, il riflesso nei suoi occhi sarebbe stato esattamente lo stesso di quello che illuminava lo sguardo dell’adolescente ribelle e insolente della St. Paul School, infuso oggi di una dolcezza nuova, ispirata unicamente dalla presenza della donna tra le sue braccia.
    Le forcine che avevano tenuto raccolti i capelli di Candy erano ormai sparse sul terreno, illudendo gli scoiattoli del parco circa una gradita offerta di cibo, e Terence poteva giocare liberamente con le morbide onde color del grano. La sensazione di poterla toccare, sentire il calore del corpo di lei contro il proprio fianco, ascoltare la sua voce... era inebriante. Com’era possibile che tutto sembrasse così naturale dopo tanto tempo? E che lei si abbandonasse contro di lui con uguale trasporto? Era così facile abituarsi alla felicità, riflettè, con il terrore che gli fosse di nuovo strappata dalle mani.
    - È già l’alba, Terry. Da quanto tempo siamo seduti su questa panchina? – mormorò lei, con la voce morbida come quella di un gatto che fa le fusa.
    - Troppo poco, Tuttelentiggini. Stavolta non mi farò giocare nessuno sporco tiro! Non appena rientreremo nella vita reale dovremo ricominciare a guardarci le spalle. Quindi, ho deciso che resteremo qui seduti per sempre – rispose Terence, parlando con il volto appoggiato sul suo capo, la voce soffocata dai riccioli che baciava dolcemente.
    - Beh, comunque stavolta siamo armati! – esclamò Candy, sollevando dalla panchina la spada di scena di Benedick.
    Entrambi risero insieme, come erano soliti fare tra i narcisi della seconda collina di Pony.
    Candy era inebriata, tutte le paure e le incertezze tra le quali si era arrovellata nell’ultimo anno si erano dissolte al vento come petali di tarassaco. Come aveva potuto permettere alle proprie insicurezze di rubarle tutto quel tempo? Assaporava quella nuova felicità nello stesso modo in cui da bambina faceva sciogliere lentamente in bocca la cioccolata che le concedeva Miss Pony, per gustarne più a lungo il sapore e farle prendere con calma il dominio del palato, invece di spezzarla rapidamente tra i denti.
    C’erano talmente tante cose da dire, domande da fare…
    Dopo, alla luce del sole!
    L’aurora aleggiava ancora attorno a loro, potevano permettersi di essere semplicemente e completamente felici.

    - E tu, Terence - aveva risposto prontamente Candy, alle prime spudorate parole che lui le aveva rivolto sulla scalinata sulla quale e con la quale si erano riconciliati - perché non mi baci mai vestito da uomo del XX secolo?
    A quelle parole lui l’aveva abbracciata di nuovo. Certo, se mai avesse avuto bisogno di conferme, che non avrebbe mai potuto amare nessun’altra che quella impudente e meravigliosa ragazza.
    Terence era corso a togliersi gli abiti di scena nel più breve tempo possibile e poi avevano lasciato l’ospedale. Candy aveva congedato l’autista dei Roosevelt con un messaggio per Patty e Eleanor, sorridendo maliziosamente alla faccia che aveva fatto Terence nel sentire nominare la facoltosa famiglia, uno dei simboli della New York che contava.
    - Hai molte cose da raccontarmi, Candy.
    - Anche tu, Terry – sorrise la ragazza.
    Avevano camminato mano nella mano per le strade deserte di Manhattan, percorrendo le stesse vie che Terence aveva attraversato in lungo e in largo infinite volte nelle sue notti insonni.
    Candy gli aveva raccontato della sua vita tra Chicago e la casa di Pony e degli ultimi mesi, tra Washington e New York.
    -Sai, prima di venire a New York ho conosciuto Robert Hathaway a Washington… oh! – esclamò, fermandosi di fronte al City Hall illuminato dai mille lampioni della sua piazza e alzando lo sguardo al suo viso con espressione preoccupata – come sta tuo padre?

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    Terence inarcò le sopracciglia, sorpreso che lei sapesse della sua permanenza in Scozia.
    - Sta molto meglio, Candy. È fuori pericolo. L’unica conseguenza dell’infarto è che il suo cuore si è molto ammorbidito ed è diventato un essere umano con il quale è quasi piacevole avere a che fare.
    -Terry! Possibile che tu non sia cambiato affatto in questi anni? – lo riprese Candy, con una voce terribilmente simile a quella con cui un tempo gli aveva intimato di non fumare sulla sua collina.
    Terence si fermò improvvisamente e, prendendole anche l’altra mano, la fissò negli occhi e le sussurrò con lo stesso intenso tono di Romeo che donava il proprio nome in pegno alla sua Giulietta:
    - Sono cambiato, credimi, Candy! Non sai quanto.
    Candy lo guardò a sua volta, sentendo l’amore travolgerla come una delle onde che in quel momento si infrangevano sui piloni del vicino ponte di Brooklyn. Poteva vedere la sofferenza dietro la luce che brillava negli occhi di Terence. Sarebbe mai scomparsa? Il senso di colpa tornò ad invaderla. Lo aveva lasciato due volte solo: sulle scale del St. Jacob’s e a Rocktown.
    - Oh Terence, perdonami, non volevo! È stata tutta colpa mi…
    - Shh! – Terence le pose l’indice sulle labbra socchiuse, delicatamente – sono io che devo chiederti perdono, per il mio silenzio vigliacco su quella terrazza, per averti lasciato and…
    Candy lo interruppe, ponendogli a sua volta due dita morbide e sottili sulla bocca carnosa.
    - Ssh! Basta rimpianti.
    Terence le baciò le dita e mosse il suo indice sulla bocca di Candy.
    - I miei sentimenti non sono cambiati –mormorò, ripetendo le parole della lettera che gli era costata tanto patimento e che adesso gli sembravano così inadeguate rispetto a ciò che gli esplodeva dentro.
    Candy assaporò il tocco tenero e sensuale delle dita di Terence sulla bocca e poi sul mento, più giù fino a sfiorarle con l’esterno della mano l’incavo del collo e, guardandolo con una luce d’amore che rendeva i suoi occhi verdi quasi trasparenti, gli mormorò, scossa da fremiti di un desiderio sconosciuto che si sommavano al noto brivido provocato dalla vellutata carezza di quelle iridi blu su di lei:
    - Quando dice “sentimenti”, di cosa stiamo parlando esattamente milord?
    Terence soffocò la risposta beffarda che gli era salita istintivamente alle labbra. No, non era quello il momento per scherzare. Da sei anni quelle parole gli bruciavano dentro, tenerle ancora prigioniere mentre quello sguardo incredibilmente verde era di nuovo incatenato al suo non era più possibile.
    E così, sullo sfondo della potente teatralità dello skyline di Manhattan e delle luci del Brooklyn Bridge, opera architettonica che sembrava essere stata progettata e posta in quel luogo appositamente per donare il perfetto fondale ai mille baci degli innamorati che cedevano ogni notte al suo romantico fascino, finalmente le parole che gli urlavano dentro da anni spezzarono la condanna al silenzio di cui erano state vittime. Con il tono di voce più caldo, commosso, intenso e intriso di profonda verità che nessun personaggio e nessun verso di Shakespeare avrebbero mai ricevuto in dono da lui, le disse:
    - Ti amo, Candy.
    Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Ogni ulteriore parola sarebbe stata di troppo e non avrebbe potuto aggiungere nulla alla assoluta completezza di quella semplice affermazione. C’era tutto un universo di sentimenti ed emozioni, c’erano le loro vite, che mille libri e miliardi di parole non avrebbero potuto esprimere più compiutamente di quel “ti amo”, sussurrato con la bocca ma sottolineato dal profondo riflesso color fiordaliso che lo aveva accompagnato.
    Ogni luce di New York e ogni stella nel suo cielo sembrarono splendere più intensamente solo per loro, mentre il silenzio attendeva la risposta di Candy. Con lo sguardo perso in quello di lui, lei sussurrò:
    - Ti amo Terry.
    E così, tutto fu detto.
    In quello scambio vi era il perdono reciproco per gli errori del passato, per le scelte avventate e quelle giuste che avevano cambiato le loro vite, rendendoli ciò che erano. Le stesse scelte che adesso li avevano condotti di fronte al loro nuovo inizio, consapevoli di appartenersi irrevocabilmente. E vi era tutta la ferrea volontà di non sprecare più, per nulla al mondo, la seconda opportunità che veniva generosamente e incredibilmente loro offerta e che avrebbero difeso questa volta con le unghie e con i denti, consci ciascuno di averla guadagnata con la propria personale dose di sofferenza.
    Un altro bacio, più dolce e meno vorace di quello sulle scale del St Jacob’s Hospital, suggellò quel voto. Se un cappellano avesse detto in quel momento: “Può baciare la sposa!”, Terence e Candy non avrebbero potuto sentirsi più indissolubilmente legati di quanto non furono in quell’unione delle labbra davanti alla costa di Manhattan e alle sue mille luci baluginanti, simili a gemme che brillavano solo per loro.

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    Avevano camminato ancora, spostandosi verso sud e Wall Street, nei luoghi in cui tre secoli prima aveva preso terra una nave di coraggiosi coloni olandesi, animati solo dalla propria operosa fede calvinista e dal proprio visionario sguardo sul futuro, che avevano posto la prima pietra e dato inizio alla straordinaria storia di New York.
    Qualche luce cominciava a illuminare sporadicamente le finestre, nel buio che ancora avvolgeva la città ma che già si preparava ad abbandonarla.
    - Insomma, sei diventata una suffragetta, Tuttelentiggini. Credo che Miss Pony e Suor Maria avranno qualcosa da ridire al riguardo! – la canzonò Terence quando lei gli raccontò del legame con i Roosevelt.
    - Per l’amor del cielo, Terence, fatela finita con questa storia, tu e Albert! Non sono una suffragetta: seguo le iniziative di Mrs. Roosevelt in favore dei bambini in difficoltà – puntualizzò Candy, oltraggiata.
    - Albert? Non dirmi che vivi ancora con lui, Candy! – Terence per un momento si accigliò. Non per la gelosia nei confronti del vecchio amico, giacché fin da quando Candy gli aveva raccontato dell’incidente e del fatto che era andata a vivere con lui per prendersene cura, aveva sempre avuto totale fiducia in lei, in loro. Erano semmai i morsi dell’invidia nei confronti dell’uomo che per tutti quegli anni aveva potuto godere della vicinanza del prezioso tesoro che a lui era stato così dolorosamente precluso.
    Mentre arrivavano in vista del porto, Candy aveva così improvvisamente realizzato quanta parte delle loro vite avessero reciprocamente perso in quegli anni: Terence non sapeva nulla della scoperta che Albert fosse lo zio William, né della morte di Stear.
    Mentre la notte terminava di scivolare lentamente su di loro, lei gli raccontò quindi della straordinaria rivelazione che aveva capovolto i ruoli fino a quel momento da lei attribuiti ai personaggi principali della sua vita.
    Terence aveva uno sguardo sconcertato e allibito, mentre cercava di metabolizzare tutte quelle informazioni in pochi minuti.
    - Quindi mi stai dicendo che lo zio William, quel presunto vegliardo per compiacere il quale, e con la massima rapidità prima che passasse a miglior vita, intendevi diventare una signorina a modo, era il nostro amico viaggiatore errante, Albert?
    - Proprio così! – commentò Candy con naturalezza, ben sapendo come il non raccogliere la sua provocazione avrebbe costituito il peggiore degli smacchi per Terence.
    Terence la osservò serio per qualche secondo e poi, improvvisamente e con il fragore di un tuono, scoppiò in una delle sue antiche e clamorose risate, una di quelle in cui confluivano tutte le multiformi passioni che lo animavano, le quali negli ultimi anni avevano assunto solo sembiante di disperazione, ma che finalmente tornavano ad assumere la forma della gioia pura e cristallina.
    Candy lo guardò esterrefatta e felice di poter di nuovo sentire quel suono straordinariamente pieno e contagioso che aveva udito per la prima volta sul ponte del Mauretania, provocato allora dalla vista delle sue lentiggini e dalla sua tracotante affermazione di esserne un’appassionata collezionista. Le sembrava che nel suo stomaco centinaia di libellule danzassero allo stesso ritmo di quella meravigliosa e preziosa risata.
    - Beh – riuscì a dire Terence quando le risa si furono parzialmente acquietate - il nostro amico deve aver falsificato la sua data di nascita sui documenti della tua adozione, Candy!
    - Terry, ti dispiacerebbe fare la persona seria? – domandò Candy fingendosi infastidita, ma in realtà estasiata dal suono di quella risata, e lottando per controllare a sua volta la propria mimica facciale, disposta a tutto pur di non concedergli la benché minima soddisfazione.
    Terence dovette fare uno sforzo per riconoscere le antiche sensazioni originatesi in lui da quelle risate spontanee e di puro cuore che non gli appartenevano più da tanto tempo. Era una sensazione inebriante quanto l’esplosione del desiderio fisico, appagante quanto una sinfonia di Beethoven e dolce quanto il profumo dei narcisi, concentrati insieme. Era una sensazione che sapeva di Candy, l’unica capace di fargliela provare, fin dalla notte sul piroscafo che li portava in Inghilterra e che aveva incatenato indissolubilmente le loro vite.
    Le risate si spensero quando Candy gli disse della morte di Stear. Erano intanto giunti sulla panchina di Battery Park e Terence fissava con gli occhi lucidi il mare ancora oscuro di fronte a loro, ripensando al geniale ragazzo col quale gli sarebbe piaciuto aver condiviso più che pochi scherzi alla St. Paul School. Non disse nulla. Non c’era nulla da dire. Strinse forte la mano di Candy, trasmettendole in silenzio ciò che provava per il suo amico perduto e per non aver potuto esserle accanto in quell’ennesimo triste frangente della sua vita.
    Era possibile condensare due vite in poche ore? Si chiese Candy. E perché poi, se erano appena all’inizio del tempo che avrebbero trascorso insieme?
    Ci sarebbe stato modo per parlare di Eleanor, di Annie e Archie, della carriera di Terence e… di Susanna. Anche del futuro. Ma adesso, alle soglie dell’alba, era il momento del silenzio e dell’appagamento.
    Mentre lo Staten Island Ferry compiva l’ennesimo viaggio di ritorno dall’isola che da secoli guardava invidiosa Manhattan dall’altro lato della stretta lingua di mare che le separava, come a chiedersi eternamente cosa sarebbe accaduto se quel primo vascello olandese avesse scelto le proprie rive anziché la terraferma per ormeggiare, Candy chiuse gli occhi, appoggiata alla spalla di Terence ma ben lontana dal sonno, solo per godere di quella preziosa vicinanza con la pienezza di tutti i suoi sensi.

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    Per la prima volta in quella notte Terence distolse lo sguardo da lei, ma senza interrompere l’ipnotica e amorevole carezza tra i suoi capelli.
    Con lo sguardo fisso sulle luci del traghetto sempre più grandi e vicine, gli sembrò che ognuno dei lampi di segnalazione sul molo illuminasse in successione scene del loro passato, come in fugaci flashback che si accendevano e spegnevano allo stesso ritmo della lampada guida. Lui e Candy, sempre. Quella ragazzina che gli aveva frantumato il cuore e ogni difesa era diventata la meravigliosa, forte, indipendente, determinata e sensibile giovane donna che l’adolescente in divisa bianca lasciava già prevedere.
    E lui non era più un sedicenne sopraffatto da eventi più grandi di lui, per cui le rivolse finalmente le parole che avrebbe voluto dirle invece di sussurrare tra sé “Addio, amore mio!”, nel lasciare la St. Paul School in un autunno lontano:
    - Candy, mi sposerai?
    Candy sollevò di scatto la testa dalla spalla di Terence, voltandosi a guardarlo con la bocca aperta e un’espressione stranita sul volto.
    Possibile che avesse davvero udito quelle parole?
    Terence non la guardava, adesso. Aveva lo sguardo rivolto alle sue visioni che si sovrapponevano all’acqua, adesso delicatamente colorata di rosa, e al traghetto che aveva appena attraccato salutando la terraferma con un urlo della sirena che ad entrambi sembrò quella del Mauretania. Ma il braccio che continuava a stringerla forte e la mano adesso tremante sulla sua spalla le dicevano quanto egli fosse presente in quel momento accanto a lei.
    Si erano appena riuniti dopo tutti quegli anni di separazione e lui le chiedeva di sposarlo? Non era un po’ prematuro?
    Ma già mentre formulava nella sua mente quelle domande, il loro interrogativo sembrò assurdo alle sue stesse orecchie.
    Troppo presto?
    Da cinque anni si rincorrevano in quel circuito infinito in cui le loro strade si erano dipanate per volere del destino, in linee tanto crudeli da rincorrersi sempre per incontrarsi solo fugacemente. Non c’era stato un giorno in cui il volto di Terence e la sua assenza non le avessero fatto sentire il loro doloroso pungolo proprio sotto il petto. E ogni gesto e ogni sguardo di lui le diceva che aveva attraversato lo stesso purgatorio.
    Ma se Candy aveva avuto accanto persone amate e che l’amavano, Terence aveva percorso quel cammino impervio da solo, col peso del rimorso e del senso dell’onore a legarlo a una donna immeritevole di tale sacrificio.
    Ecco perché aveva imparato per primo la difficile lezione che adesso le faceva il prezioso dono di condividere con lei: a non sprecare altri inestimabili frammenti di vita, che non sarebbero più tornati indietro e che entrambi avrebbero solo potuto rimpiangere.
    Non un solo dubbio, né una sola esitazione fecero tremare la sua voce quando gli rispose:
    - Non c’è forza al mondo che possa impedirmelo, Terry! – ripetendo le parole che gli aveva scritto tanto tempo prima da Chicago, ma che lo avevano raggiunto solo anni dopo.
    Terence chiuse gli occhi, espirando il fiato che aveva fino a quel momento inconsapevolmente trattenuto, e si voltò finalmente verso di lei.
    Si guardarono in silenzio, ciascuno osservando il contorno dell’altro circonfuso dai riflessi del sole ormai luminoso sopra la linea dell’orizzonte alle loro spalle.
    Non c’era altro da dire. Le vite che avevano vissuto e i loro stessi cuori avevano parlato per loro.
    Si sollevarono dalla panchina e Candy gli gettò le braccia al collo. Terence la strinse tra le braccia, così forte da temere di soffocarla. Guancia a guancia, respirarono ciascuno col volto nascosto nei capelli dell’altro. Poi si staccarono di qualche centimetro per guardarsi sorridendo, prima che Terence la sollevasse per portarla al suo stesso livello e baciarle la punta del naso.
    - Vorrei baciare ogni tua singola lentiggine – le disse con infinita dolcezza.
    - Comincia pure, abbiamo tutta la vita per finire! – gli rispose lei, ebbra di felicità.
    - Adesso preferisco baciarti altrove! – le disse lui, con il suo lampo sfrontato negli occhi, prima di conquistare di nuovo le sue labbra con le proprie.
    Nella dolce bruma del mattino, davanti alla riva accarezzata dalle stesse onde che avevano da poco lambito la Statua della Libertà, due giovani spezzavano con la forza del loro amore le catene del destino.
    Mentre Terence la faceva volteggiare nell’ebbrezza di quel bacio, il piccolo strascico dell’abito da sera di Candy, svolazzando dietro di lei, urtò la borsetta che era rimasta abbandonata sul sedile. Il piccolo carillon della felicità, che Candy aveva portato con sé quella sera, cadde fuori e toccò il terriccio erboso ai piedi della panchina dopo un breve volo, adagiandosi per terra semi-aperto.
    Proprio nell’istante in cui Terence deponeva Candy di nuovo delicatamente a terra, senza interrompere il contatto delle loro labbra, il carillon, silenzioso da quella lontana notte di neve in cui i due giovani avevano mentito ciascuno a se stesso e all’altro, giurandosi reciprocamente una impossibile felicità, riprese magicamente vita. Dopo tanti anni di silenzio, l’ingranaggio riprese a girare, e nell’aria tornò a diffondersi la magica melodia concepita dalle amorevoli mani di Stear per portare la felicità alla sua amatissima amica, vibrando all’unisono con il cuore di Candy.

    [continua]


    1Questo capitolo, al cui titolo sono particolarmente legata, oltre che all’amore tra Candy e Terence, rappresenta il mio tributo anche alla meravigliosa città di New York, che ha rapito il mio cuore con la sua anima appassionata, romantica e talvolta affranta e rabbiosa. Esattamente come quella di Terence.

    *Romeo e Giulietta, Atto II, Scena III.


    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-

    Edited by Cerchi di Fuoco - 24/11/2020, 17:39
     
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    Quando la luce del mattino si era fatta ormai alta, Candy e Terence, sebbene non ancora sazi di baci, erano tornati in ospedale per accertarsi delle condizioni di Eleanor.
    L’attrice aveva ripreso conoscenza e, anche se dolorante e molto affaticata in volto, era fuori pericolo e lucida. Il braccio ingessato e fissato al collo le doleva, ma non in maniera grave.
    La sanità mentale rischiò però di perderla per la gioia quando vide che accanto al figlio, inspiegabilmente in smoking alle nove del mattino, c’era un angelo biondo, avvolto in seta e chiffon rosa e porpora, che la guardava con apprensione, affetto e... sì, un timido imbarazzo a imporporarle le gote. Imbarazzo che, invece, era completamente assente dall’espressione di suo figlio, il cui volto era semmai trasfuso di felicità, un’espressione nuova e matura, la soddisfatta sicurezza che si posa sul volto di ogni uomo quando tiene per mano la donna della sua vita e sente di poter conquistare il mondo intero.
    Eleanor si commosse fino alle lacrime nel vedere i sorrisi complici e il tocco delle mani dei due giovani che si sfioravano in continuazione, come a non sopportare di perdere il contatto l’uno con l’altra.
    - Io…. Io credo di dovermi scusare con lei, Eleanor, per il mio ineducato rifiuto del suo invito, tanti anni fa…
    Terence si voltò a guardare Candy con un’espressione interrogativa sul volto.
    Candy gli raccontò del biglietto che aveva ricevuto da sua madre per assistere all’Amleto e di come, per paura di non riuscire a portare avanti la scelta che si era imposta senza che il suo cuore fosse pronto per seguire la ragione, avesse declinato l’invito, rimandando indietro il biglietto con una lettera nella quale spiegava alla donna le sue ragioni.
    Terence si voltò verso la madre, troppo commosso dal gesto d’amore che la donna aveva compiuto nei suoi confronti per risentirsi con lei per aver cercato di intromettersi nella sua vita, o per averglielo taciuto per tutto quel tempo.
    “Quando avrai dei figli tuoi, Terence, capirai quante cose un genitore sia disposto a fare per la felicità del sangue del proprio sangue” pensò Eleanor, osservando quella nuova versione serena e rilassata di suo figlio, della quale aveva avuto un’anticipazione solo in quell’ultimo pomeriggio in Scozia, quando si erano ritrovati grazie all’intervento di Candy e avevano condiviso lunghe ore in silenzio davanti al fuoco. E quella stessa ragazza alla quale doveva il proprio bene più prezioso, l’affetto di suo figlio, adesso era lì di fronte a lei, chiedendole scusa per amarlo così tanto.
    - Candy, fui io colpevole nel cercare di indurti a scelte diverse dalle tue… dalle vostre. Sono felice che il destino abbia alla fine portato a termine l’opera che io, tanto maldestramente, tentai di compiere quel giorno. Io devo solo ringraziarti, per tutto ciò che hai fatto per mio figlio.
    Le due donne si guardarono in silenzio. In quella frase era corsa la gratitudine di Eleanor per Rocktown, per il ruolo che Candy aveva avuto nel salvare Terence dalla perdizione alla quale si era abbandonato, facendosene risucchiare.
    Candy capì: Eleanor avrebbe mantenuto la riservatezza, spettava solo a lei decidere se e quando confidare a Terence quale dramma si fosse davvero recitato su quelle assi sgangherate. Quello era l’ultimo segreto rimasto ad aleggiare tra loro, avrebbe cercato presto il momento opportuno per parlargliene e per chiedere il suo perdono.
    - Dunque, mamma, sembra che Los Angeles dovrà attendere ancora la sua nuova stella. Ti avevo detto di guardarti le spalle dal malocchio (mi pare Mrs. Greppi lo chiami così…) di Gloria Swanson e Mary Pickford … non mi stupirei affatto se scoprissimo che l’autista di quel camioncino era un loro sicario prezzolato.
    - Per l’amor del cielo, Terry, vuoi smetterla di dire assurdità? Ho due costole rotte, ridere è una tortura! – si lamentò la madre – Comunque, ho già chiesto a Robert Hathaway di mandare un telegramma a Mr. Chaplin per dirgli di cercare un’altra interprete per il suo film. Temo che un ulteriore ritardo sia impossibile per la sua produzione. Beh, sembra proprio che Broadway non farà a meno di me tanto presto, dopo tutto… – concluse l’attrice con un sospiro.
    - Robert? È stato qui? – chiese Terence, stranito.
    - Sì, stamattina. È andato via poco prima del vostro arrivo. Voleva sapere come stavo e se ti avessi incontrato. Mi sembrava piuttosto eccitato mentre parlava di te, come se in qualche modo si aspettasse di scoprire qualcosa…
    Candy aveva già raccontato a Terence del ruolo che aveva avuto il suo vecchio amico nel farla arrivare al St. Jacob’s la sera prima e il ragazzo ancora una volta si ripromise di abbracciarlo e ringraziarlo, complimentandosi con lui per l’ottimo intuito che lo aveva spinto a non cacciare via la sua ragazza come una qualsiasi delle decine di ammiratrici che si materializzavano in continuazione nel backstage, pronte a tutto per dieci minuti nel suo camerino, e che invece gli aveva immediatamente fatto comprendere come quell’unica dovesse avere libero accesso ad ogni parte della sua vita.
    - Io credo che lei adesso debba riposare, Eleanor – intervenne Candy, con il suo tono pratico ed efficiente da infermiera, notando le ombre di stanchezza sotto gli occhi blu della donna, nonostante la gioia che li illuminava in quel momento.
    - Sì, mamma. Riposa. Tornerò… anzi... torneremo a trovarti – aggiunse Terence con voce amorevole. L’idea di separarsi da Tuttelentiggini, gli pareva talmente assurda da scartarla senza bisogno pensarci due volte.
    Candy sorrise abbassando gli occhi e Eleanor si beò della vista di loro due, mano nella mano e invincibili.
    - Grazie caro. Sì, riposerò un po’. A più tardi… Oh, Terence...! – lo richiamò con gli occhi già chiusi, mentre, dopo averle posato un delicato bacio sulla fronte, suo figlio si apprestava a lasciare la stanza con Candy – ...Tesoro, credo proprio che un abito da giorno sia più indicato a quest’ora del mattino!
    Candy avvampò, rendendosi conto del sottinteso di quella frase pronunciata col più innocente dei toni della consumata attrice, ma Terence capì immediatamente che la madre lo stava solo canzonando, giacché non poteva minimamente immaginare che Eleanor mettesse in dubbio l’onore di Candy, se non il suo.
    - Grazie, mamma. Ottimo consiglio, ci penserò! – la salutò quindi con sorridente malizia, agitando la mano libera da quella di Candy, prima di chiudersi la porta alle spalle.
    Rimasta sola nella stanza, Eleanor sorrise con gli occhi chiusi mentre una silenziosa lacrima di gioia scorreva sul suo viso.

    - Molto bene, Tuttelentiggini, e adesso cosa si fa? – le chiese Terence, sprizzando energia davanti al portone dell’ospedale, vigile e vitale come se non avesse alle spalle una notte insonne, bensì il più rigenerante dei riposi.
    Candy, giocando con le dita della mano sul suo ciondolo di zaffiro, lo guardò sorridendo e gli rispose:
    - Terence, forse tu non intendi seguire il consiglio di tua madre e preferisci dettare una nuova moda in fatto di abiti per il brunch, ma io comincio a sentirmi lievemente a disagio con questo vestito da sera indosso… Credo sia il caso di tornare in casa Roosevelt, per cambiarmi e… fare sapere a Patty e Eleanor che sono ancora viva.
    - Come sei convenzionale, Candy! Lo sei sempre stata, nonostante ti atteggiassi a ribelle e volassi di notte nei dormitori dei ragazzi. Sei troppo ligia alle tradizioni, te l’ho sempre detto! – la stuzzicò Terence, gli occhi pieni d’amore mentre seguiva il movimento delle sue dita affusolate sulla pietra blu cangiante che le pendeva al collo.
    Passò però ad un tono di voce improvvisamente serio per chiederle:
    – Candy, da quanto tempo possiedi quella collana?
    - Da diversi anni, circa quattro.
    Gli occhi di Terence brillavano.
    - E da allora l’hai sempre portata al collo? – le chiese.
    Candy abbassò lo sguardo al ciondolo tra le sue scapole, che mandava lampi dello stesso colore e intensità dei due occhi che in quel momento la stavano fissando. Era il suo tesoro più prezioso, insieme alla croce di Miss Pony e al medaglione del principe della collina.
    - Sì, Terry, è così. Non me ne separo mai – sussurrò, quasi imbarazzata.
    Terence le prese la mano che tormentava ancora il ciondolo e la guardò negli occhi, chiedendole con espressione dolce e rassicurante:
    - Mi piacerebbe tenerlo io per un po’. Vorrei sentire sulla mia pelle il calore di quella pietra che per tanto tempo è stata sulla tua, Candy.
    Candy lo guardò e annuì a quella frase che, senza contenere la parola “amore” gridava: “Ti amo”.
    Ma c’era anche dell’altro in quella richiesta: il desiderio di un contatto fisico e di una intimità nuova, dal quale si stupiva di non essere assolutamente spaventata, bensì attirata come una calamita fin da quel primo profondo bacio che si erano scambiati sulle scale. L’idea che un oggetto con cui lei stessa aveva avuto un contatto così intenso sfiorasse la pelle di Terence le fece provare dei brividi sconosciuti ed esaltanti.
    Con semplicità sciolse per la prima volta dopo anni il gancio della catenina, allungandosi in punta di piedi per legarlo dietro la nuca di Terence. Nel farlo, sfiorò col seno il petto del ragazzo e con le braccia le sue ampie spalle, e in quel gesto c’era una sensualità inconsapevole ma indubitabile.
    Terence fu turbato fin nel profondo da quell’intimità e da quello sfiorarsi dei loro corpi, che evidentemente si anelavano con una passione almeno pari all’amore. Dovette fare uno sforzo di volontà per non stringerla a lui, sapendo che se lo avesse fatto, il fuoco che lo divorava li avrebbe arsi entrambi. Non voleva saltare le tappe e bruciare l’attesa che il profondo rispetto per la sua amata ragazza gli imponeva. Era però evidente che entrambi si desideravano profondamente, come si desiderano un uomo e una donna legati da amore vero.
    Terence quindi dominò la sua fiamma e approfittò di quella vicinanza per scoccarle un semplice lieve bacio sulle labbra, e poi le disse:
    - Ne avrò la più grande cura.
    - Lo so – rispose lei. Ed era vero.
    - Dunque, Tuttelentiggini… – riprese Terence, di nuovo allegro e beato, prima di aggiungere, con un lampo negli occhi e il sorriso del gatto che fissa crudelmente un topolino in trappola, pregustando un grande e sadico divertimento: – …adesso andiamo a scioccare un po’ la tua amica quattrocchi!

    __________________________



    Seymour non perse neanche un briciolo della propria britannica imperturbabilità quando, alle dieci del mattino, aprì il portone di casa per accogliere Miss Andrew. La ragazza chiaramente indossava gli abiti che portava la sera prima ed era accompagnata da un giovane sconosciuto (nelle sue serate libere, Seymour era più un frequentatore di pub irlandesi che di teatri shakespeariani) che indossava in maniera totalmente inappropriata uno smoking dal colletto slacciato e col papillon pendente con noncuranza in due strisce di stoffa nera ai lati del collo. Solo un impercettibile fremito di un paio di peli dei suoi notevoli baffi manifestò il profondo sconcerto del maggiordomo.
    Certo, aveva auspicato una ventata di gioventù in quella casa, ma a tutto c’era un limite!
    - Miss Candy, bentornata – il suo tono non lasciava trapelare neanche l’ombra del turbamento provato.
    - Buongiorno Seymour! – Candy si stava divertendo un mondo. Le sembrava di essere tornata a Lakewood ai tempi dell’adolescenza e delle indisciplinate intemperanze con Archie, Stear e Anthony – Mrs. Roosevelt e Patty sono in casa?
    - Sì, Miss, credo che siano nel giardino d’inver…
    - Candy!!!
    Patty correva verso di loro, con una camicetta bianca dal collo in stile marinaresco e una gonna blu lunga fino ai polpacci. Si lanciò verso l’amica, abbracciandola con trasporto e provocando il definitivo colpo al delicato vestito da sera di Candy, che a causa degli straordinari di quella notte e della mattina, avrebbe avuto bisogno di un supplemento di cure in tintoria.
    Dopo averla tenuta stretta per qualche secondo, Patty si allontanò da lei tanto quanto bastava per guardarla in viso. Ciò che vide la rassicurò del tutto e finalmente si permise di sorridere apertamente all’amica, prima di voltarsi verso Terence per salutarlo con il più gentile e accogliente dei toni di voce:
    - Benvenuto, Terence. Non ci vediamo da molto tempo. Sono veramente felice di rivederti.
    Terence, il quale aveva pregustato un viso terrorizzato dietro le enormi lenti degli occhiali (che da tempo avevano ceduto il passo ad una montatura molto più delicata e alla moda) e che non si aspettava certo l’aggraziata fanciulla che aveva preso il posto della timida e a tratti goffa adolescente della St. Paul School, rimase per qualche secondo incredibilmente senza parole, sbattendo le palpebre per recuperare le coordinate di quell’incontro.
    Candy rideva sotto i baffi, gustandosi la sorpresa di Terence e aspettando di vedere come sarebbe uscito dall’impasse, guardandosi bene, peraltro, dal muovere in suo soccorso. Il ragazzo decise di affidarsi all’innato fascino che lo guidava in ogni circostanza e prese la mano di Patty, improvvisando un baciamano mentre la salutava con tono affettato:
    - È un vero piacere anche per me, Patricia! Sei un vero incanto.
    - Oh, vedo che non hai perso il tuo temperamento, Terence! – rispose Patty gentilmente, per nulla impressionata.
    Terence era sempre più spiazzato dall’evidente indifferenza della ragazza ad ogni suo tentativo di metterla in imbarazzo. Possibile che avesse perso del tutto agli occhi di Patty ogni carisma da pericoloso teppista?
    Candy a questo punto non riuscì più a trattenersi e scoppiò a ridere:
    - Oh, per l’amor del cielo, Terry, falla finita! Patty non è più la ragazzina spaventata che ti divertivi tanto a terrorizzare con un semplice sguardo ai tempi della scuola! Ha studiato, frequentato un master ed è l’assistente personale di Mrs. Roosevelt. E’ abituata a muoversi nel mondo della politica, dove di certo si aggirano personalità più spaventose di te!
    Terence fissò la ragazza di fronte a lui, questa volta con lo stesso sguardo profondamente deluso e oltraggiato del gatto che, avendo giocato un po’ troppo a lungo con il topolino, se lo fosse fatto sfuggire tra le zampe prima del pregustato banchetto. Tuttavia, ci mise poco per ritrovare il proprio savoir faire e rivolgersi a Patty, stavolta con naturalezza:
    - Scusami, Patty. Ero comunque sincero, prima. Non ti avrei riconosciuta se non avessi saputo che sei tu. Ti trovo veramente bene.
    Patty sorrise:
    - Grazie Terence, anch’io vi trovo veramente bene – rispose la ragazza, guardando i due giovani splendenti di felicità di fronte a lei. Dentro di lei fece un profondo sospiro di sollievo, essendosi macerata tutta la notte nei dubbi per quell’incontro dagli esiti imprevedibili, conoscendo la personalità della sua amica e quella del lunatico ragazzo di fronte a lei. Con sollecitudine gli chiese – come sta tua madre?
    - Meglio, grazie, Patty. Si riprenderà presto.
    - Ehm, immagino siate stanchi. Venite a prendere una tazza di tè di là con noi, prego.
    - Provvedo subito, Miss O’Brien – intervenne Seymour allontanandosi, ansioso di tornare nella sua ben più rassicurante e conservatrice cucina.
    Mentre si dirigevano in veranda, Terence si chinò verso l’orecchio di Candy per sussurrarle, vagamente intimidito:
    - Almeno la tua amica Annie si lascerà spaventare da me, o devo presumere che sia diventata un noto capitano d’industria?
    Quando comparvero sulla soglia, Mrs. Roosevelt alzò lo sguardo dalle carte che stava visionando seduta al tavolino in ferro battuto e lanciò un’occhiata rapida ai due giovani, come se non li vedesse solo da pochi minuti. Ciò che scorse dovette piacerle, perché dopo una presentazione affettuosa ma priva di convenevoli con Terence, si guardò bene dal fare domande, certa che Candy avrebbe condiviso con loro ciò che riteneva opportuno. Tuttavia, sembrava evidente che gli ostacoli emotivi e le barriere tra quei due giovani si erano sgretolate del tutto. Adesso che li vedeva insieme poteva più chiaramente capire il peso della perdita che entrambi avevano portato su di loro per tutto quel tempo.
    Terence si scusò con Mrs. Roosevelt per non avere riportato a casa Candy quella notte, spiegando che avevano davvero molte cose da dirsi e tempo da recuperare. Eleanor fece un gesto noncurante con la mano, raccomandando però a Candy di nascondersi alla vista di Mrs. Delano Roosevelt finché non si fosse cambiata d’abito e a Terence di usare il suo talento per interpretare un garzone del fioraio e inventarsi un buon motivo per il quale quest’ultimo dovesse essere in smoking, qualora avesse sventuratamente incrociato sua suocera nei corridoi.
    Dopo una tazza di tè con pasticcini, giunse per i due ragazzi il momento di separarsi al termine delle dodici ore che avevano rimesso in piedi il loro universo, negli ultimi anni soggetto a continue e numerose rivoluzioni.
    Candy aveva bisogno di cambiarsi e riposarsi e Terence di indossare qualcosa che non fosse un costume rinascimentale o uno smoking.
    Nonostante sapessero che sarebbero stati lontani solo per poche ore, entrambi erano riluttanti a lasciarsi, come se trovassero innaturale non sentire più il contatto delle loro dita che non si erano lasciate un attimo per tutta la notte.
    Si sarebbero rivisti quella sera per cenare insieme. Dopo aver deciso di vivere tutto il resto della loro vita insieme, restavano da definire i dettagli pratici che ne derivavano.
    Davanti alla porta di casa semiaperta, Terence era ancora riluttante a partire e Candy non faceva nulla per aiutarlo a decidersi.
    - Vado, Tuttelentiggini, a stasera… - le disse, passandole dolcemente il dorso della mano sulla guancia, come a voler imprimere la forma di quel viso tanto amato e trasmetterne il calore alla propria mano, affinché ne conservasse la sensazione fino al loro successivo incontro.
    Quel contatto sembrò scardinare qualche meccanismo di autocontrollo in Candy, la quale, con gli occhi improvvisamente ardenti di eccitazione, si mosse con impeto verso di lui e gli passò le braccia attorno al collo, stringendole sulla sua nuca, tirandogli lievemente i capelli e iniziando a baciarlo con passione, il corpo morbido e invitante completamente schiacciato contro quello di Terence. Il ragazzo, vinta l’iniziale sorpresa, non si sottrasse di certo. La strinse a sé ancora di più, quasi fino a spezzarla, prendendo con la sua la bocca che lei gli offriva e conquistandone la lingua, con la quale iniziò una danza armoniosa e sensuale: inseguendola, intrecciandosi per poi staccarsene per pochi istanti e, non sopportandone la lontananza, incontrarla ancora e ricominciare a muoversi insieme con un ritmo che alternava lenti movimenti provocanti e guizzi improvvisi. In quel bacio c’era la metafora delle loro vite e del loro bisogno di essere uniti per sentirsi vivi. I loro corpi rispondevano a quel richiamo ancestrale dell’amore, facendosi attraversare da onde di marea di intensità crescente, dalle quali si lasciarono languidamente portare alla deriva.
    Solo dopo qualche minuto di quello squisito abbandono un frammento di lucidità consentì loro di separarsi e di guardarsi con un’espressione maliziosa (di Terence) e imbarazzata (di Candy).
    - Terence, devi proprio andare, adesso – mormorò Candy a fatica, mentre cercava di riportare alla propria mente annebbiata le nozioni che era certa di conoscere sui meccanismi alla base di una normale respirazione.
    Terence inarcò un sopracciglio, estasiato. La sua Candy era decisamente diventata una donna. La sua donna. In lei si svelava a poco a poco una passione che riusciva meravigliosamente a convivere con la sua antica e dolce innocenza. Questo connubio lo affascinava e conquistava ogni momento di più, a mano a mano che lei si lasciava scoprire da lui.
    - Vado, Candy. Anche se ho un forte desiderio di schiaffeggiarti, per aver osato baciarmi senza prima chiedermi il permesso. Che razza di uomo credi io sia?
    Candy avvampò, ma lo guardò di sottecchi con uno sguardo scintillante che rianimò immediatamente la fiamma del ragazzo.
    - Vado davvero, scimmietta. Se non lo faccio adesso, non lo farò più.
    - A più tardi Terry...
    Terence si voltò e, con passo riluttante, percorse i pochi scalini che separavano l’ingresso di casa dal marciapiedi. Candy richiuse piano la porta e, quando rimaneva solo uno spiraglio, fece capolino fuori per richiamarlo:
    - Terence!
    Il ragazzo si voltò immediatamente, auspicando una buona scusa per tornare indietro.
    - Sì? - chiese con voce speranzosa.
    - Ti amo! – gli gridò Candy ridendo, prima di richiudere rapidamente la porta e scomparire all’interno.
    Un sorriso di pura felicità si materializzò sul viso Terence e sembrò concentrare sulla 65th Street tutta la luce di quella primavera newyorkese. I suoi lineamenti dovevano aver fatto un corso accelerato di gioia, quella notte, e si ritrovarono quindi meravigliosamente in grado di esprimere emozioni e sensazioni da lungo tempo scomparse da quel volto e da quegli occhi. Godendo del lieve contatto sulla pelle dello zaffiro che aveva per lungo tempo ornato il collo della sua amata ragazza, e fischiettando beatamente con le mani in tasca, Terence si voltò e si diresse verso Fifth Avenue, assaporando beatamente ogni passo leggero che lo conduceva verso la sua nuova vita.

    “Già vuoi andartene? L’alba è ancora lontana.
    Era l’usignolo poco fa, non l’allodola,
    quello che ti ha ferito l’orecchio inquieto:
    canta tutte le notti sul melograno laggiù.
    Credimi amore, era l’usignolo”

    “Era l’allodola, messaggera dell’alba, non l’usignolo:
    Guarda amore, quelle maligne strisce
    Come già frastagliano di chiarori
    I margini dei cirri fuggitivi che si sfanno da Levante, laggiù.
    Sono tutte consumate le candele della notte,
    e il giocondo mattino, sulla punta dei piedi
    si affaccia alle cime dei monti
    dietro un velo leggero di brume.”*




    *Romeo e Giulietta, Atto III, Scena V.

    [continua]


    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-
     
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    Quando quella sera si ripresentò sul marciapiedi davanti casa Roosevelt, Terence vide materializzarsi la sua dolce ragazza dallo stesso portone che si era chiuso dietro di lei poche ore prima, avvolta in un fresco e semplice abito di seta verde acqua, morbido sui fianchi e con delle maniche corte e morbide sulle spalle. I capelli sciolti le incorniciavano il volto, il cui colorito acceso lasciava pochi dubbi circa le intense e felici emozioni che la animavano, facendo spiccare ancor di più sul suo viso le lentiggini che lui adorava.
    Candy lo vide, appoggiato a braccia incrociate alla sua Ford T rossa, a sua volta splendido in un completo giacca e pantalone di un blu che rivaleggiava con quello dei suoi occhi, una semplice cravatta color carta da zucchero sopra la camicia candida e una sorprendente macchia scarlatta costituita da un vellutato garofano rosso all’occhiello. Desiderò poter fermare il tempo in quel momento perfetto. Si avvicinò e gli chiese con un sorriso talmente luminoso da rivaleggiare con la luna ammiccante che quella sera aveva scelto di essere piena, in onore dell’amore che veniva celebrato nella 65th Street di New York:
    - È tanto che aspetti?
    - Solo tutta la vita – le rispose lui emozionato, aprendole la portiera.
    In quel momento Candy avrebbe potuto affermare senza tema di essere smentita di conoscere la perfetta definizione di “felicità”.
    Invece di portarla verso il centro, in uno dei tanti locali alla moda della città, Terence colse completamente di sorpresa Candy, facendole attraversare il ponte di Brooklyn. Non si erano recati da Delmonico’s o alla Oak House del Plaza, come Candy si sarebbe aspettata, ma si erano diretti lungo un’altra Broadway, nel quartiere meno d’élite ma infinitamente più eccitante rispetto a Manhattan, in un locale più semplice ma dall’atmosfera intima e accogliente: Peter Luger, la più antica Steak House di New York. A Candy ricordò immediatamente i barbecue alla casa di Pony e fu grata a Terence per averla portata lì, anziché tra gli stuccati saloni e i lampadari di cristallo del Waldorf Astoria, così distanti dal suo modo di essere.
    Ma rimase del tutto senza parole per la sorpresa quando entrò nel locale completamente vuoto, nonostante tutti i tavoli fossero apparecchiati per due, ciascuno con una fresca tovaglia a quadri rossi e blu, un centro-tavola di narcisi e varie candele al centro a sprigionare la loro calda atmosfera. Era meraviglioso, e si sentì commossa. Tutto il personale era schierato ad attenderli davanti all’ingresso.
    - Benvenuti signori! – li accolse il direttore di sala – Prego, scegliete pure il vostro tavolo.
    Seguendo con lo sguardo il braccio dell’uomo che indicava l’intera sala, Candy rimase alquanto perplessa. Poi guardò Terence e capì:
    - Terry, hai prenotato tutto il ristorante per noi? – gli chiese stupita e commossa.
    - Ma certo, Tuttelentiggini! È la nostra prima cena insieme dopo troppo tempo, di certo non ti avrei diviso con nessuno al mondo!
    Trattenendosi dall’abbracciarlo davanti a tutti i camerieri, Candy, enormemente colpita, si diresse verso il tavolo più appartato, vicino a una finestra che guardava in un piccolo giardino posteriore, a sua volta soffusamente illuminato.
    Seduti l’uno di fronte all’altra nella luce prodotta solo dal bagliore delle decine di candele sparse tutto intorno a loro, Candy e Terence si immersero in un mondo completamente nuovo e magico: il loro nuovo mondo.
    La cena fu perfetta e spensierata, i camerieri discreti e il cibo gustoso. Candy aveva fatto onore come sua consuetudine a tutte le portate, tra i frizzi e i lazzi di Terence che invece si era limitato a piluccare dal piatto, preferendo di gran lunga cibarsi della vista più bella di New York, quella della sua Candy esattamente nel posto dove doveva essere: accanto a lui.
    Candy lo osservò scherzare col cameriere al quale stava ordinando il dessert. Nella luce arancione delle candele i suoi capelli del caldo colore delle castagne sembravano accendersi di luce, e i suoi occhi e il suo sorriso splendevano al punto da far precipitare nel buio, annullandolo, ogni altro dettaglio del locale.
    Lo amava così tanto!
    Il suo cuore ebbe un tuffo imprevisto: non si era ancora abituata alle sensazioni intense che provava avendolo semplicemente accanto. Erano diverse da quelle provate alla St. Paul School, nei mesi in cui si erano conosciuti e innamorati. Allora c’era l’emozione della scoperta reciproca, lo svelarsi delle loro anime giovani e impreparate a un sentimento così profondo. Il cercarsi, il concedersi per poi ritrarsi, talvolta eccitati e talvolta terrorizzati da ogni nuova scoperta reciproca, come se camminassero su delle sabbie mobili meravigliose e appaganti, ma attenti a ogni nuovo passo. C’era anche la disinvoltura dell’adolescenza, la gioia di ridere, scherzare, litigare e fare pace. Lo sgretolarsi dei segreti. Tutto ciò su cui avevano costruito il rapporto che si era dimostrato indissolubile e che aveva consentito loro di farsi trovare lì, adesso, insieme.
    Eppure c’era ancora un’ombra che doveva essere dissipata, Candy lo sapeva. E non voleva attendere oltre. Susanna aleggiava tra loro. La vita a cui Candy lo aveva consegnato con lei doveva essere una volta per tutte messa sul tavolo, affinché ogni dubbio venisse definitivamente spazzato via.
    E quella rivelazione ne avrebbe portata un’altra con sé... Candy rabbrividì. I suoi demoni, la paura, l’insicurezza, il dubbio di aver sbagliato tutto tornarono ad aggredirla, facendosi strada attraverso la prima piccola crepa che aveva consentito si aprisse nella sua perfetta felicità al solo pensiero di Susanna Marlowe.
    Terence fece una risata rilassata per qualche battuta fatta dal cameriere prima di allontanarsi e lei tornò in sé.
    Si amavano. Ce l’avrebbero fatta.
    - Candy, se non ricordo male sei una estimatrice dei dolci. Qui non fanno i marshmallow di Miss Pony, ma credo che la torta di mele e caramello fuso potrà esserne un valido sostituto, finché non riuscirò finalmente ad assaggiarli. È dall’estate in Scozia che aspetto!
    A Candy sembrò di risentire lo scroscio della pioggia fuori dalle finestre e di avvertire di nuovo sul viso il calore della fiamma nel camino che aveva illuminato quel pomeriggio in cui aveva per la prima volta realizzato l’intensità del legame tra loro. Rabbrividì. Non poteva più aspettare.
    - Terry...
    - Sì? – le rispose lui, accarezzandole amorevolmente una guancia col pollice e tuffandosi per l’ennesima volta in quegli occhi che non lo avrebbero mai stancato.
    Candy gli mise una mano sopra quella che lui teneva poggiata sul tavolo:
    - Io... credo che prima di parlare di qualsiasi altra cosa... Ecco... ho qualcosa da darti.
    Il dito di Terence le trasmetteva dei brividi che dallo zigomo precipitavano giù per la sua nuca e lungo la schiena. Candy aprì la borsetta e ne trasse due buste, che aveva tirato fuori dal suo cofanetto prima di uscire, intenzionata a metterle nelle mani di colui che ne era stato fin dall’inizio il destinatario.
    Terence le fissò e le lanciò uno sguardo interrogativo, prendendo le buste tra le mani e guardandola sorridente, in attesa di una spiegazione.
    - Ecco, Terry. Queste lettere sono per te. Non ho mai potuto dartele prima. Questa – e gli porse la prima busta, la più leggera – la scrissi poco dopo il mio ritorno dall’Inghilterra, durante i primi tempi alla scuola per infermiere di Miss Mary Jane. Allora non sapevo dove fossi, non conoscevo un tuo indirizzo e così... ecco...
    - Tuttelentiggini, non riuscivi a contenere lo straripante sentimento che ti animava e quindi sublimavi la mia assenza scrivendomi lunghe lettere d’amore, non è così? – la schernì lui, con il suo consueto tono beffardo, ingentilito però da una nota di dolcezza a stemperare il tentativo di prenderla in giro, come era solito fare ai tempi della St. Paul School.
    Era proprio così!” pensò Candy, ma rispose:
    - Cosa che non si può dire tu abbia mai fatto, Terry! Ti ricordo che le uniche lettere che ho ricevuto da te ammontano sì e no a cinque righe ciascuna, e non si può dire che le frasi d’amore si sprechino! – assumendo la più accusatoria delle sue espressioni.
    Terence scoppiò a ridere e poi, facendosi serio, aprì la busta e si immerse nella lettura, tenendo la mano libera intrecciata a quella di Candy sul tavolo.

    Scuola per Infermiere Mary Jane del St Joseph’s Hospital,
    Valparaiso, Indiana
    2 aprile 1914

    Caro Terry,
    Continuo a non sapere dve indirizzare le mie lettere e, per quanto provi a scriverne, tutte queste parole restano tra le mie mani.
    Oh, Terry… sono tornata in America quasi a volerti inseguire, ma il tempo non fa altro che scorrere. Come vorrei poter farlo tornare indietro… Se solo fossi riuscita a raggiungerti al porto prima della tua partenza… E se solo fossi stata alla casa di Pony, quando sei andato a visitarla…
    Mi ricordo di quella volta in cui mi hai detto che ti sarebbe piaciuto, un giorno, vedere il luogo in cui sono cresciuta. Allo stesso modo, ricordo il tuo sorriso.
    Grazie per la tua visita… So che sei rimasto solo poco tempo, ma le direttrici mi hanno raccontato che sei andato a vedere la grande quercia dove mi arrampicavo sempre, il melo dove ho imparato a lanciare il lazo, e la mia collina di Pony. Quegli alberi che tu forse hai toccato e l’altura su cui ti sei fermato, ora sono per me ancora più preziosi.
    Sai, Terry, mi sono iscritta a una scuola per infermiere, e le mie giornate sono sempre molto piene. Immagino che anche tu, da qualche parte in America, stia continuando a percorrere la tua strada.
    Quando riusciremo a incontrarci, e so di certo che accadrà, ti dirò una cosa e lo farò con orgoglio.
    Fino a quel momento, ti prometto che vivrò con coraggio la mia vita

    Tarzan Tutte Lentiggini*



    Terence rimase assorto nella lettura di quelle frasi e poi alzò lo sguardo a guardare Candy, con gli occhi che gli brillavano.
    - Candy... – si sporse attraverso il tavolo per appoggiare la fronte contro quella di lei e una mano sulla sua guancia, come a volerne assorbire il calore. Rimasero così per qualche secondo, mentre lui sciorinava ancora nella propria mente tutte le frasi che aveva appena letto, allineate una dopo l’altra come in un’onda sinuosa. Ancora una volta le parole di Candy gli arrivavano dopo lunghi anni, ma stavolta erano balsamo per il suo cuore, anziché ferite sanguinanti provocate dall’inganno di chi gliele aveva sottratte.
    - Prima di chiederti cosa volevi assolutamente dirmi mentre scrivevi questa dolcissima lettera, Candy... – Terence si sollevò per guardarla in viso – c’è una cosa che voglio sapere: eri sul molo di Southampton la notte in cui lasciai l’Inghilterra?
    - Sì, Terry.
    Candy rabbrividì, sentendo di nuovo penetrarle nelle ossa il freddo pungente di quell’alba inglese...

    La carrozza aggredisce il selciato della strada infinita che separa Candy dal porto di Southampton e dal molo, da cui il suo amore si accinge a lasciarla.
    Non è concepibile perderlo. Non adesso che ha capito di amarlo!
    Nella sua mente si susseguono immagini confuse e frasi scomposte. Il biglietto con cui Terence le dice che ha lasciato il collegio e le augura di essere felice brucia nella sua mano, mentre si sporge fuori dal finestrino della carrozza, cercando di trasmettere la sua ansia febbrile ai cavalli che già sono selvaggiamente lanciati al galoppo, schiumanti allo stremo delle loro forze.
    Più veloce! Più veloce!
    Può già vedere l’orlo del precipizio di solitudine che la risucchierà se non riuscirà ad arrivare in tempo.
    Eppure non sa neanche cosa gli dirà se riuscirà a raggiungerlo.
    “Non andare”?
    “Portami con te”?
    “Ti amo”?
    Toccarlo... toccarlo solo un’altra volta e poi succeda quel che deve succedere. Ma perderlo così è inammissibile, la sua mente si rifiuta di contemplare un domani in cui non ci sia lo sguardo di Terence da incrociare sulla seconda collina di Pony, né il suono della sua armonica ad avvolgerla, cullandola mentre se ne sta distesa nell’erba, grata di averlo lì accanto e di sapere che quando aprirà gli occhi incontrerà i suoi nei quali specchiarsi. Forse la felicità non è altro che questo.
    Con una frenata al limite del ribaltamento, la carrozza si ferma davanti al molo e, prima ancora che le ruote abbiano terminato di girare vorticosamente, Candy è già fuori, i capelli dorati che volteggiano in due code scomposte sulle spalle mentre si lancia cercando di tener dietro al suo cuore che sta già volando lungo la banchina. La percorre tutta con le ali ai piedi, la mente e il cuore che si rifiutano di vedere ciò che i suoi occhi hanno già registrato: il piroscafo si è staccato dalla terraferma ed è ormai una sfumata sagoma nella bruma, che lascia dietro di sé solo una scia di vapore a mescolarsi con la nebbia.
    Il suono acuto della sirena lacera l’aria e la schiaffeggia proprio nel momento in cui Candy raggiunge la ringhiera al termine del molo e vi si aggrappa con tutte le sue forze, protendendosi il più possibile verso l’acqua, come se volesse tuffarvisi dentro. Solo l’oceano adesso la separa da quella nave che si porta via il suo amore e la felicità.
    - Nooooooo! Terence!!!
    In quel grido che squarcia la notte e copre quasi il suono della sirena c’è tutto il dolore per la sua inqualificabile perdita, l’angoscia per aver realizzato troppo tardi ciò che già da tempo le bruciava nel cuore, ma che è stata troppo cieca o troppo ingenua per capire. In quel momento, mentre scivola in ginocchio ancora aggrappata al gelido metallo della ringhiera, piangendo tutte le sue lacrime, Candy guarda il suo cuore allontanarsi insieme a quella nave. Poggia una mano sul suo petto e non sente nulla. Non c’è più nulla.


    - ...Non so quanto tempo rimasi lì a piangere. Albeggiava già quando mi resi conto che c’era qualcuno alle mie spalle. Era un vecchio marinaio che guardava lo stesso orizzonte che aveva risucchiato la tua nave e che adesso si stava tingendo di un rosa soffuso. Fu lui, credo, a darmi la forza di sollevarmi per affrontare tutto ciò che mi aspettava dopo di te. Senza guardarmi, ma fissando sempre l’oceano, mi disse che dovevo aver fede, che la vita è fatta di addii e di incontri e che se si vive abbastanza prima o poi si ritrova chi si crede di aver perso. Furono quelle parole a darmi una speranza per andare avanti e cominciare subito a far scorrere il tempo che mi separava dal momento in cui ti avrei rivisto. Ecco quello che dovevo fare: vivere! Vivere fino a quando ti avessi ritrovato.
    Terence le stringeva la mano, che adesso tremava. Non erano più seduti al tavolino di un piccolo ristorante di Brooklyn, attorno a loro infatti tutto era scomparso e ogni altro senso era stato risucchiato dai loro sguardi incatenati l’uno a quello dell’altro, mentre rivivevano la prima delle loro separazioni, quella che Terence non sapeva di avere vissuto in quel modo.
    - Eri davvero tu...
    Candy, cui solo la presenza e la carezza di Terence impedivano di dare libero sfogo alle lacrime che premevano per sgorgare, lo guardò con aria interrogativa.
    - Ti ho sentito, quella notte. Ero sul ponte, osservavo le coste farsi sempre più lontane e sfumate, ma cercavo di prolungare il più a lungo possibile quell’ultimo contatto con te. E, proprio mentre ti dicevo addio, mi parve di udire la tua voce chiamare il mio nome. Sorrisi tra me e me, pensando che il mio desiderio avesse dato voce a ciò che mi scoppiava nella mente. Invece eri tu. Tu eri lì, per me. Dio...! – Terence strinse una mano a pugno così forte da farne sbiancare le nocche, furioso esattamente come tanti anni prima per l’odiosa e innaturale scelta che gli avevano imposto il destino, Iriza, suor Grey, suo padre, tutti coloro che avevano avuto un ruolo in quel dramma, il cui epilogo si rivelava adesso ai suoi occhi in maniera ancora più struggente di quanto avesse supposto: nell’immagine di Candy, sola nella nebbia, aggrappata a quella ringhiera – ...amore mio, perdonami!
    Candy gli mise entrambe le mani sul volto
    - Perdonarti? Terence, hai salvato il mio onore, hai rinunciato al tuo nome, alla tua famiglia e a soli sedici anni sei andato da solo alla ricerca di una nuova vita, solo per me. Era l’unica scelta possibile: eravamo due adolescenti nel mezzo di qualcosa di più grande di loro. Ora lo so. Ma allora il vuoto nel quale questo fatto mi faceva precipitare mi apparve inaffrontabile. Però mi diede anche la forza di prendere a mia volta in mano la mia vita e di andare per la mia strada... che mi portava a te.
    - Candy... – i loro occhi, ancora una volta, si dissero tutto ciò che restava da dire.
    Rimasero lì in silenzio per un tempo infinito. Il cameriere aveva intanto portato il dolce, che era rimasto abbandonato sulla tovaglia rossa e blu, illuminata dalla luce delle candele che componevano ombre guizzanti sui loro visi.
    Alla fine fu Terence a rompere il silenzio. Si rivolse a Candy con il suo sorriso tornato brillante di malizia, dopo essersi riconciliato con quel passato ripresentatosi davanti ai suoi occhi quella sera, ed averne annullato gli effetti, grazie alla presenza di Candy di nuovo al suo fianco che lo faceva sentire invincibile.
    - Allora, Tuttelentiggini, adesso non hai più scuse: cos’era quella cosa tanto importante che volevi dirmi ai tempi della scuola infermiere?
    - Ecco, Terence – Candy sospirò: quello era il momento più difficile, che aveva temuto per tutta la sera, anzi, per tutta la vita. Ma andava fatto. Il loro cammino insieme doveva iniziare senza ostacoli celati nell’ombra – io...io in realtà te lo scrissi in un’altra lettera.
    - Candy, non immaginavo tu fossi una tale grafomane!
    - Più di quanto tu non immagini, Terry! – rispose lei sorridendo, tesa.
    - Questa... questa risale a diverso tempo dopo. Te la scrissi nel 1916, dopo aver letto sui giornali del tuo ritorno sulle scene, nell’Amleto...
    Terence sussultò. La rappresentazione che lo aveva riportato al successo, dopo il buio baratro che lo aveva condotto al capolinea di Rocktown... Il dolore e la disperazione di allora per un attimo tornarono ad artigliarlo con la stessa rapace ferocia. Guardò il suo dolce angelo biondo e chiuse gli occhi, solo per accertarsi che l’avrebbe trovata ancora lì nel riaprirli. Quando la magia si compì, allungò la mano per prendere la lettera che lei gli porgeva.
    Assorto, si immerse nella lettura.


    *Tratta da: Kioko Mizuki, Final Story, volume II, pag. 128; l’intestazione e la data della lettera sono state da me liberamente aggiunte.

    [continua]



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    Casa di Pony,
    La Porte, Indiana
    3 dicembre 1916

    Caro Terence
    Ho appena letto l’articolo sul tuo “Amleto”, nel quale si parla delle sue lusinghiere recensioni. Sono stata veramente felice nell’apprenderlo.
    Congratulazioni per il tuo successo!
    Ho sempre creduto che questo giorno sarebbe arrivato di nuovo, prima o poi. Se fossi stata lì, so che avrei potuto sentire gli applausi fragorosi che ti sono stati tributati, e che devono essere sembrati non voler finire mai. E avrei anche potuto vederti, nel tuo costume bianco, intento a rispondere alle numerose chiamate alla ribalta con un sorriso sulle labbra.
    Miss Pony e Suor Maria hanno detto che sei stato il migliore Amleto che loro abbiano mai ammirato in tutta la loro vita. Erano affascinate dalla tua foto sul giornale ed eccitate come ragazzine innamorate.
    Beh, Terry, tu hai visitato la casa di Pony una volta, vero? Quella volta anch’io ero sulla strada per tornarvi. Il tempo è corso troppo in fretta, in quell’occasione. Se solo mi fossi fermata per una sosta più breve di quanto abbia fatto, ti avrei trovato lì.
    La casa di Pony era come l’avevi immaginata? Assomiglia alla seconda collina di Pony, vero?
    Anche se non ero lì con te, posso figurarmi perfettamente la tua immagine, mentre te ne stavi in piedi da solo sulla collina in quel giorno turbinante di neve. Ero appena tornata in America, come se ti fossi corsa dietro, e di lì a poco avrei cominciato a studiare per diventare infermiera, continuando sempre a sognare di poterti rivedere, un giorno.
    “C’è qualcosa di molto importante per me che desidero davvero realizzare” mi hai scritto lasciando la St. Paul School.
    Anch’io ho desiderato che tu vedessi come ero stata capace di andare avanti per la mia strada, contando sulle mie sole forze.
    Ho sempre confidato che ti avrei rivisto, prima o poi, e quindi sono stata tanto felice quando ho trovato quell’articolo su di te in un angolino del giornale.
    “Terence Graham”.
    Solo leggendolo sul giornale realizzai che la “G” di “Terence G. Granchester” stava per “Graham”. E io che avevo sempre pensato che stesse per “Gorilla”! Ho sentito dire che è stata tua madre, Eleanor Baker, a darti questo nome. Sono stata così commossa nello scoprire che ti sei lasciato il nome dei Granchester alle spalle, abbandonando l’Inghilterra. Saperlo mi ha fatto comprendere la tua determinazione a cambiare vita.
    Ad ogni modo, non si può dire che i professionisti di Broadway non sappiano il fatto loro, quando si tratta di scoprire nuovi talenti: hanno intuito subito il tuo. Ogni volta che ricevo tue notizie, penso che anch’io devo riuscire a sfoderare la stessa determinazione.
    Non puoi neanche immaginare quanto sono stata felice di sapere che saresti venuto a Chigaco per quella rappresentazione con la Compagnia Stratford.
    Allora tu non sapevi ancora che io ero tornata negli Stati Uniti, e ho pensato che ti avrei fatto la più grande delle sorprese comparendoti davanti all’improvviso. Purtroppo scoprii in seguito che quello spettacolo era riservato ad un pubblico con invito.
    Quando avevo ormai perso quasi tutte le speranze di poterti rivedere, Archie e Stear riuscirono ad ottenere un biglietto per me, con un vero colpo di fortuna. Ma in realtà la fortuna non era dalla mia parte, perchè quella notte ero di turno e non riuscii a trovare nessuno che potesse sostituirmi. Ma non potevo assolutamente perdermi la tua interpretazione, e così scappai dall’ospedale per venire in teatro. Come sai sono brava a sgusciare via, ma stavolta non ero in collegio, bensì in un ospedale… e avevo precise responsabilità.
    Più tardi, infatti, fui rimproverata aspramente da Flannie, la mia collega anziana alla scuola per infermiere.
    Nonostante tutto, con mio grande disappunto, non sono neanche riuscita a vederti comodamente dal mio posto, a causa del solito intervento di Iriza.
    In ogni caso, ti ho visto da dietro le quinte. Eri veramente splendido nei panni del Re di Francia…il titolo della tragedia avrebbe dovuto essere il “Re di Francia”, anziché il “Re Lear”, ecco cosa ho pensato in quel momento.
    Ascoltavo la tua voce chiara e profonda sul palcoscenico e osservavo i tuoi raffinati movimenti sotto i riflettori, che mi arrivavano attraverso un velo di lacrime.
    La tua popolarità era impressionante: dopo, fui sorpresa di vedere all’uscita del teatro la folla di ragazze che premevano attorno a te.
    Urlai il tuo nome con tutto il fiato che avevo, ma fu inutile: mentre venivo spintonata dalla folla di tue ammiratrici, ho solo potuto guardarti andare via insieme a Susanna.
    Se ci ripenso adesso, credo che quella fu un’anticipazione della nostra successiva separazione. Ci siamo sfiorati e mancati infinite volte, così alla casa di Pony, come in quel teatro, e anche nell’albergo di Chicago. Mentre io entravo nell’hotel dove soggiornavi, Terry, tu mi stavi aspettando davanti al mio ospedale, non è vero? Se solo lo avessi saputo… Mentre eri lì, io sono stata mandata via dal tuo albergo da Susanna e ho vagato da sola per le strade di Chicago fino all’alba, disperata per non averti potuto incontrare. Nella mia mente mi ripetevo ossessivamente sempre le stesse parole:
    “Terry, chissà se mi hai già dimenticata?... No, non può essere.”
    Più tardi, Stear mi raccontò che vi eravate incontrati al ricevimento che il sindaco di Chicago aveva dato dopo la vostra rappresentazione e che tu avevi saputo da lui del mio ritorno negli Stati Uniti. Immagino quanto sarai rimasto di stucco nello scoprirlo! Mi sarebbe piaciuto essere lì per vederlo, ma mi sono persa anche quel momento. È stato meraviglioso sentire da Stear che, non appena hai saputo della mia presenza a Chicago, hai lasciato immediatamente il ricevimento, senza curarti degli altri ospiti che erano lì per te. Oh, quella notte abbiamo avuto talmente tante occasioni di incontrarci, se solo fossimo stati un po’ più fortunati! Ma nonostante tutto, sono stata ugualmente felice di vederti, anche se solo per un breve sguardo, e di sapere che stavi bene.
    Infatti, quando il giorno dopo, verso mezzogiorno, ebbi dal portiere il tuo messaggio, mi precipitai alla stazione. Quando arrivai il treno era appena partito e quindi corsi verso la staccionata, sperando solo di vedere passare il treno sul quale ti trovavi. E invece ti vidi in piedi sul predellino… I nostri occhi si sono incrociati solo per un momento. Solo questo… ma è stato sufficiente per riempirmi di felicità.
    I nostri dolci ricordi non sono ancora terminati, Terry.
    Se solo avessi saputo ciò che sarebbe successo in seguito, ti avrei scritto più lettere, e mi sarebbe piaciuto riceverne di più da te. Ma adesso è troppo tardi, non è così?
    Dopo il nostro fugace incontro venni a New York, anche se non avrei mai immaginato che quello sarebbe stato un viaggio d’addio.
    Quando ricevetti il biglietto per la prima di “Romeo e Giulietta”, accompagnato da un biglietto di sola andata per venire da te, pensai che la mia lunga attesa fosse finalmente terminata e che ti avrei rivisto, finalmente.
    E poi noi abbiamo dei ricordi speciali che ci legano proprio a quest’opera. Fui così sorpresa quando seppi che alla fine avresti davvero interpretato Romeo!
    Quando ti rividi a New York dopo tutto quel tempo fu in assoluto il giorno più felice della mia vita, anche se mi tenni questa immensa emozione dentro di me, poichè avevo percepito che c’era qualcosa che ti turbava. Ma ero troppo felice per curarmene veramente. Adesso so che eri terribilmente sotto pressione a causa dell’incidente di Susanna. Sono così dispiaciuta di non avere fatto nulla per aiutarti mentre attraversavi quei momenti! Mi sento ancora terribilmente addolorata per questo. Potrei dirti che l’incidente di Susanna non fu certo colpa tua, ma non c’è alcun dubbio che lei abbia spiegato le sue ali per proteggerti, sacrificandosi al tuo posto. E così, quando ho scoperto ciò che Susanna provava per te, non mi rimase altro da fare che dirti addio, Terry. Non avrei potuto restarti accanto, vedendo come la cosa ti stesse ditruggendo. E, al di là ogni altra considerazione, nessuno di noi due avrebbe mai potuto essere felice se fossimo rimasti insieme lasciando dietro di noi Susanna in quell’abisso di disperazione.
    Quando ti dissi addio, tu mi dicesti, stretto alla mia schiena:
    “Sii felice, altrimenti non potrò mai perdonarti”.
    Grazie Terence. Sono felice adesso. Ho sempre tanti amici che si prendono molta cura di me. Ma, soprattutto, porto ancora nel mio cuore tutti i dolci ricordi dei momenti che abbiamo condiviso.
    Non potrò mai dimenticare il calore del tuo petto contro la mia schiena...
    Ma, d’altro canto, Terry, so che tu non sei stato felice da quando ci siamo separati.
    Eri così disperato che non hai potuto dedicarti alla recitazione come avresti dovuto, e sei stato costretto a lasciare la tua compagnia… Sei stato così incosciente, Terry! Ma più ancora di te, IO sono stata una stupida a preoccuparmi solo del mio dolore. Sono stata talmente egoista!
    Credo sia stata la mano di Dio a condurmi per caso fino a te in un altro giorno d’inverno, in quello scalcinato teatro dove ti eri unito a quella compagnia di strada. Recitavi in preda all’alcol e annaspavi sulle tue battute.
    Stavo quasi per salire sul palcoscenico per affrontarti, battendo i pugni sul tuo petto e gridando: “Ritorna in te!”
    Stavo davvero per farlo. Terry, hai forse sentito la voce che urlava nella mia mente in quel momento? Perchè ad un certo punto è sembrato quasi che tu ti rianimassi improvvisamente nel bel mezzo della commedia, e ti sei completamente trasformato sotto i miei occhi, riprendendo a recitare meravigliosamente. Non ho potuto trattenere le lacrime di fronte a quella scena, troppo meravigliosa per essere descritta.
    “Sei di nuovo TU. TU SEI TERENCE” continuavo a sussurrarti nella mia mente tra le lacrime.
    Hai mai saputo che tua madre era tra il pubblico, in quella occasione? Poco dopo mi sono sentita chiamare da lei. Mi disse che aveva cancellato tutti i suoi impegni di lavoro per seguirti in incognito.
    È stata anche così gentile da mandarmi un invito per l’Amleto, in seguito. Io però glielo rimandai indietro. Non sono ancora forte abbastanza per vederti recitare a Broadway.
    Terry, sono tornata alla Casa di Pony, adesso, e lavoro qui come infermiera. Da quando ci siamo separati sono successe talmente tante cose. Stear, il nostro allegro amico, è partito volontario per la Guerra ed è morto. Sono così disperata nel perdere una per una le persone che amo, quasi come in quella filastrocca: “Dieci piccolo indiani”.
    Solo Albert è sempre con me.
    Terry, indovina! È lui il mio padre adottivo, lo zio William. Siamo stati tutti abilmente raggirati. Dimmi, pensi che anche lui potrebbe avere un futuro come attore?
    Oh, caro! È così strano che io abbia prodotto una tale montagna di carta. Mi chiedo perchè mai io abbia scritto una lettera così lunga, dal momento che non ho intenzione di spedirtela, nè ora nè mai.
    È stato quell’articolo sul successo dell’Amleto che mi ha reso così prolifica, suppongo.
    È quasi il tramonto, posso sentire suonare le campane della chiesa che riecheggiano attraverso le montagne.
    Terry, ti prego, prenditi sempre cura di Susanna meglio che puoi.
    Ho letto una sua intervista risalente al periodo successivo al tuo ritorno a Broadway, dopo la tua scomparsa e la tua esperienza in quella compagnia di strada:
    “Miss Susanna, era preoccupata per la scomparsa di Terence? Temeva l’avesse lasciata?”
    “No, non lo ero. Perchè io ho sempre la massima fiducia in lui, qualunque cosa faccia”
    Ho pianto calde lacrime nel leggere questa intervista. Penso che Susanna Marlowe sia davvero una cara persona, proprio come te, Terry.
    Quella volta tu hai scelto Susanna anziché me, dopo lunghi e tormentosi dubbi. Credo ancora che sia stata e sia la scelta giusta.
    Terence, sono così lontana da Broadway, qui, ma spero davvero che tu sappia che in questa remota campagna americana io resto sempre una tua devota ammiratrice. E, ti prego, quando sali sul palcoscenico tieni sempre a mente che io ti sono vicina per sostenerti.

    La tua Tarzan Tuttelentiggini
    P.S. Ti ho amato! 1


    Candy tremava mentre scrutava ogni minima sfumatura dell’espressione di Terence, immerso in una lettura molto più lunga e dolorosa della precedente. Capì subito quando lui arrivò alla rievocazione del loro addio sulle scale del St. Jacob’s Hospital, dal velo che gli coprì gli occhi di lacrime trattenute a fatica. E si accorse esattamente del momento in cui giunse alle righe relative alla dolorosa rappresentazione a Rocktown, perché lo vide sussultare e scorse una maschera di sofferenza calare sul suo volto come un’ombra. Le mani che tenevano i fogli iniziarono a tremare e la lettura si fece sempre più sofferta sotto lo sguardo disperato di Candy, fino alle frasi finali e al post scriptum, alla sua dichiarazione d’amore, che avrebbe voluto confessargli fin dai tempi della scuola per infermiere e che invece giaceva chiusa da troppo tempo nel cofanetto dei suoi più preziosi cimeli.
    Terence terminò la lettura e alzò lo sguardo, scintillante di tutti le contrastanti emozioni accese dalle parole di Candy, tracciate con la sua grafia aggraziata su quei fogli solo apparentemente innocui. Tra tutte le scene che prendevano forma e colore davanti a lui, ve ne era una più inaspettata, vivida e dolorosa delle altre:
    - Tu eri lì...
    Candy si sentì sola e indifesa di fronte al destino che soffiava impetuosamente. Era infine giunto il momento di affrontare il senso di colpa che l’aveva tormentata per tutti quegli anni e di offrirsi nuda e ricoperta solo dei propri errori di fronte all’uomo che amava, pregando che l’amore potesse sorreggerli in quel momento della verità.
    - Sì, Terry, io ero lì.
    - E anche mia madre...
    - Sì, amore mio. Lei ti ha seguito fin da quando lasciasti New York, folle di preoccupazione ma allo stesso tempo timorosa di manifestarsi, per paura di perderti definitivamente. Ha vissuto mesi terribili anche lei, Terry.
    - Tu eri lì... mi hai visto in quello stato...mi hai visto in preda al vizio e all’abiezione... – ripeteva Terence, lo sguardo perso nel ricordo del suo inferno, della peggiore perdizione in cui un uomo potesse precipitare e della quale Candy, il suo puro angelo, era stata testimone.
    - Terence, stavi male – rimarcò Candy con veemenza, stringendogli la mano che adesso giaceva abbandonata sul tavolo – non ho mai pensato che fosse stato altro che la sofferenza a spingerti in quel luogo orribile! Su quel palco ho visto un uomo che si abbandonava alla disperazione, non al vizio! E non c’è colpa nel dolore: Dio ama maggiormente i suoi figli quando cadono tra le tenebre che quando camminano nella luce. Ma in quel luogo buio ho visto anche un uomo che ha saputo risorgere dalle sue ceneri, facendo risplendere all’improvviso quella sala grazie al fuoco che tornava a splendere dentro di lui!
    Terence distolse gli occhi da quelli di lei e liberò la mano dalla sua stretta, provocando a Candy una fitta di acuto dolore. Sembrò viaggiare per qualche minuto in un’altra dimensione, prima di rialzare uno sguardo freddo come una lama d’acciaio, le iridi adesso quasi nere, come Candy ricordava di averle viste in passato solo in un’altra occasione: a scuola, la sera in cui lui l’aveva trovata nella sua stanza e aveva compreso che lei aveva scoperto il segreto sull’identità di sua madre.
    - Io pensavo tu fossi una visione della mia mente obnubilata. È per quello che mi sono rialzato, Candy! Perché ho provato vergogna per la sporcizia che stavo gettando sul ricordo di ciò che rappresentavi per me. Il solo pensiero che tu potessi vedermi in quello stato e piangere tutte le tue lacrime per causa mia è stato il bastone al quale mi sono aggrappato per rialzarmi. Ma io pensavo fossi solo una proiezione del mio bisogno di te, in quel momento. Mai! Mai avrei potuto immaginare che tu fossi lì... e che, essendo lì, ti saresti voltata e te ne saresti andata via... di nuovo...
    La voce di Terence era prima salita di tono, rievocando il momento più drammatico della propria esistenza, per poi abbassarsi di nuovo e ridursi infine solo a un sofferto sussurro. In quel “di nuovo” c’erano anni e anni di dolore e rimpianti inespressi, dalla separazione sulle scale del St. Jacob’s in avanti.
    Lacrime sgorgavano adesso irrefrenabili dagli occhi di Candy, messa di fronte alle sue paure e alle sue scelte con tanta implacabilità.
    - Terry, io... io non cerco giustificazioni. Non ne ho. Ti vidi lì, sull’orlo della fine, e volevo disperatamente che ti risollevassi e che tornassi alla vita, alla luce... poi...poi vidi che ti trasfiguravi; una trasformazione meravigliosa si è compiuta sotto i miei occhi: il mio Terence, il meraviglioso uomo al quale avevo dovuto dire addio a causa della più dolorosa delle rinunce, all’improvviso era salito su quel palco, scacciandone la cupa ombra che si era impossessata del suo corpo. È stato terribile e splendido. Piangevo e sorridevo allo stesso tempo nel vederti rinascere sotto i miei occhi. Ho fatto la più grande violenza su me stessa per voltarmi e andarmene, Terry. Non ho scuse, non cerco il tuo perdono... Non ho neanche il mio, di fatto. Ma devo essere onesta fino in fondo e dirti che se tornassi indietro lo rifarei... Se tu non fossi tornato in te, sarei salita su quel palco e ti avrei schiaffeggiato con tutta me stessa, fino a farti ricordare chi eri e chi potevi essere. Ma vidi che il miracolo si compiva senza di me... e in quel momento la mia priorità era raccogliere le poche forze che mi restavano per lottare contro il prepotente bisogno di stringerti a me... scappare via, per non annullare il valore della promessa che ci eravamo scambiati, in silenzio, su quella terrazza. Sono fuggita, Terry, sì! Perché non sono perfetta, perché sono una donna fragile e innamorata pazzamente di te! E perché sapevo che se ti avessi abbracciato sotto quella tenda, di sicuro non sarei più riuscita a lasciarti andare!
    Candy piangeva disperatamente, adesso, lasciando finalmente tracimare tutto il dolore, il senso di colpa e l’assenza di pietà per se stessa che le pesavano sul cuore. Si sentiva alla mercé dell’uomo di fronte a lei, al quale consegnava adesso le chiavi della sua anima, più nuda che mai. Sentiva il suo Terence lontano anni luce, gli occhi ancora del colore torbido del mare in tempesta nella notte. Desiderava toccarlo, stringerlo, sentire il suo perdono o anche solo la sua rabbia. Qualunque cosa, ma non quel silenzio che la uccideva.
    Stava chiedendosi se le avrebbe mai più parlato quando, violento e improvviso come un lampo che illumina la notte e fragoroso come il suo successivo tuono, il pugno di Terence si abbatté violentemente sul piano del tavolo, facendo cadere il vaso che vi era poggiato sopra e spargendo dappertutto l’acqua e i delicati narcisi, che rimasero lì abbandonati e negletti.
    - MALEDIZIONE!!!!
    Terence si alzò di scatto, con un tale impeto che la sedia ricadde alle sue spalle. Si diresse con ampie falcate alla finestra e vi appoggiò sopra una mano chiusa a pugno, alla quale appoggiò la sua fronte e tutto il peso che si trascinava dentro.
    Candy si portò le mani davanti alla bocca, affranta. Automaticamente le sue dita corsero a cercare il ciondolo di zaffiri, per trarre forza dal contatto con esso come aveva sempre fatto, ma il suo collo nudo le ricordò che adesso la pietra si trovava al petto dell’uomo disperato di fronte a lei. L’uomo che amava e al quale aveva appena dato il più grande dei dolori, quello di sentirsi abbandonato da lei. Di nuovo.
    Le aveva voltato le spalle, Candy non riusciva a scorgerne l’espressione del viso; non riusciva nemmeno a guardarla, come avrebbe potuto sperare che la capisse o addirittura che la perdonasse? Il suo Terence, cui la vita aveva riservato dolorosi distacchi e crudeli rifiuti fin da quando era solo un bambino e che adesso si sentiva per l’ennesima volta abbandonato a se stesso dalla persona che avrebbe dovuto proteggerlo e averne cura sempre. Da quell’unica che per la prima volta gli aveva fatto credere di poter essere degno d’amore.
    Candy voleva alzarsi e correre da lui, ma sapeva che in quel momento dentro al cuore del ragazzo si stava combattendo una feroce battaglia, della quale lei poteva essere semplice spettatrice e, semmai, vittima. Terence non aveva alleati in quella guerra, solo il peggiore dei suoi nemici da sempre: se stesso.
    Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse rimasta lì a fissarne la schiena immobile, la fronte sempre appoggiata al pugno contro il vetro della finestra. Che fosse stata un’eternità o un battito di ciglia, fu comunque tutta la sua vita a passare in quella sala, nella luce soffusa che adesso sembrava minacciarla anziché avvolgerla rassicurante.
    Dopo quello che le sembrò un tempo infinito, Terence si staccò lentamente dalla finestra, si voltò e tornò in silenzio verso di lei. Candy vide che i suoi occhi avevano riacquistato il riflesso dei fiordalisi, anche se il suo volto era ancora una maschera imperscrutabile.
    Guardava paralizzata e terrorizzata l’incedere di Terence, che sottraeva lentamente spazio alla distanza che li separava. Raggiunto il tavolo lui non si sedette, ma si portò dietro la sedia sulla quale lei aspettava la sua sentenza e, finalmente, le passò le mani davanti alle spalle, stringendo le braccia sul petto di lei in un abbraccio appassionato. Chinatosi per poggiare il viso sul suo capo, si immerse disperatamente tra i suoi capelli dorati.
    Candy si lasciò sfuggire un singhiozzo di sollievo e sentì di tornare alla vita, mentre il soffio del destino cessava di ruggire col fragore di una tempesta e la avvolgeva finalmente come una dolce brezza primaverile, definitivamente vinto dalla forza del loro amore. Posò entrambe le sue mani su quelle di lui e si lasciò andare all’indietro per appoggiarsi al suo corpo a occhi chiusi. I due giovani rimasero a lungo in quella posizione, lasciandosi dietro le spalle l’orrore che avevano attraversato e pronti a guardare avanti, insieme.
    Quando si sentì sufficientemente forte, Terence si staccò dalla sua schiena e, senza lasciarle andare le mani, si accovacciò di fianco alla sua sedia fissandola negli occhi.
    - Ti amo – le disse.
    - Ti amo – rispose lei.
    - Non lasciarmi mai più.
    - Mai più.

    A quel punto, non si poté più eludere l’argomento che era stato fonte di tutte le dolorose scelte che i due ragazzi avevano compiuto in quegli anni.
    Terence dovette spiegare a Candy la vera natura di quella disturbata e triste figura che era stata Susanna, troppo piccola per interpretare il ruolo da protagonista di un dramma così grande quale quello che il destino le aveva assegnato. Le raccontò delle furibonde liti che avevano preceduto e seguito la stesura de La principessa sbagliata e fu tremendamente rattristato nello scoprire che Candy aveva assistito alla commedia, e del dolore che aveva provato.
    Ma fu quando Terence arrivò a raccontarle del ritrovamento delle sue lettere da Chicago che Candy si sentì ribollire il sangue nelle vene, esattamente come quella notte a New York, quando si era precipitata all’ospedale St. Jacobs lasciando la rappresentazione di Romeo e Giulietta per correre ad affrontare Susanna. Prima che trovarla riversa sulla neve rovesciasse completamente la sua prospettiva e la sua determinazione.
    I suoi occhi lanciavano lampi verdi. Terence allungò una mano per accarezzarle i capelli, sistemandole una ciocca del colore del grano dietro l’orecchio.
    - Oh, Terence! Le mie lettere… tutti i miei pensieri, i miei sentimenti... se solo sapessi quanto mi dispiace!
    Terence trasse dalla tasca interna della giacca un pacchetto di lettere e le disse:
    - Sono qui, adesso. Il destino le ha fatte giungere nelle mie mani, sia pure attraverso ampi giri, e ho potuto leggere ogni singola riga dedicatami dalla mia Giulietta lentigginosa...
    Candy sorrise, ripensando al contenuto di quelle lettere, al suo timido cuore che cercava di manifestarsi a quello di Terence, combattendo feroci battaglie contro il suo riserbo, dicendogli “ti amo” con tutti i possibili ricami verbali che le facessero evitare quelle parole.
    - Le ho lette tutte mille volte, ti assicuro che non avrebbero avuto lettura più attenta se fossero state recapitate nel momento in cui sono state scritte. E.... – Terence trasse dalla giacca un altro piccolo gruppo di buste – ...ti ho risposto, sia pure a distanza di cinque anni.
    Candy lo guardò senza parole.
    - Sul piroscafo che mi riportava in America, qualche settimana fa, rileggendole per la centesima volta, mi sono reso conto che ti dovevo la risposta a queste lettere che non avevo avuto l’opportunità di scriverti. Volevi lettere d’amore e frasi appassionate, tesoro mio? Credo che non resterai delusa, anzi forse ti verranno a noia. Mi spiace per il ritardo, ma spero che vorrai considerare le circostanze attenuanti – mormorò Terence, senza traccia di ironia nella voce.
    Candy guardò le lettere che Terence le aveva scritto, quando non sapeva neanche se l’avrebbe ritrovata, e un’ondata di commozione la pervase.
    Entrambi quella sera avevano portato con sé delle lettere dal passato, all’insaputa l’uno dell’altra. Erano veramente anime gemelle e adesso era davvero certa che non vi fosse forza al mondo che potesse ostacolarli, non più. Avevano superato la notte più buia e la luce del loro amore aveva spazzato via le ultime residue ombre.
    - Le leggerò tutte stanotte, Terry, ma prima c’è una cosa che devo assolutamente fare. Hai una penna?
    - Sei in preda ad un nuovo e insopprimibile attacco di grafomania, Tuttelentiggini? – chiese Terence incuriosito, porgendole la sua stilografica d’argento dal taschino interno della giacca.
    - Non proprio, ma c’è un errore nella mia ultima lettera che devo assolutamente correggere, prima di lasciartela.
    E, con un tratto secco e deciso di inchiostro, Candy cancellò dal post scriptum della lettera mai spedita le parole ti ho amato per scrivervi sotto, a chiare e distinte lettere:
    “Ti amo con tutto il mio cuore, e dedicherò il resto della mia vita ad amarti.”

    Ma tu chi sei,
    che avanzando nel buio della notte
    inciampi nei miei più segreti pensieri? *



    1Liberamente da me tradotto da: Kioko Mizuki, “Novelle”, volume III, pag. 161-174; l’intestazione e la data della lettera sono state da me liberamente aggiunte.

    *Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.


    FINE CAPITOLO 7°





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    Capitolo 8°: Donarsi la vita


    capitolo_8_2




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    cap8_4



    Casa di Pony.
    La Porte, Indiana

    05 maggio 1919


    Maggio era da sempre il mese più bello alla casa di Pony, quello in cui tutta la campagna circostante toccava il culmine della propria rinascita. Laddove nei lunghi mesi invernali ogni cosa era avvolta in un candido bagliore uniforme e abbacinante, in quel mese le colline si vestivano del verde più brillante che si potesse immaginare e il cielo, quasi sentendosi chiamato a rivaleggiare con loro, sfoggiava il suo azzurro delle grandi occasioni.
    I pendii si rivestivano di ranuncoli e trifoglio bianco, mentre i lupinus e la rudbeckia che attorniavano la casa erano allora nel pieno della loro radiosa fioritura. Ogni angolo della campagna esplodeva in un turbine senza fine di colori, suoni, profumi intensi e inebrianti, tanto speciali che ogni abitante di quelle vallate avrebbero potuto riconoscerli tra mille e dai quali si sentivano dolcemente scortati nell’estate ormai prossima.
    Quell’anno alla casa di Pony c’erano anche una macchia di colore e un profumo nuovi nell’aria: il roseto delle “dolce Candy”, trapiantate lì grazie al previdente gesto d’affetto di Mr. Whitman, che aveva identificato in quei luoghi e in Candy gli unici degni di perpetrare l’amore di Anthony (sia per le sue rose che per la ragazza, dalla quale aveva preso in prestito il nome per donarlo al suo innesto più bello) era fiorito per la prima volta sulla collina di Pony, e quelle rose per prime sembravano aver richiamato in quei luoghi la propria omonima, con l’intensità del loro profumo e la vellutata morbidezza dei petali appena sbocciati.
    Per Miss Pony e suor Maria era anche il mese più faticoso in cui tenere sotto controllo tutti i bambini della casa, non essendovi più il gelo e la neve dell’inverno quali deterrenti e custodi a tenerli al chiuso, dove almeno le loro potenzialità distruttive erano circoscritte in un ambiente più limitato.
    Con l’arrivo delle assolate e incantevoli giornate di primavera, ogni giorno un po’ più lunghe, fanciulli di tutte le età, dagli adolescenti nel pieno dell’esplosività dei loro anni a poco più che infanti caracollanti su gambette che avevano appena appreso i movimenti basilari dei primi passi, sciamavano verso l’esterno alla naturale ricerca di ampi spazi e di tutti quei divertimenti da sempre offerti generosamente e gratuitamente dalla natura. Nessuna nursery di lusso nella più ricca reggia del mondo avrebbe mai potuto neanche lontanamente eguagliare la perfezione di quello spazio a loro disposizione. I pendii della collina di Pony erano un vero regno dei balocchi dove arrampicarsi sugli alberi, giocare a saltare la “cavallina” o con la corda tra i prati, lanciarsi sull’altalena incontro al cielo azzurro e brillante, inseguire leprotti e conigli appena risvegliatisi dal letargo, raccogliere margherite candide, campanule, primule e papaveri scarlatti per farne coroncine di fiori da scambiarsi tra le risate. Anche senza arrivare ai veri colpi di genio (“...del male”, secondo il parere di Suor Maria) che nessun bambino prima e dopo era mai riuscito ad eguagliare: legare tra loro in fila indiana un gruppo di anatroccoli alle zampette palmate della madre.
    Ma come si sarebbe potuto punire l’autrice di tale sconcertante atto, quando ella si era giustificata spiegando che lo aveva fatto per non rischiare che i piccoli e indifesi anatroccoli perdessero la propria mamma, come era successo a lei?
    Suor Maria, la roccia della casa di Pony, sentiva sempre salirle agli occhi lacrime di nostalgia e affetto per quella bambina di sei anni che, senza nulla togliere all’amore sconfinato che lei e Miss Pony avevano provato in egual misura per tutti i piccoli e grandi ospiti passati per quei luoghi e nelle le loro vite, era diventata la loro unica figlia, tornando sempre, anche dopo essere stata adottata da una delle più ricche famiglie degli Stati Uniti, tra quelle pareti che avrebbe sempre considerato la sua vera casa; e a quella coppia di braccia amorevoli da lei sempre attribuite agli unici genitori che avesse mai avuto: una coppia di mamme.
    Sulle due inossidabili amiche che avevano attraversato praticamente tutta la propria vita da adulte insieme, dedicandosi con eguale passione e dedizione al compito non facile di donare uno spicchio di felicità e un senso di famiglia a bambini destinati fin dalla culla a percorrere in salita il cammino della propria vita, il tempo scorreva lieve, come di solito avviene per due sole categorie di persone: quelle profondamente intelligenti e quelle profondamente buone. Cosa assai rara, Miss Pony e Suor Maria racchiudevano mirabilmente e congiuntamente entrambe queste doti.
    Certo, osservandole a distanza di quasi trent’anni dal giorno in cui si erano pioneristicamente trasferite in quell’angolo di mondo, assumendosi quasi da sole l’onere di ristrutturare un edificio diroccato, con il solo aiuto di pochi benefattori che avevano offerto denaro o il lavoro delle proprie braccia, a seconda delle rispettive possibilità, si sarebbero potute notare le rughe che avevano cominciato a segnare in piccoli raggi gli angoli degli occhi di suor Maria, e un appesantimento della corporatura e dell’andatura in Miss Pony. Ma il fuoco energico nello sguardo della prima e la saggezza che nasceva dalla profonda fede della seconda erano esattamente gli stessi che avevano guidato i loro passi per tutta la loro vita.
    In una radiosa tarda mattinata di quella scintillante primavera carica di promesse, le due amiche erano sedute su un paio di poltroncine sul prato antistante la casa, rammendando abiti di ogni foggia e dimensione, mentre con un occhio seguivano lo sciamare indaffarato dei bambini e con l’altro la strada che si inerpicava fino al prato della casa di Pony, in ansiosa attesa di vedervi comparire la tanto amata figura della loro bambina, di ritorno da New York e da quella dolorosa fase della sua vita ormai conclusa.
    Finalmente la videro, mentre scendeva da una Ford rossa con la quale doveva aver compiuto (apparentemente senza accumulare un grammo di fatica) tutta la strada fin da New York. Miss Pony e Suor Maria non riuscivano a credere ai propri occhi: niente poteva essere più lontano dall’immagine della malinconica e desolata Candy che le aveva lasciate quattro mesi prima: che fine aveva fatto la determinata ma malinconica ragazza che cercava di farsi e di trasmettere coraggio, sfoggiando un sorriso che però non arrivava oltre le labbra per coinvolgere occhi e cuore? Al suo posto, sulla collina di Pony era tornata quella radiosa forza della natura che, prima ancora che l’auto si fosse fermata alla fine del vialetto, stava già volando sull’erba e tra le loro braccia. Il cappello bianco e blu, in tinta con l’abito in varie tonalità di azzurro che le svolazzava intorno, sfuggì dal suo capo nella corsa e Candy tornò di nuovo ad essere la bambina di dodici anni piena di vita e di speranza che correva felice tra le braccia delle due persone che amava di più al mondo.
    Apparentemente, quella che tornava alla casa di Pony dopo un’assenza di qualche mese, era la stessa Candy di sempre: i capelli color del grano lasciati liberi di crescere, stavano di nuovo allungandosi ben oltre le sue spalle, e si dipanavano in morbide e di nuovo lucenti onde ai lati del viso, con una riga laterale a dividerli e a mostrare la fronte spaziosa, finalmente libera da quella ruga di perenne malinconia che negli ultimi anni se ne era impadronita. Il colorito era tornato roseo e delicato e le occhiaie, che le due donne sapevano essere frutto tanto delle frequenti notti insonni, quanto della enorme mole di lavoro alla casa di Pony e presso la clinica del dottor Martin, cui la ragazza si era dedicata con tutta sé stessa al solo scopo di trovare l’oblio ai tormenti del proprio cuore, erano completamente scomparse, riconsegnando alle sue deliziose e dorate efelidi lo scettro di regine incontrastate di quel volto tornato a risplendere. Ma la più stupefacente trasformazione era avvenuta negli occhi, il cui riflesso di smeraldo si era arricchito di milioni di pagliuzze dorate, ciascuna delle quali corrispondeva a una porzione della felicità ritrovata accanto all’uomo che amava con tutto il suo cuore.
    Terence rimase discretamente indietro, abbeverando gli occhi e il cuore con quell’immagine che tante volte aveva cercato di evocare nella sua mente, mettendo insieme le tessere di un mosaico che aveva fino ad allora potuto contemplare solo separatamente: la sua Tuttelentiggini da un lato e le due mamme e la casa di Pony dall’altro. Finalmente i pezzi si ricomponevano e il giovane non poteva che sorridere, felice di constatare che, come da lui supposto, quei due quadri insieme ne formavano uno solo, perfetto nella sua completezza. Adesso che vedeva Candy nella cornice di quello scenario inconfondibile, fedelmente rappresentato nel quadro di Slim appeso al posto d’onore sopra il camino del suo appartamento di New York, capiva come lei e quei luoghi fossero una cosa sola, incompleti e svuotati del loro pieno significato l’una senza gli altri.
    L’argentina risata di felicità di Candy risuonò nelle vallate, accompagnata dalla sua voce commossa mentre gridava:
    - Miss Pony, suor Maria! – e già volava tra le loro braccia, accoglienti come il calore della fiamma di un camino al rientro da una passeggiata nella pioggia.
    - Candy!
    Le tre donne ridevano, piangevano, si abbracciavano e si baciavano contemporaneamente, come se non si vedessero da una vita, anziché da pochi mesi, sotto lo sguardo carico di affetto di Terence, il quale le guardava da lontano appoggiato al paraurti della sua auto, a braccia e gambe incrociate sotto il brillante riflesso del sole dell’Indiana che creava un alone di luce attorno a lui, quasi stesse contemplando uno dei suoi amati quadri di Monet o di Van Gogh al Metropolitan Museum.
    In quel momento Terence desiderò ardentemente possedere il talento di Slim, per poter fermare sulla tela quell’immagine delicata e incantevole, che comunque sarebbe per sempre rimasta indelebilmente scolpita nella sua mente.
    Lui stesso non si rendeva conto di essere parte perfettamente integrata in quel bucolico contesto, smessi gli abiti più eleganti della metropoli per indossare in perfetto stile casual un paio di pantaloni grigi e una maglia di cotone color bordeaux sopra la camicia, il candore del cui colletto era spezzato dalle ciocche color mogano, in quel momento lievemente mosse dalla brezza di campagna.
    All’improvviso, la silente e quieta ammirazione nella quale stava godendo dello spettacolo parimenti offerto dalla natura e dalle tre donne di fronte a lui fu interrotta da urla scomposte e concitate sempre più vicine, simili al rombo di una valanga, tanto più minacciosa quanto più pareva precipitare incontrollabile verso di lui. La terra tremò come sotto l’aggressione di una mandria impazzita di bufali, mentre una terrificante torma di bambini di tutte le età e misure si avventava nella sua direzione urlando:
    - Il capo! Il capo! È tornato il capo!!!!!!
    Terence, terrorizzato, non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo, né di dare seguito al proprio subitaneo proposito di gettarsi sotto l’auto per proteggersi da quella improvvisa aggressione, che già una ventina di bambini e ragazzi lo avevano superato, senza curarsi minimamente della sua presenza, ed erano piombati sul trio di donne, saltellando e danzando intorno a loro, tirando la gonna di Candy e cercando di trascinarla ciascuno dalla propria parte, mentre lei, per niente inquietata da tale putiferio, rideva felice sotto il fuoco di fila di domande e urla sovrapposte:
    - Capo! Sei tornata!
    - Ti fermi con noi, stavolta?
    - Dov’è il tuo fidanciato?
    - Capo, hai visto il mio nuovo nastro rosso?
    - Ci hai portato dei regali?
    - Capo, la casa sull’albero è stata distrutta dalla neve, quest’inverno!
    - Lo sai? Lottie è stata adottata!
    - Miss Pony, devo fare la pipì...
    La perplessità di Terence, che faceva da perfetto contraltare all’assoluta seraficità con cui Miss Pony e Suor Maria avevano accolto quell’apocalisse, si mutò improvvisamente in puro sconcerto, regalando alle sue labbra carnose e aristocratiche la forma di un ovale perfetto, allorché vide la sua bellissima principessa, il suo angelo, portare alla bocca il pollice e l’indice della mano destra e, con tutto il fiato che aveva in corpo, emettere un suono che non avrebbe avuto nulla da invidiare a quello del fischietto del più navigato commodoro della Marina statunitense. Come se ciò non bastasse, a quel suono impressionante che aveva provocato a malapena un sorriso di indulgente approvazione nelle due mamme di Candy, il gruppo scomposto di bambini, fino a quel momento freneticamente agitati in un’ingovernabile entropia, sembrò improvvisamente farsi possedere dagli spiriti di alcuni soldati ben addestrati dell’esercito prussiano. Nell’arco di pochi secondi si ritrovarono tutti allineati in ordine perfettamente crescente d’altezza di fronte al loro capo, in un silenzio tale che si poteva sentire urlare il suono dello stupore di Terence.
    - AT-TENTI!
    Nell’aria si udiva solo il frinire delle cicale.
    - Ottimo, ragazzi! – approvò Candy, passando in rassegna le truppe con l’unica variante di un paio di scarpette a punta bianche al posto dei lucidi stivaloni di una divisa da feldmaresciallo, che in quel momento meglio le si sarebbe adattata – vi trovo molto bene. Lizzie, come va il tuo ginocchio?
    La bambina di sette anni sollevò la veste rosa per mostrare orgogliosamente un ginocchio che, a quanto Terence poté arguire dalla distanza da cui osservava il gruppo allungando il collo (distanza che comunque, in via precauzionale, non aveva alcuna intenzione di ridurre) esibiva una piccola cicatrice rosata proprio sotto la rotula.
    - Bene, capo! Guarita, niente più fasciature!
    Candy accolse quella spiegazione con un sorriso e un affettuoso buffetto sulla guancia alla bambina, estasiata da tanta attenzione, e passò oltre:
    - Carter, avete già iniziato a ricostruire la casa sull’albero? – chiese quindi al primo ragazzo della fila, un ragazzino sui dodici anni che sembrava essere il più grande della truppa.
    - Sì, capo! Entro la fine della settimana dovremmo essere a posto! – rispose lui, orgoglioso di poter sfoggiare tale efficienza in un processo tanto complesso e impegnativo.
    - Molto bene!
    Terence si annotò mentalmente di suggerire a Candy di cedere il comando del gruppo a Carter, quando si fossero trasferiti a New York: quel ragazzo sembrava possedere la stoffa giusta per entrare nel suo succession plan...
    - Quanto alle altre questioni in sospeso.... – continuò Candy, facendo una pausa a effetto che fece restare tutto il gruppo, compreso Terence al riparo nel suo cantuccio, col fiato sospeso – sia il mio fidanzato che i regali che vi ha portato sono laggiù che vi aspettano!
    Candy concluse con un sorriso indicando con la mano il punto in cui Terence, ancora a distanza di sicurezza presso la Ford T rossa (reputando opportuno tenersi a portata di mano una via di fuga, nel caso in cui la situazione fosse precipitata) strabuzzò gli occhi, comprendendo che la frase di Candy aveva avuto il significato di un “rompete le righe” per quelle imprevedibili creature. Le quali, smessi repentinamente i panni dei soldati prussiani, si trasformarono di nuovo nell’orda barbarica di pochi minuti prima per correre tutti insieme verso di lui, compresa la piccola Britney, completamente dimentica di dover fare pipì.
    Anni e anni sui palcoscenici più impegnativi non erano però trascorsi invano per il giovane il quale, sotto lo sguardo esilarato di Candy e quello vagamente compassionevole di Miss Pony e Suor Maria, sfoggiò prontamente una sicurezza degna di Benedick, quanto mai lontana dal suo reale stato d’animo del momento, preparandosi ad accogliere l’ondata.
    Nel giro di pochissimi secondi toccò a Terence trovarsi al centro della stessa baraonda di poco prima ma, contrariamente ai suoi foschi timori, non trovò la cosa minimamente spaventosa. Si scoprì invece deliziosamente divertito a distribuire i pacchi dono, che Candy aveva acquistato ciascuno con un significato speciale specifico per il suo destinatario, a stringere la mano a Carter, a rispondere a dettagliatissime domande tecniche di un vispo bambino sui nove anni con i capelli color delle carote che sembrava saper tutto di motori e gli chiedeva specifiche sulla cilindrata della sua automobile e la capienza del serbatoio, e a chinarsi verso la piccola Britney che, col pollice in bocca, gli tirava i pantaloni per segnalargli che il bisogno impellente di poco prima in effetti era tornato a farsi sentire.
    Si voltò con gli occhi blu vagamente interdetti verso Candy la quale, sorridendo e strizzandogli un occhio, gli confermò silenziosamente con il solo movimento delle labbra e alzando un pollice che se la stava cavando benissimo, prima di voltarsi e dirigersi verso l’interno della casa sottobraccio a Miss Pony e Suor Maria, lasciandolo totalmente in balia di se stesso, dei bambini della casa di Pony e delle sue doti di improvvisazione.
    - Candy, bambina mia, lasciati guardare... sei radiosa! – esclamò Miss Pony, fermandosi a guardare la ragazza non appena furono entrate in casa.
    Candy sorrise e, con un tono di voce che esprimeva la pienezza dei sentimenti che la animavano, rispose:
    - Miss Pony, sono così felice che penso che potrei scoppiare... così felice che ho paura! Non credo che nessuno abbia diritto ad essere felice come lo sono io in questo momento.
    - Per l’amor del cielo, Candy, smettila di dire sciocchezze! – intervenne col consueto tono sbrigativo Suor Maria – non riesco a immaginare nessun’altra persona che abbia diritto alla felicità più di te e di quel ragazzo che hai così crudelmente lasciato solo coi bambini, là fuori.
    Le tre donne si voltarono verso la finestra e Candy poté bearsi della vista appagante del suo splendido uomo alla guida della Ford T, stracolma di bambini urlanti di gioia ammonticchiati l’uno sopra l’altro e con la piccola Britney sulle ginocchia, intento a portarli in giro tra i vialetti intorno alla casa di Pony, provocando loro un’estasi di felicità senza confini. Li aveva completamente conquistati! Ma la cosa più stupefacente, che allargò il cuore di Candy, riscaldandolo come una colata di caramello fuso che lo avvolse con la sua dolce morbidezza, fu vedere lo sguardo luminoso di Terence e il suo splendido sorriso in mezzo alla baraonda. Non solo i suoi timori di poco prima erano scomparsi, ma lo vedeva completamente e sinceramente a proprio agio con loro. Terence era entrato nel suo quadro e vi si era inserito alla perfezione conferendogli, anzi, ancora maggiore valore e rendendolo inestimabile, esattamente come lei sapeva che sarebbe successo.
    Quando i bambini furono finalmente sazi di girare in macchina e mandati a fare merenda in cucina sotto la supervisione di Carter, Miss Pony e Suor Maria poterono finalmente dare il benvenuto nella loro famiglia a quell’uomo che era diventato la splendida e perfetta proiezione dell’aristocratico e gentile diciassettenne che tanti anni prima, sotto una tormenta di neve, avevano sorpreso immobile a fissare la loro casa, come se cercasse di imprimersi nella memoria ogni più piccolo dettaglio per portare quell’immagine via con sé, o forse per sovrapporla e farla combaciare con un’altra immagine già presente in qualche modo nella propria mente.
    Ciò che già allora le aveva colpite era stata la profonda e sincera gentilezza del suo sguardo incredibilmente blu, mescolata a una tristezza trattenuta ma chiaramente visibile al loro occhio allenato da anni di sensibilità verso ogni mutamento di umore di centinaia di bambini. E poi c’era stata quella tenerezza palpabile, seppure non espressa a parole ma solo con pochi gesti che sarebbero sfuggiti a osservatrici meno attente di Miss Pony e Suor Maria. Come un lieve tremito della mano che stringeva la tazza piena di cioccolata bollente quando il nome di Candy veniva pronunciato, oppure la tonalità della sua voce incredibilmente vellutata che si riscaldava improvvisamente ancor di più nel raccontare loro di come aveva conosciuto la loro bambina in collegio. E lo stesso sguardo caldo e appassionato che illuminava ancora i lineamenti perfetti di quel giovane fattosi uomo, dopo tutto quel tempo, ma con una nota di tristezza in meno.
    Terence assicurò il rispetto delle convenzioni senza pensarci due volte e anticipando anzi le due donne, non desiderando in alcun modo turbare o creare ansia a Miss Pony e Suor Maria. Aveva infatti convenuto con Candy che non sarebbe stato alloggiato per la notte alla casa di Pony, ma avrebbe trovato una ottimale sistemazione per il periodo che li separava dalle nozze presso l’appartamento del dottor Martin, sopra la clinica Felice di La Porte, visto che il medico si era nel frattempo trasferito come “pensionante” in casa dell’infermiera che aveva sostituito Candy, Mrs. Ridgeway. Da lì, in poco meno di mezz’ora, Terence poteva compiere in macchina ogni giorno la distanza che lo separava dalla casa di Pony, per condividere con Candy le giornate e giocare con i bambini che lo avevano eletto a loro nuovo eroe, giunto su una Ford T decappottabile anziché su un cavallo bianco. E soprattutto passando il tempo a contare i giorni, le ore e i minuti che mancavano ancora al momento in cui anche quelle brevi separazioni sarebbero cessate ed egli avrebbe potuto vedere il volto sorridente del suo angelo biondo come ultima immagine prima di addormentarsi e i suoi occhi verdi come prima cosa al mattino.... per non parlare di tutto ciò che vi sarebbe stato in mezzo, sul cui pensiero Terence indugiava con desiderio sempre crescente, alimentandolo con i baci sempre più voraci e pieni di desiderio che la coppia si scambiava ogni volta che le circostanze lo consentivano.
    Candy non si sottraeva di certo a quel delizioso gioco sul filo del rasoio della loro passione, anzi, aveva rapidamente imparato a giocarlo fin da quel primo slancio, inaspettato in primis per lei, sui gradini di casa Roosevelt. Se il matrimonio non fosse stato così prossimo, la ragazza pensava che avrebbe fatto molta fatica a restare fedele ai propri principi e valori e probabilmente sarebbe stata lei, e non Terence che la rispettava totalmente, a non riuscire più a contenere il fuoco rovente che le trasformava il sangue in lava e le faceva totalmente perdere il senso della realtà quando lui solo la sfiorava con quello sguardo penetrante come una lama, dal quale si sentiva posseduta prima ancora che le sue dita affusolate le sfiorassero una guancia, nella più sensuale delle carezze.
    Terence scoprì ogni giorno qualcosa di più della sua Candy: scorci del suo mondo che aveva sempre solo sfiorato attraverso i suoi racconti londinesi e che adesso acquisivano i colori vividi della realtà e delle sensazioni, arricchendo di nuove pennellate il ritratto complessivo della donna che amava, incompleto fino al momento in cui aveva preso finalmente contatto con quel passato che per lei significava tanto.
    Inoltre, già il giorno del loro arrivo alla casa di Pony, Terence aveva conosciuto Tom, tornato dalla guerra col grado di sergente, una maturità nuova nei gesti e nell’espressione e ricordi indelebili degli orrori che aveva vissuto. Nonostante appartenessero a due mondi completamente diversi, i due giovani, come spesso accade agli opposti, si erano incontrati su un terreno comune: la passione per i cavalli. Così, l’unico momento che Terence aveva trascorso lontano dalla sua Candy in quei primi due giorni era stata una cavalcata con il suo nuovo conoscente tra le praterie dell’Indiana, che stava imparando ad amare e apprezzare ogni istante di più. Tom era taciturno e riservato quanto lui, e tra i due uomini si era immediatamente stabilito un flusso di comunicazione che andava oltre la conversazione e che li mise perfettamente a proprio agio l’uno in compagnia dell’altro.
    Candy approfittò di quelle ore lontana dal fidanzato per dedicarsi con Miss Pony e Suor Maria a una discussione preliminare su come organizzare la cerimonia e per godere della meravigliosa sensazione data dalla certezza che di lì a breve avrebbe visto ricomparire Terence in groppa a Cleopatra dal fondo del viale, con i capelli agitati dal vento e la pelle lucida di sudore per lo sforzo fisico; si sarebbe fermato davanti a lei e, dopo averle lanciato uno dei suoi sguardi maliziosi e irresistibili per farla rimanere sulla corda ancora qualche istante, si sarebbe chinato, ancora in sella alla candida puledra, per raccogliere con le sue labbra calde e sensuali il bacio che lei gli avrebbe offerto, chinando indietro il capo e sollevandosi verso di lui.
    Un’aura di felicità e d’amore era tornata ad aleggiare attorno a quei pendii, insieme alla brezza che muoveva dolcemente le foglie degli alberi.
    E per Candy era arrivato un altro compleanno...

    [continua]



    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-
     
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    Casa di Pony,
    La Porte, Indiana

    07 maggio 1919


    Quella mattina, Candy saliva il pendio verso la collina di Pony con l’andatura leggera ma sicura di chi aveva già compiuto gli stessi passi milioni di volte. Il sole era particolarmente caldo e brillante: era una di quelle giornate che anticipavano l’estate di almeno un mese, non infrequenti in maggio nelle campagne dell’Indiana. Candy aveva legato i capelli in due basse code che le scendevano ai lati del viso, in una versione più matura dell’acconciatura che era stata solita portare da adolescente, ma alla cui tentazione non aveva resistito quel giorno, tra quelle vallate nelle quali, se non fosse stato per la consapevolezza che entro poche settimane sarebbe diventata la signora Granchester, tornava irrimediabilmente e immancabilmente bambina. Aveva anche riposto nei bauli gli abiti di Washington e New York e appeso con cura nel proprio guardaroba l’abito da sera di Bergdorf Goodman’s che si fermava spesso a contemplare in silenzio, passando la mano delicatamente sul morbido tessuto e benedicendo con un sorriso estatico Mrs. Hungtington, al pensiero della notte in cui lo aveva indossato.
    Aveva invece rispolverato la vecchia salopette di jeans e la camicia rossa, compagne di mille avventure e molto più adatte a quei luoghi delle scarpette a punta e degli impalpabili chiffon ai quali si era adeguata ma non si sarebbe mai affezionata. Annie, che era andata a trovarla il giorno stesso del suo ritorno alla casa di Pony, aveva presto capito che, se quei mesi appena trascorsi avevano riportato il sorriso e la felicità sul viso di Candy, non erano serviti a modificare le sue abitudini in fatto di abbigliamento e aveva dovuto fare improbi sforzi per convincerla a raggiungerla a Chicago ed a recarsi insieme nel più importante atelier di moda della città per scegliere il vestito per il matrimonio (il fatto che a poche settimane dalle nozze Candy non avesse ancora un abito da sposa le provocava raccapriccio e le toglieva il sonno dal giorno in cui aveva ricevuto il telegramma di Patty). Alla fine, Candy si era decisa solo di fronte al ricatto morale biecamente messo in atto dall’amica, la quale le aveva fatto notare con uno sguardo tagliente che Terence era un nobile d’Inghilterra, dopotutto, e che il padre avrebbe partecipato al matrimonio (“No, Candy! Il duca non alloggerà presso la pensione di La Porte dei signori Coutts! Prenoteremo la migliore suite all’hotel La Salle a Chicago, invece!”) e lei di certo non voleva fare sfigurare Terence il giorno del suo matrimonio, non era così?
    Se Candy si fosse confrontata con il suo fidanzato, si sarebbe sentita rispondere con voce noncurante e uno sguardo insinuante a scorrere la sua figura, che se anche avesse indossato un saio francescano il giorno delle nozze, per lui non avrebbe fatto la minima differenza, visto che qualunque indumento avesse indossato non lo avrebbe neanche guardato, per soffermarsi esclusivamente sulla paradisiaca vista del suo contenuto. Per non parlare del fatto che l’idea di mettere in imbarazzo il padre presentandosi all’altare in abiti francescani probabilmente lo divertiva molto di più! Ad ogni modo, Candy non lo aveva consultato e aveva ceduto alle insistenze di Annie. Quindi l’indomani sarebbe andata a Chicago per trovare l’abito da sposa perfetto e quello per le sue due damigelle, non prima di essere andata alla stazione a prendere la seconda, che sarebbe giunta in treno per contribuire a sua volta all’eccitazione di quei giorni. Quello che Candy non spaeva, però, è che Annie da giorni preparava una strategia degna dei più grandi generali del fronte della Somme per fare convergere la decisione della sposa quanto agli abiti delle damigelle su un più appropriato color lavanda, al posto dell’improponibile - per quanto indubbiamente allegro - color limone da lei proposto.
    Quel mattino, però, i preparativi e la loro relativa frenesia erano lontani dalla mente di Candy, che non pensava ad altro che al biglietto che teneva in tasca e che Terence le aveva fatto scivolare in mano la sera prima, congedandosi per tornare a La Porte dopo una meravigliosa serata passata nella grande sala insieme a Candy e a tutti i bambini. Il ragazzo aveva letto per loro una vecchia copia dell’Iliade proveniente dalla biblioteca di Granchester Manor e dalla sua infanzia, durante la quale solo immergendosi nella lettura di quel mondo epico aveva trovato rifugio dal senso di devastante solitudine nel quale era cresciuto. Seduto sul tappeto e circondato da tutti gli ospiti della casa di Pony, sotto lo sguardo amorevole di Miss Pony e suor Maria, impegnate nei loro rammendi poco distanti dal gruppo, Terence aveva interpretato Achille furioso di rabbia per l’onta subita da Agamennone; Ettore, nello straziante addio alla moglie e al figlio prima di andare incontro a morte certa; Aiace, Odisseo, Menelao e Paride ma anche Zeus, Poseidone e Ares erano volati dalla spianata di Troia e dalla vetta dell’Olimpo fino in quella sala caldamente e intimamente illuminata da lanterne a gas, dove le mille sfumature modulate dalla voce del grande attore shakespeariano avevano tenuto avvinti tutti i bambini della casa di Pony nello stesso incantesimo che da anni gettavano sul pubblico di Broadway. Alla fine i fanciulli si erano diretti a letto in fila indiana e in assoluto silenzio, ancora immersi nel mondo magico che Terence aveva evocato per loro, tra lo stupore denso di meraviglia di Miss Pony e Suor Maria, abituate a guerre di cuscini e capricci senza fine ogni volta che arrivava l’ora di ritirarsi per la notte.
    Poi, davanti alla soglia di casa per prendere congedo, Terence si era chinato su Candy, avvolta insieme a lui dall’argentea luce della luna, che in aperta campagna conferiva a ogni cosa quell’affascinante e magico riflesso perlaceo la cui piena purezza sarebbe sempre stata negata ai paesaggi cittadini. La sua bocca aveva sfiorato quella di Candy con una carezza languida e sensuale. Sebbene in quella settimana le loro labbra avessero fatto l’abitudine le une all’insaziabile ricerca delle altre, gli stessi brividi e la stessa eccitazione si scatenavano immancabilmente in Candy un istante prima di avvertirne l’agognato calore su di sé.
    Il desiderio, lungi dall’essersi saziato dei baci con i quali i due giovani avevano alacremente recuperato il tempo perduto, cresceva di intensità giorno dopo giorno e bacio dopo bacio, reclamando il tanto sospirato totale appagamento. Tuttavia, la consapevolezza che si stavano avvicinando rapidamente al momento di dare libero sfogo alla passione reciproca tanto a lungo repressa, rendeva quasi gradevole quella altrimenti esasperante attesa. Le loro mani e i loro corpi ingannavano l’attesa dando sfogo all’euforia che li attraversava, in uno sfiorarsi dei corpi sempre più audace e prolungato.
    Quella sera le dita di Candy erano salite con lo stesso tocco lieve di una piuma su per le braccia di Terence che le avvolgevano la vita, precedute e seguite da piccoli brividi bollenti sulla pelle di lui. Il ragazzo aveva reagito al suo tocco facendo scivolare le sue braccia un po’ più in basso, stringendo a sé i fianchi e la morbida curva in fondo alla schiena di lei e provocandole un gemito e un languore che rischiò di farle cedere le gambe.
    - Ti voglio come non mai... – le sussurrò rocamente all’orecchio, facendole definitivamente mancare il terreno sotto i piedi e costringendola ad aggrapparsi completamente a lui, le mani ad artigliargli i capelli sulla nuca mentre lui si impadroniva di nuovo della sua bocca e della sua lingua.
    Quando finalmente, mai sazi ma felici, i due giovani si erano separati e il respiro ansante di lei aveva lentamente recuperato un ritmo più normale, Terence le aveva messo in mano un foglio di carta e le aveva detto:
    - A domani, Tuttelentiggini. Leggilo dopo che me ne sarò andato.
    E, senza darle il tempo di replicare, era salito in macchina e si era allontanato sotto i raggi della luna, in un’aura quasi onirica.
    Candy, ormai quasi completamente recuperata la lucidità, aprì il biglietto, composto di poche righe, come nello stile di Terence, e lo lesse sorridendo

    Cara Tuttelentiggini,
    domani verrò un po’ più tardi. Ho delle faccende da sbrigare a La Porte.
    Ti aspetterò sulla collina di Pony a mezzogiorno in punto.
    A domani!
    T.G.
    P.S. Ti amo (impara da me a usare i tempi verbali nei post scriptum...)



    Candy era quasi arrivata in cima alla collina, ma ancora di Terence nessuna traccia. La ragazza si guardò intorno, chiedendosi se quello non potesse essere uno dei soliti scherzi del suo fidanzato e cosa aspettarsi, quando nell’aria cominciò a diffondersi la dolce melodia di un’armonica.
    - Annie Laurie... - mormorò Candy, che aveva riconosciuto la struggente ballata scozzese nell’attimo stesso in cui aveva distinto la prima nota.
    La ragazza, cullata da quella musica così nota e così evocativa dei momenti più felici della sua vita, si voltò a destra e sinistra, cercando di capire dove si fosse nascosto l’autore di quel suono carezzevole e avvolgente, ma Terence sembrava non essere da nessuna parte. Alla fine, decise di godere delle sensazioni che il fluire stesso delle note risvegliava in lei, appoggiandosi al tronco dell’albero a occhi chiusi e abbandonandosi ad esse.
    Quando la magia terminò, lievemente come era iniziata, seguitaa da qualche secondo di un dolce silenzio, come se tutti i suoni della campagna avessero deciso di farsi da parte per lasciare spazio a quella malinconica colonna sonora, fu l’inconfondibile risata di Terence a rompere la magia e, alzando gli occhi verso la cima della grande quercia che da sempre identificava con la figura paterna, Candy lo scorse, plasticamente adagiato su un ramo a circa due metri da lei, una gamba pendente e l’altra allungata davanti a lui, mentre la fissava con gli occhi brillanti, facendo saltellare in una mano l’armonica:
    - Candy, si può sapere perché sei rimasta lì imbambolata? Si direbbe che tu abbia visto un serpente!
    Candy era combattuta tra l’amore che le scoppiava in petto per quell’indisponente ragazzo sopra di lei, al quale bastava suonare una vecchia armonica argentata per farla immediatamente fluttuare nell’aria, e la consueta tentazione di abboccare all’amo che lui le lanciava, rispondendo immediatamente tono su tono alle sue provocazioni. Esattamente come succedeva da sei anni a quella parte, nella dinamica che l’acuto giovane aveva messo in atto fin dal primo giorno per conquistare quella strepitosa ragazza lentigginosa. Dal loro primo incontro sul Mauretania, quella bionda creatura si era insinuata nel suo cuore e nella sua mente così a fondo che, non potendosene più liberare, aveva deciso di farla sua. D’altra parte, aveva immediatamente capito come lei non fosse tipo da crollare di fronte a parole d’amore appassionate, ma che il suo interesse doveva essere risvegliato in qualche altro, più sottile e arguto modo. Con la lucida e profonda intelligenza che lo contraddistingueva, Terence aveva intuito quale potesse essere la chiave di volta, ascoltandola declamare sul ponte del Mauretania la propria accorata arringa in difesa delle proprie efelidi, e così l’aveva incatenata a sé con quelle schermaglie verbali che all’inizio erano state il modo in cui il giovane aveva stimolato la curiosità e il senso di rivalsa di Candy, ma in breve, quando era ormai palese che i due non riuscivano a stare l’uno lontano dall’altra per più di poche ore, si erano trasformate nel catalizzatore della reciproca attrazione.
    Anche allora, sulla collina di Pony, Terence dimostrò di conoscere fin troppo bene la sua donna, e quest’ultima di non essere in grado di resistergli, perché cadde immediatamente nella rete che lui le aveva abilmente teso, esattamente come avrebbe fatto anni prima sulla collina omonima a quella su cui si trovavano adesso, e come Terence si aspettava che avrebbe replicato:
    - No, Terence, ma ho appena visto un mostro!
    A quelle parole il ragazzo con un agile movimento si lasciò cadere dal ramo, atterrando lievemente proprio davanti a lei, e guardandola fissamente le mormorò con una voce vellutata e insinuante, che non aveva assolutamente nessun residuo dell’ironica derisione di poco prima:
    - Ah sì? E non hai paura di questo mostro?
    Prima che Candy potesse solo provare ad abbozzare una risposta nella sua mente improvvisamente fattasi nebulosa, l’aveva presa tra le braccia e, sotto le fronde del grande albero che lasciavano filtrare i caldi raggi del sole in giochi di luce e ombre, al ritmo tremolante delle foglie mosse lievemente dal vento, si impadronì ancora una volta della sua bocca per divorarla.
    La secolare quercia, che l’aveva vista bambina giocare tra i suoi rami, assisteva adesso alla sua felicità di donna, allacciata strettamente con le braccia attorno al collo dell’uomo chino su di lei che la stringeva a sé. Ai consueti suoni della natura sulla collina di Pony si sommò il sensuale suono prodotto dall’incontro delle loro labbra che si muovevano le una sulle altre.
    - No, direi che non hai paura! – confermò Terence quando finalmente decisero di separarsi.
    - Terence, dì un po’: mi hai chiesto di venire fin qui per prenderti gioco di me?
    - No, Tuttelentiggini, quello che volevo prendere l’ho appena preso... – le rispose lui allegro, passandole un dito sulle labbra e facendola rabbrividire di nuovo.
    Com’era possibile che gli bastasse sfiorarla per averla completamente in sua balia, si chiese Candy, non potendo immaginare che era esattamente la stessa domanda che Terence stesso si faceva ogni qual volta si faceva incatenare dallo sguardo verde smeraldo di Candy.
    - Quindi... perché siamo qui? – gli chiese di nuovo lei, allungandosi su di lui per togliere una foglia che gli era rimasta tra i capelli e provocandogli un brivido di desiderio a quel semplice contatto.
    - Ecco... a dire il vero, ti ho chiesto di venire qui perché ho un debito da saldare con te!
    Candy era perplessa. Un debito? E adesso cosa si era inventato quel diabolico ragazzo? Con tutti i sensi all’erta, aspettandosi l’ennesimo scherzo o provocazione, la ragazza lo seguì guardinga con lo sguardo mentre si allontanava di qualche passo per avvicinarsi ad un cespuglio di mirto poco distante, sul quale si chinò per trarne un voluminoso cesto da pic-nic in vimini.
    - Oh Terry! Non posso credere che tu te lo sia ricordato... – gli disse, commossa, portandosi le mani chiuse a pugno davanti alla bocca, in un misto di sorpresa ed eccitazione per quella rivelazione dolcissima.
    - Ricordato? Tesoro, da sei anni aspetto questo momento... ce lo eravamo promessi, no? E un lord inglese non dimentica mai i suoi debiti... è una questione d’onore! – rispose Terence, sorridendole teneramente, felice della felicità che leggeva nei suoi occhi.
    - E poi.... – riprese fissandola intensamente e spostandole una ciocca di riccioli biondi dietro l’orecchio con una tenerezza infinita – dobbiamo festeggiare il tuo compleanno, Tuttelentiggini! Tanti auguri, scimmietta: questo pic-nic è il mio regalo per te!
    Candy lo guardava con amore e commozione. Era la seconda volta che trascorreva con Terence il giorno del suo compleanno, e non faceva fatica a dire quali fossero stati i due compleanni più felici della sua vita. La prima volta lui le aveva dato il suo primo bacio e oggi... oggi era un altro giorno che si preannunciava perfetto!
    Stavolta però non ci sarebbe stato nessuno schiaffo a interrompere la magia, si ripromise Candy, trattenendo una risatina tra sé e sé.
    - Oh, Terry! Grazie! Grazie! Grazie!
    Candy gli gettò le braccia al collo, proprio come una bambina felice, e Terence la strinse a sé, assaporando quel momento perfetto.
    Guardando quelle onde bionde ai due lati del capo e l’abbigliamento sbarazzino che lei sfoggiava quel giorno, e che gli conferivano l’aria di un’adolescente, faticava a credere che la sua Tuttelentiggini avesse ventun’anni, e gli sembrava davvero di essere tornato indietro nel tempo e di trovarsi con lei sulla seconda collina di Pony, a fantasticare liberamente di futuri giorni insieme, che allora sembravano possibili e meravigliosamente reali. Prima che la vita vera con i suoi inganni e le sue giravolte facesse loro dolorosamente comprendere quanto alto fosse il prezzo da pagare per raggiungere quella felicità che allora era sembrata invece così a portata di mano.
    Quando finalmente si decisero a sciogliere quell’abbraccio, sia pur con riluttanza, Terence cominciò a tirare fuori dal cesto una coperta di cotone candida che Candy stese immediatamente sotto di loro; quindi stoviglie, bicchieri e posate furono da lei disposte in bell’ordine. Poi fu il turno delle provviste: un’enorme ciotola di zuppa di pollo, una di insalata di patate, del formaggio e del pane fragrante, frutta in abbondanza e, dulcis in fundo, il tocco che provocò infine l’esondazione delle lacrime di commozione che Candy era fino ad allora riuscita a trattenere: gli inconfondibili marshmallow di Miss Pony.
    - Oh, Terry... non è possibile che tu ti sia ricordato anche di questo! – esclamò lei, in ginocchio sulla coperta, gli occhi lucidi così sgranati dalla felicità da invadere praticamente tutto il suo dolcissimo viso e un’espressione così infantile e dolce che Terence dovette sforzarsi di non prenderla di nuovo tra le sue braccia e cominciare a cullarla come una bambina. Sì, lei era la sua dolce, meravigliosa, forte e allo stesso tempo fragile bambina e lui ne avrebbe avuto cura per sempre!
    - Come avrei potuto dimenticarlo, Tuttelentiggini? Non c’è stato praticamente giorno da quando ci siamo conosciuti che tu non abbia evocato la delizia dei marshmallow di Miss Pony. È giunto il momento di dare il mio parere, e lei è stata così gentile da prepararmeli, ieri, al posto della torta di compleanno!
    - Quindi questo vuol dire che non avrò una torta di compleanno, quest’anno? – chiese Candy, improvvisamente allarmata.
    Terence scoppiò a ridere di puro cuore.
    - Candy sei un’incorreggibile golosa! Può darsi, e sottolineo può darsi, che stasera ci sia una festa di compleanno per te alla casa di Pony. E, anche se non potrei certo giurarlo, non è escluso che Miss Pony in questo momento stia preparando l’impasto per una torta di crema e lamponi...
    Candy batté le mani come una bambina e si passò la lingua attorno alla bocca, pregustando le delizie che la aspettavano a cena e provocando un fremito di eccitazione in Terence con quel gesto apparentemente giocoso ma profondamente sensuale. Quindi, si sporse per posare un veloce bacio sulla punta del naso del ragazzo sorridente di fronte a lei prima di cominciare a dividere le cibarie nei loro piatti. Terence si sfilò il maglione rosso dalla testa e arrotolò le maniche della sua camicia fino a metà avambraccio, distendendosi su un fianco di fronte a lei e rimirandosela in grata contemplazione.
    Mangiarono e chiacchierarono. Risero e si coccolarono teneramente. Terence apprezzò in dovuta misura i dolci della casa di Pony, affermando con sincerità che erano quanto di più buono il suo palato avesse mai provato prima, e Candy lasciò che il suo cuore si riscaldasse alla vista del suo bellissimo ragazzo, rilassato e sorridente disteso di fronte a lei, con i capelli accesi del riflesso cangiante del sole che filtrava tra le foglie e il sottofondo creato dal cinguettio dei passeri che saltellavano sui rami della quercia sopra di loro, lieti della compagnia offerta dai due giovani innamorati.
    Era un momento perfetto. Niente avrebbe potuto migliorarlo.
    Mentre si chinava sopra la tovaglia per raccogliere i piatti e le posate usate, dalla tasca anteriore della salopette di Candy cadde una busta aperta che Terence raccolse, lanciando un’occhiata al mittente prima di restituirgliela.
    - Cookie Portman... chi è Candy? – le chiese incuriosito.
    Quanti personaggi, protagonisti e complementari, c’erano in quella fetta di passato di Candy che non aveva potuto condividere con lei?
    Candy sorrise guardando la lettera che il signor Marsh le aveva portato quella mattina, spedita dal porto di Southampton dal suo vecchio amico, ormai avviato a una brillante carriera nell’equipaggio del capitano Nieven.
    - Sei geloso, mio futuro marito? – gli chiese maliziosamente Candy, annullando carponi la breve distanza che li separava sulla coperta per accoccolarsi al suo fianco nell’incavo del suo braccio, inebriandosi immediatamente del profumo muschiato e fresco della sua pelle.
    Terence si sistemò più comodamente con la schiena appoggiata al tronco del grande albero che li sovrastava, allungando le gambe davanti a sé e stringendo con un braccio Candy, semidistesa con la testa appoggiata al suo petto e le braccia attorno alla sua vita. Non per la prima volta nelle ultime due settimane, il giovane si chiese se esistesse un modo per fermare il tempo.
    - Assolutamente no, scimmietta! Ti ho già dimostrato di saper risolvere in modo semplice e diretto le grane che mi dai con i tuoi molteplici corteggiatori... – le mormorò parlando tra i suoi capelli morbidi e profumati di essenza di rose. Quel profumo era lo stesso che lei portava da sempre, lo collegava alla sua persona fin dal loro primo incontro sul piroscafo.
    - Spero tu non ti stia riferendo ancora a quell’assurda faccenda del duello con Archie... – Candy si interruppe prima di tirarsi su per esclamare, in risposta al silenzio che aveva accolto la sua domanda – Oh mio Dio, Terry, non sarai ancora convinto che Archie avesse un debole per me, spero?
    Terence allungo la mano sul capo di Candy, che lo fissava sbalordita e divertita e la attirò delicatamente di nuovo sul suo petto.
    - Certo che sì, piccola ingenua! - affermò con decisione, fermandosi per baciarle il capo, del cui contatto il suo petto si era sentito acutamente defraudato in quei pochi secondi di distacco – e il fatto che tu realmente non te ne sia mai neanche accorta credo sia stato per lui il vero smacco, addirittura più grave di sapere che non lo ricambiavi.
    - Ter... – cominciò a protestare Candy, prima che lui la interrompesse, chiudendo a modo suo la faccenda:
    - Ma d’altra parte ti capisco, Candy: perché uno dovrebbe accontentarsi di Christopher Marlowe, quando ha la fortuna di avere accanto Shakespeare in persona?
    Candy non sapeva se scoppiare a ridere o prendere a schiaffi quell’impudente, esasperante, insopportabile, amatissimo viso, sul quale poteva intuire il baluginio che in quel momento gli accendeva gli occhi, senza bisogno di fissarlo direttamente.
    - Terence Graham Granchester, sei in assoluto il più presuntuoso e arrogante essere umano con il quale abbia avuto a che fare nella mia vita! Non capisco proprio cosa io abbia potuto trovare in te, per accettare di sposarti! – sbuffò Candy e, mentre pronunciava quelle parole, alla sua mente si affacciarono contemporaneamente almeno un migliaio di risposte alla domanda che aveva appena formulato.
    Terence ghignò, soddisfatto di aver provocato ancora una volta, la reazione desiderata.
    - Riprenderemo questo discorso tra poco, Candy – le disse quindi – ma ti rammento che stai eludendo la mia domanda: chi è Cookie?
    - È un mio vecchio amico inglese, Terry. L’ho conosciuto durante il viaggio di ritorno dall’Inghilterra – rispose Candy, accoccolandosi ancora più stretta a lui, rievocando i giorni del suo viaggio clandestino sulla nave del capitano Nieven e stupendosi lei per prima, come ogni volta che ripensava a quei giorni, all’incoscienza che aveva dimostrato nell’affrontare da sola e senza mezzi quel viaggio infinito, senza nessuna certezza se non la propria determinazione nel voler tornare su quella collina dove ora stava distesa tra le braccia dell’uomo che amava. E il cui pensiero, allora, le aveva dato la forza di compiere quella lunga traversata.
    Lentamente, cullando entrambi con il flusso delle parole generate dall’onda dei suoi ricordi, Candy narrò a Terence, che non smetteva di accarezzarle i capelli senza perdersi nessun frammento del suo racconto, come avesse lasciato il collegio, finendo in casa della famiglia Carson. Di Sam, Jeff e Susie. Del signor Jaskin. E di Cookie.
    - Lo hai conosciuto anche tu, sai? È il ragazzo cui hai insegnato a suonare l’armonica nel porto di Southampton, mentre aspettavi di imbarcarti per gli Stati Uniti.
    - Quel Cookie? Non posso crederci, Candy. È davvero incredibile come i fili del destino si intreccino attorno a noi…
    Candy sospirò e poi proseguì il suo racconto
    Venne il turno di narrare dell’imbarco clandestino sulla Seagull e di come fossero stati fortunati a trovare una persona eccezionale come il capitano Nieven che, invece di rispedirli a Southampton come avrebbe fatto chiunque altro al suo posto, aveva consentito loro di continuare il viaggio fino negli Stati Uniti per poi prendere Cookie sotto la sua ala, aiutandolo a realizzare il sogno di diventare marinaio.
    Quando il racconto terminò, un attimo prima che la storia del suo viaggio di ritorno dall’Inghilterra confluisse in quella dolorosa e già più volte rievocata del loro ennesimo incontro mancato sulla collina di Pony, il silenzio calò sui due innamorati. Le risate che avevano accompagnato il racconto di Candy fino al momento in cui aveva narrato del suo arrivo al porto di Southampton si trasformarono in un silenzio assorto, mentre lei raccontava di come si fosse completamente affidata a un gruppo di sconosciuti marinai, che per fortuna si erano dimostrate persone di buon cuore e onesti padri di famiglia, ma che avrebbero con la stessa facilità potuto essere dei bruti pericolosi. Il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere alla sua Candy in quelle circostanze fece fremere Terence di paura e rabbia represse.
    Quando poi lei descrisse il suo imbarco sulla nave merci, chiusa dentro una cassa buia e poco ventilata che, se fosse finita al posto sbagliato nella stiva, si sarebbe potuta trasformare facilmente in una prigione mortale, Terence rabbrividì intensamente e fece fatica a trattenere la sua reazione fino alla fine del racconto della ragazza che, lieve e serena come sempre sapeva essere, terminò la narrazione con quella fiducia per il modo intero che non avrebbe mai smesso di divertirlo o, come in quel caso, esasperarlo. Possibile che davvero Candy ancora a distanza di tutto quel tempo, e fattasi donna, non si fosse ancora resa conto dei gravissimi pericoli ai quali era andata incontro, quindicenne ingenua e indifesa in giro per i porti di due continenti, e per di più viaggiando clandestinamente?
    Terence si mise a sedere in posizione più eretta e, voltandosi verso la ragazza ancora languidamente avvolta attorno al suo fianco, le pose due mani sulle spalle per scostarla lievemente da sé e fissarla dritto negli occhi, con i suoi che fiammeggiavano lampi blu cobalto.
    - Candy, ti rendi conto del pericolo che hai corso? Hai un’idea di quanto tu sia stata incosciente? – le chiese quindi, con la voce fremente di rabbia. L’idea dei rischi corsi da Candy era intollerabile.
    - Io... certo! Ma non avevo altra scelta, allora. La mia priorità era tornare in America, qui alla casa di Pony – rispose lei, arrossendo in pari misura per l’agitazione provocatale dalle parole di Terence e per il disagio, perché in realtà lui stava dando voce alla sua stessa autocritica circa l’irrazionalità di quelle scelte.
    - Allora ti sei comportata anche da bambina capricciosa oltre che da incosciente, Candy. Avevi altre opzioni! Potevi scrivere allo zio William che di certo avrebbe preferito metterti su un piroscafo insieme a George, piuttosto che saperti a zonzo per il porto di Southampton in cerca di un imbarco clandestino tra ubriachi e malfattori! – rispose Terence alzando la voce, mentre la sua rabbia montava.
    - Certo, come no! Peccato che lo zio William in quel momento fosse in Africa, tra gazzelle e zebre! – rispose Candy, alzando a sua volta di più ottave la voce, non volendo cedere un punto nel quale in realtà non credeva totalmente neanche lei, ma non intendendo piegarsi. Lei stessa si rendeva conto dell’incoerenza di quella risposta, visto che allora lei non sapeva assolutamente che Albert e lo zio William fossero la stessa persona.
    Invece di percorrere la strada fin troppo facile di metterla di fronte alle contraddizioni del suo ragionamento, Terence la incalzò implacabile e sempre più nervoso:
    - E che mi dici di Miss Pony e Suor Maria? Di quel damerino di tuo cugino e delle tue amiche? Ma è possibile che tu non abbia pensato per un solo attimo alla preoccupazione che avresti dato a tutte le persone che ti volevano bene e al dolore che avrebbero provato tutti se ti fosse successo qualcosa? – In quel “tutti” Terence stava gridando a Candy il suo nome.
    Quella ragazza che lo aveva stregato con i suoi occhi da gatta doveva rendersi conto che lui poteva anche sopravvivere, come aveva fatto, in un mondo in cui fosse stato separato da lei, ma con una speranza di saperla felice. Ma non in un mondo in cui le fosse successo qualcosa di terribile.
    Candy era attonita per la preoccupazione e il terrore che vedeva fiammeggiare nei suoi occhi, addirittura a coprirne la rabbia, che la indussero ad abbassare i toni e a sussurrare con un tono adesso affranto:
    - Possibile che tu non capisca, Terence? Io volevo solo annullare l’oceano che ci separava, proprio come avevo deciso sulla banchina di Southampton mentre la tua nave si allontanava nella nebbia!
    Il ricordo di quello che era successo quella notte, della corsa disperata di Candy per raggiungerlo e della sua disperazione nello scoprire di essere arrivata troppo tardi acuirono la furia e il senso di colpa di Terence, ma contribuirono a indirizzarli verso altri soggetti. Se solo non avesse lasciato la St Paul School in quel modo; se avesse avuto il fegato di portarla via con lui, pur essendo entrambi praticamente adolescenti; se avesse fatto di più per proteggerla dall’odio dei Legan in collegio; se... se... se...! Il loro passato era pieno dei “se” che avrebbero potuto dare delle direzioni alla loro vita e invece li avevano spinti lontano l’uno dall’altra, costretti ad affrontare separazioni strazianti e pericoli inimmaginabili, come quelli che Candy aveva scansato miracolosamente nel suo viaggio verso l’America.
    All’improvviso la tristezza prese il posto della rabbia. Terence strinse Candy tra le sue braccia, così forte da farle male, come se volesse tenerla al sicuro con sé per l’eternità, laddove nessuno avrebbe mai più potuto farle alcun male.
    Candy lo strinse a sua volta, consapevole che il suo Terence in quel momento aveva altrettanto bisogno di essere rassicurato che di rassicurare; di sapere che non si sarebbero mai più dovuti separare nè affrontare oceani e Susanne Marlowe da soli, senza il calore e il conforto l’uno dell’altra.
    Silenziosamente stretti l’uno contro l’altra, guancia a guancia, Candy lasciò che il battito del suo cuore, esattamente sopra quello di lui, gli desse il conforto che in quel momento le parole non erano sufficienti a dare.
    Dopo un lungo silenzio, Terence parve tornare quello di pochi minuti prima, in una delle sue giravolte umorali così caratteristiche ma dalle quali Candy non sarebbe mai riuscita a non farsi cogliere di sorpresa, e le disse con lo stesso tono che aveva preceduto il racconto delle sue avventure da clandestina:
    - Dunque, Candy, c’è anche un’altra questione che abbiamo lasciato in sospeso oggi…
    Candy, ancora una volta non riusciva a capire a cosa volesse alludere e aspettò in silenzio la spiegazione che non sarebbe tardata. Infatti lui continuò subito:
    - In effetti, Tuttelentiggini, prima dicevi che non capisci cosa ti abbia spinto ad accettare di sposarmi!
    - Lo credo bene, Terry, sei esasperante! Quando imparerai che il mio nome è Candy Andrew?
    - Ho fatto bene a non impararlo in tutti questi anni, direi… a breve diventerai Candy Granchester, scimmietta!
    Candy rabbrividì… si soffermò con la mente sui cambiamenti che il matrimonio con Terence avrebbe portato nella sua vita di lì a pochi giorni e di cui il nome era solo il primo: si sarebbe trasferita a New York e avrebbe iniziato a lavorare come direttore del personale presso il Roosevelt Children’s Asylum (sarebbe diventata il capo di Flanny, rifletté con un sorriso divertito…). Avrebbe vissuto a circa venti ore di treno dalla casa di Pony e da Chicago, dove c’erano tutti i suoi affetti più cari. Ovviamente non aveva avuto neanche un attimo di esitazione, ma era inevitabile che un velo di malinconia scendesse sul verde dei suoi occhi ogni volta che ci pensava.
    Terence percepì lo stato d’animo di Candy, leggendole dentro come sempre con estrema facilità. Si posizionò esattamente di fronte a lei, adesso erano seduti ciascuno sulle proprie ginocchia che sfioravano quelle dell’altro, fissandosi intensamente.
    - Rimpianti? – le chiese quindi con voce tenera e profonda, trattenendo il respiro in attesa della sua risposta.
    L’idea di causarle qualsiasi piccolo o grande dolore gli era insopportabile e, adesso che l’aveva vista nei luoghi ai quali apparteneva, con le persone che amava e che la amavano, capiva il profondo legame che Candy stava per spezzare per amor suo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lenire la sua malinconia.
    Candy non fece quello che una donna meno innamorata e rispettosa del suo uomo avrebbe fatto, rispondendogli d’impeto: “Certo che no!” e nascondendo i suoi reali sentimenti. Si prese quindi il tempo per riflettere sulla domanda di Terence, anche come giusto tributo al passato tanto felice che la legava alla casa di Pony.
    Dopo alcuni secondi che a Terence parvero infiniti, Candy levò lo sguardo del suo più splendente verde sugli zaffiri che la scrutavano con preoccupazione e aprì il viso al più dolce dei sorrisi, il cui calore avvolse il cuore di Terence, come un balsamo miracoloso.
    - No, Terence! Non potrei, né mai avrò alcun rimpianto nella nostra vita insieme. Rimorsi sicuramente sì, perché so già che ci saranno volte in cui mi farai talmente arrabbiare che ti dirò cose di cui poi mi pentirò! – Terence fece un ghigno sardonico e Candy lo guardò in tralice prima di proseguire, tornando seria – Ma gli unici rimpianti che ho riguardo a noi due sono nel passato, per quello che avrei potuto fare e non ho fatto, che forse avrebbe dato una direzione meno dolorosa alle nostre vite. Mi dispiace non essermi guardata di più le spalle da Iriza e da suo fratello alla St. Paul School e di essermi per questo fatta rubare dalle loro diaboliche macchinazioni altri preziosi mesi con te a Londra. Ma forse se tu non fossi stato costretto a lasciarmi così repentinamente, io non mi sarei scontrata faccia a faccia con i miei sentimenti per te e avrei impiegato ancora chissà quanto tempo a realizzarli. Mi dispiace non aver capito subito di che stoffa era fatta Susanna, quando la vidi quella sera a Chicago e mi feci umiliare da lei, dandole il potere di farmi sentire totalmente inadeguata. Ho l’enorme rimpianto di avere preso la decisione più importante della mia vita su quelle scale senza darti modo di condividerla con me, anche se onestamente non credo che in quel momento avessimo alternative… Questi sono i miei rimpianti, Terence. Amo questi luoghi, lascio una parte del mio cuore alla casa di Pony e a Lakewood, anche se adesso è perduta. Ma si tratta solo di un deposito, amore, perché il mio cuore appartiene interamente e completamente a te, fin da quella notte sul Mauretania!
    Candy aveva parlato senza alcuna nota di esitazione, con una certezza serena e incrollabile che sgretolò ogni insicurezza dell’uomo di fronte a lei. Terence finalmente lasciò cadere le ultime paure che, striscianti ma difficili da estirpare, avevano continuato a pungolarlo da quando aveva ritrovato il suo amore. Adesso potevano andare incontro al loro futuro insieme, quel futuro che, come Candy stessa aveva appena detto, era iniziato proprio la notte di capodanno del 1913, in mezzo alla gelida nebbia dell’Oceano Atlantico.
    Terence le accarezzò una guancia, commosso da quella ennesima e toccante dichiarazione d’amore.
    - Candy, neanche in tutta la mia vita, neanche se potessi vivere mille vite, riuscirei ad esprimerti pienamente l’amore che provo per te! – le sussurrò.
    Candy si appoggiò lievemente con la guancia alla sua mano, sorridendogli.
    - E questo mi ricorda il secondo motivo per cui ti ho chiesto di salire qui oggi, Tuttelentiggini! – esclamò poi lui, quando si fu saziato, ma solo per il momento, di tenerla incatenata ai suoi occhi.
    - Ecco, lo sapevo, Terence! Chissà cosa ti inventerai adess…
    Le parole le si spezzarono mentre osservava Terence che, senza alzarsi dal suo posto di fronte a lei allungava una mano verso il cesto, per trarne fuori non una mela o un marshmallow, ma un astuccio di velluto verde acqua con le insegne di Tiffany ricamate sopra a lettere argentee.
    La mano di Terence tremava leggermente mentre tornava verso di lei e si fermava con la scatolina in grembo tra le mani, posando di nuovo lo sguardo sul suo viso e dicendole col tono più dolce:
    - Candy, avevi notato che non ti ho dato un anello di fidanzamento?
    - Beh, Terence – rispose lei titubante, spostando continuamente lo sguardo dal volto di lui e dal suo radioso sorriso, alla scatoletta che sembrava risplendere nelle sue mani. Il cinguettio degli uccelli e il canto delle cicale avvolgevano la scena e il sole, adesso più basso ma non per questo meno caldo, continuava a far piovere gocce di luce tutto attorno a loro attraverso il velo intessuto dalle foglie della grande quercia – a dire il vero sarebbe stato strano il contrario, visto che mi hai chiesto di sposarti su una panchina di Manhattan poche ore dopo esserci ritrovati… E poi… sai che per me i gioielli non hanno mai avuto grande importanza e quindi immaginavo che avessi deciso di soprassedere!
    - Donna di poca fede! – esclamò lui, divertito – ci sono almeno cinquanta anelli di famiglia, appartenenti alle più disparate generazioni di Granchester che avrei potuto utilizzare a tale scopo. Ma… ecco, avevo in mente qualcosa di diverso. Qualcosa che avesse un significato per noi, e non per qualche manieroso duca del cinquecento che si è fatto onore sconfiggendo l’Invincibile Armada di Filippo II sulla Manica…
    Candy sorrise e Terence concluse con voce che, nonostante tutte le raccomandazioni che aveva fatto a se stesso, non poté fare a meno di tremare:
    - Quindi, Candy, adesso te lo chiederò nella forma appropriata (tra l’altro sono casualmente già in ginocchio) e sappi che questa è la tua ultima occasione per rifiutare, dopo di che sarai definitivamente e indissolubilmente legata a questo testardo, lunatico, arrogante, insolente essere umano che ti sta di fronte, nel quale solo tu hai creduto di scorgere chissà quali qualità dietro la sua grezza superficie. Candy… vuoi sposarmi?
    Parlando, Terence aveva aperto l’astuccio e Candy sussultò per lo stupore e la meraviglia quando all’interno, foderato di raso dello stesso colore del velluto esterno, rivelò la sua presenza un incredibile anello dalla foggia unica, composto da due sinuosi nastri di minuscoli smeraldi, del medesimo colore di quelli incastonati nel viso di chi li stava adesso fissando sbalordita e che, insieme ad altrettanti brillanti, circondavano lo zaffiro che era stato al suo collo per tutti quegli anni, adesso splendente al centro di quello strepitoso monile.

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    Quell’anello era la summa delle loro vite, una rappresentazione dell’abbraccio delle loro anime, e non un semplice gioiello. Nell’idearlo, nel pensarlo fin dal momento in cui le aveva chiesto in prestito il suo pendente, Terence le aveva dato l’ennesima, meravigliosa e struggente dimostrazione d’amore vero.
    Lacrime di pura felicità cominciarono a solcare le guance di Candy e a caderle sulle mani che giacevano paralizzate sopra le sue ginocchia, mentre alzava il viso su Terence, non trovando le parole per esprimere ciò che provava.
    Terence la guardava con occhi il cui scintillio blu rivaleggiava con quello della pietra trionfante dell’anello che stava estraendo dall’astuccio.
    - Ho comprato questi smeraldi la mattina in cui ci siamo ritrovati. Camminavo, tanto per cambiare, come un invasato lungo la Fifth Avenue e ho rischiato di finire sotto le ruote di un’auto. Mi ero appena ripreso quando ho alzato lo sguardo e li ho visti lì, a fissarmi come se in quel frangente avessero vegliato su di me al posto dei tuoi occhi. Allora non sapevo se ti avrei mai più rivista, ma ho voluto acquistarli comunque, non essendo mai stato sorpreso prima di allora, se non in un’altra occasione sul Mauretania, da smeraldi più luminosi di questi – le lacrime di Candy erano ormai irrefrenabili – Quando ho visto il tuo ciondolo ho capito che il solo posto per queste pietre era al fianco del tuo zaffiro. Vedi? Circondandolo con il loro abbraccio gli danno sostegno e protezione, esaltandone il bagliore cupo con il loro riflesso chiaro … proprio come tu hai fatto con me, Candy, strappandomi ai miei oscuri tormenti con la tua luce.
    - Terence… - Candy non riusciva a smettere di piangere nell’ascoltare quelle parole che erano più che una dichiarazione d’amore: erano una dichiarazione di appartenenza. Lei e Terence si completavano a vicenda come la luce e il buio; il sole e la luna; gli smeraldi e lo zaffiro di quell’anello.
    Terence le porse il gioiello, facendole leggere l’incisione che aveva fatto realizzare all’interno della fascia di oro bianco:

    “C. e T. 31-12-1912”


    - Il giorno in cui siamo nati… - mormorò lei.
    - Sì, Candy, il giorno in cui siamo nati.
    Terence le prese delicatamente la mano sinistra e si fermò con l’anello a pochi centimetri dalla sua mano; quindi, con una espressione rapita che non aveva neanche l’ombra della consueta insolenza, declamò:
    - È la mia donna. Oh, il mio amore! Ah, potesse saperlo lei che è così! Ecco: parla...ma senza parole. E com’è? Parlano i suoi occhi 1- interrompendosi per fissarla intensamente e chiederle ancora una volta - Candy, sarai mia moglie?
    - Oh Terry! Certo che sì, incredibile ragazzo che mi lasci ogni volta senza parole! Vorrei avere la potenza letteraria di mille Shakespeare per dirti il mio sì!
    Terence sorrise e finalmente fece scorrere l’anello al dito di Candy, posizionandolo laddove intendeva ammirarlo ogni giorno della sua vita, di lì in avanti. Quindi aprì le braccia per ricevere la sua Giulietta che già si era lanciata per farsi accogliere nel caldo e palpitante abbraccio del suo ragazzo dagli occhi di zaffiro.

    “Che contentezza potresti avere da me stanotte?”

    “Lo scambio dei nostri voti di fedele amore”

    “Ti ho dato il mio prima che tu me lo chiedessi,
    e vorrei che fosse ancora da dare.”

    “Te lo vorresti riprendere?
    Per quale motivo, amore?”

    “Per dartelo ancora e a piene mani.
    Io desidero solo quello che ho:
    una generosità sconfinata come il mare è la mia;
    e profondo più del mare è il mio amore.
    Più do a te, e più ho io,
    perché sono inesauribili la mia generosità e il mio amore.” *


    _________________________




    Tornando a casa, quella sera, Terence sentiva rimbombargli nelle orecchie come un ritornello una frase che Candy aveva casualmente pronunciato quel pomeriggio.
    Come illuminato da un’intuizione ancora impalpabile, che era però intenzionato a seguire, con la netta sensazione che si trattasse di qualcosa di importante, prima di ritirarsi nel suo appartamento temporaneo alla clinica Felice si diresse verso l’ufficio del telegrafo, dove chiese di poter utilizzare il telefono per fare due chiamate: la prima a villa Andrew a Chicago, dove risiedevano i Cornwell, e la seconda a New York.
    Quando una voce rispose all’altro capo del filo, disse:
    - Mrs. Greppi? Mi scusi se la disturbo a quest’ora... Ho bisogno di un’informazione urgente...


    1Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.

    *Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.


    [continua]



    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-
     
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    Parigi,
    15 Maggio 1919.

    cap8_6



    William Albert Andrew si dirigeva allegramente verso casa, con un grande mazzo di tulipani rossi in una mano e sotto l’altro braccio un pacchetto contenente una bottiglia di delizioso bordeaux. Fischiettava allegramente pensando al telegramma custodito nella tasca interna della sua giacca di candido lino.
    Da quando era arrivato a Parigi, soprattutto dopo il suo trasferimento dalle pretenziose e supponenti sale affrescate del Ritz nel vibrante quartiere di Montparnasse, si sentiva rinato. Il sole delle sue lunghe e frequenti passeggiate all’aria aperta gli aveva conferito un colorito abbronzato simile a quello della sua giovinezza errante, che faceva risplendere ancora di più il colore dei suoi occhi rubato al cielo.
    Abbandonati gli abiti gessati da lavoro, in concomitanza con l’allentamento dei suoi impegni istituzionali alla conferenza di Versailles, nelle ultime settimane il suo guardaroba si era arricchito di indumenti dallo stile molto bohémien: giacche di lino, pantaloni sportivi e camice di seta dai colori vivaci ma raffinati. Immancabili accessori a completamento dei suoi outfit erano poi morbide sciarpe di seta, che Albert avvolgeva sempre con disinvoltura attorno al collo prima di uscire di casa e, a coprire i capelli color grano che andavano di nuovo allungandosi, per ribellarsi all’austero taglio dei giorni dedicati solo alla presidenza della Andrew Enterprises, un panama di paglia, dono del suo nuovo amico e compagno di molte serate trascorse conversando di arte e politica dinanzi ad un buon bicchiere di vino: Pablo Picasso. Il visionario e geniale artista spagnolo, da non troppo tempo trasferitosi da Montmartre in cerca della nuova linfa e dell’atmosfera eccitante e seducente della rive gauche, aveva introdotto Albert nel suo circolo di intellettuali e artisti cosmopoliti e geniali. Albert era certo che Picasso stesso, Gertrude Stein, Amedeo Modigliani, Nina Hamnet e il loro gruppo di amici stessero scrivendo una delle pagine più eccezionali e innovative della storia delle arti proprio in quel momento, sotto i suoi occhi.
    Per fortuna, i suoi impegni con il presidente Wilson si erano molto diradati in quelle ultime due settimane. Gli accordi economici erano ormai quasi tutti presi e la conferenza di Versailles si avviava alla conclusione; il trattato sarebbe stato firmato prima dell’estate, ne erano ormai tutti convinti. Purtroppo, il presidente Wilson non era riuscito a fare passare in pieno la linea “solidaristica” e la Società delle Nazioni, la comunità sovranazionale che aveva in mente per scongiurare futuri conflitti globali come quello che l’Europa e il mondo avevano appena vissuto, sarebbe nata completamente monca e priva di veri poteri, oltre che duramente osteggiata proprio nel cuore degli Stati Uniti. L’opposizione repubblicana al Congresso aveva già manifestato l’intenzione di non approvare l’ingresso proprio in quella stessa organizzazione per la quale il Presidente si era tanto battuto.
    Ma la politica, le sue beghe e i suoi inganni, centuplicati dai riflessi ingannevoli degli specchi del salone di Versailles nel quale si tenevano i colloqui di pace, erano decisamente lontani dalla mente di Albert in quel pomeriggio che si avviava pigramente al tramonto, col sole che assumeva sempre più le sembianze di una sfera infuocata sopra il dolce profilo della chiesa del Sacro Cuore, offrendo uno degli spettacoli più intensi e commoventi che quella città, che sembrava concepita e perfezionata attraverso i secoli con il preciso intento di insegnare al mondo cosa fosse la bellezza, sapeva mettere in scena.
    Come milioni di uomini e donne prima e dopo di lui, Albert si era scoperto improvvisamente e inaspettatamente innamorato di Parigi. Giorno dopo giorno si era sempre più fatto rapire dalla continua scoperta di ogni suo angolo, ogni volta lasciandosi sedurre e ammaliare da quella città che aveva la personalità più femminile tra tutte quelle che aveva conosciuto.
    New York aveva l’animo borghese e rampante degli uomini d’affari che vi stavano innalzando al cielo la celebrazione della propria nuova ricchezza e dell’immenso potere che ne derivava, mostrando con audacia al mondo di esserne di diritto la nuova capitale.
    Londra continuava ad esibire la propria aristocratica supremazia imperiale, frutto di secoli di avanguardia tecnologica, industriale e politica, e sfoggiava la serafica calma di un Lord intento a sorseggiare il proprio tè delle cinque tra le austere sale di un esclusivo club, con appropriata aria di superiorità e totalmente incurante di cosa accadesse nel frattempo al di fuori di quelle mura.
    Parigi invece aveva l’aspetto e la personalità di una pigra, voluttuosa e bellissima donna alla quale, pur già perfetta, piaceva truccarsi a dovere e curare il proprio aspetto, esaltando le proprie qualità per arrivare dritto al cuore di ogni uomo. Perfino la Senna, rispetto al più netto corso del Tamigi (fiume il cui nome, non a caso, era maschile) sembrava fluire sinuosa e ammiccante tra le due rive affollate di innamorati a passeggio; dei quali, comunque, difficilmente si sarebbe potuto dire se fossero più rapiti dalla vista del proprio amato o da quella dei giochi di luci e ombre creati al tramonto dai contrafforti della superba cattedrale di Notre Dame; o, ancora, dal rosso baluginio della avveniristica e spettacolare tour Eiffel, recente nuovo simbolo che si ergeva in lontananza, stagliandosi sopra i tetti della città.
    Albert avrebbe volentieri passato intere giornate a passeggio tra i vicoli di Montmartre, inerpicandosi per la scalinata che conduceva alla Chiesa del Sacro Cuore, che tanti artisti aveva e avrebbe ispirato, oppure immerso in contemplazione e studio dei parigini intenti a passeggiare, amoreggiare o leggere tra i verdi vialetti dei giardini del Lussemburgo, lanciando di quando in quando occhiate ai propri figli che si divertivano a gareggiare con le loro minuscole barche a vela nella grande vasca al centro del parco. Si perdeva volentieri tra i vicoli di Pigalle, fermandosi ore intere ad osservare gli artisti di strada intenti nella propria opera, estranei al mondo attorno a loro, e lasciandosi pervadere dall’anima eclettica e anticonformista che solo tra quelle vie vibrava così viva; adorava comunque anche aggirarsi tra i palazzi dell’antica monarchia borbonica, il Palais Royal, il Louvre, l’Invalides, lasciandosi conquistare suo malgrado dalla loro smaccata e ostentata grandeur.
    Ma più di tutto amava veder scorrere una di quelle dolci serate, ogni volta più lunga della precedente nell’approssimarsi veloce dell’estate che già faceva avvertire nell’aria i propri inebrianti profumi, da uno dei tavolini all’aperto del café de la Rotonde, a due passi dal suo appartamento di rue Delambre, dove era certo che, a qualsiasi ora fosse tornato dalla conferenza, avrebbe trovato un pittore o uno scrittore, conosciuto o da conoscere quella sera, pronto a condividere una buona bottiglia di vino e la propria versione iconoclasta di ciò che era appena stato deciso tra le mura di Versailles, in quei colloqui di “pace” che stavano invece gettando le basi per una nuova pagina dell’eterno conflitto europeo, mai cessato dai tempi delle guerre napoleoniche.

    cap8_7


    Anche quella sera, riscaldato dagli ultimi raggi di sole che si facevano strada tra i vicoli e le strade alle quali facevano da fondale balconi ornati di vivaci gerani e mura ricoperte di brillante edera, Albert si dirigeva al ritrovo di tante serate, alla ricerca però non di un occasionale compagno di bevute, ma di una persona ben precisa.
    La trovò esattamente dove sapeva di trovarla: seduta ad uno dei tavolini del café de la Rotonde, intenta a chiacchierare disinvoltamente con Victor Libion, proprietario del locale e involontario collezionista d’arte. Victor, infatti consentiva ai suoi squattrinati avventori di pagare le proprie consumazioni con una delle proprie tele, nei non infrequenti periodi in cui essi non possedevano neanche i pochi centesimi necessari per un bicchiere di vino rosso. Albert pensò con un sorriso che un giorno alle pareti del caffè sarebbe stata appesa una collezione tale da fare invidia al Metropolitan Museum o al Louvre...
    Josephine Lisser scoppiò in un’argentina risata, una di quelle risate che non temono di imbarazzare gli altri, ma nascevano dal cuore e arrivavano dritte al cuore del loro fortunato destinatario, e recavano in dono una ventata di gioia di vivere che veniva voglia di custodire come un prezioso tesoro. Almeno fino al momento mai troppo vicino in cui lei avrebbe deciso di posare sul volto del privilegiato interlocutore i suoi occhi neri come l’ebano, provocando immancabilmente un balzo del cuore.
    Dalla sera all’Opéra di diverse settimane prima, Albert era diventato il destinatario principale di quegli sguardi e di quei sorrisi splendenti, che gli aprivano il cuore come le vetrate di una finestra a primavera per lasciare entrare la dolce brezza profumata di campi in fiore.
    L’uomo non era estraneo all’affetto: nutriva un affetto sincero per la sua famiglia e provava soprattutto un intenso e indistruttibile amore fraterno per la sua piccola e dolce Candy, fin da quando l’aveva raccolta fradicia e spaventata dalla base della cascata che aveva rischiato di risucchiarla. Aveva anche avuto negli anni alcune relazioni poco impegnative, sebbene sempre rispettose e sincere, durante il suo lungo girovagare per il mondo, precedentemente alla presa di responsabilità come William Andrew. Ma, nonostante le continue pressioni della zia Elroy, non aveva mai saputo decidersi a impegnarsi in un vincolo matrimoniale con una delle eredi delle più influenti famiglie di Chicago, offertegli su un piatto d’argento dagli stessi genitori, ansiosi di imparentarsi con gli Andrew. Adesso sapeva perché: aspettava di incrociare i suoi occhi con quelle sfere di oro nero che ardevano sul volto di Josephine, incorniciato da riccioli morbidi altrettanto scuri e splendenti e tagliati sbarazzinamente appena sotto le orecchie, a rivelare la linea del collo e delle spalle più morbida e seducente che lui avesse mai veduto.
    Quella sera la ragazza indossava un candido abito di leggero cotone, dalla piega morbida e comoda, ma col primo bottone del corpetto seducentemente slacciato, troppo alto per rivelare alcuna delle morbide curve del suo corpo, ma sufficiente per svelarne lo spirito anticonformista e poco attento ai più ipocriti dettami del bon ton e della moda. Una caviglia sottile faceva capolino dall’orlo dell’abito e danzava allegramente sotto il bordo del tavolino, al ritmo della risata della sua proprietaria.
    Più ancora della sua fresca e prepotente (per quanto pura) bellezza, Albert era stato irrimediabilmente conquistato dall’animo solare e aperto della ragazza, unito ad un talento artistico che, seppure senza toccare le alte vette della pura genialità degli amici Pablo e Amedeo, era espressione di una creatività e di una predisposizione verso la celebrazione delle meraviglie del mondo che l’uomo aveva immediatamente ammirato. Non era infrequente che, nel pieno di una passeggiata al suo braccio attraverso i viali del parco del Lussemburgo, la fanciulla interrompesse all’improvviso il flusso ininterrotto e allegro della sua brillante conversazione, per bloccarsi in ammirazione di una composizione particolare su un’aiuola o di un gruppo di anatroccoli tra le ninfee della fontana, immaginando come dar vita nella creta o nel marmo alla stessa perfetta armonia esibita dalla natura.
    Albert amava ascoltarla parlare incessantemente per ore e ore, seduti al tavolino del loro caffè preferito, oppure ammirarla scolpire i suoi materiali, mentre dava voce ad un flusso di pensieri e sogni che sembrava non avere mai fine. A poco a poco, l’invito all’Opera si era evoluto in un pranzo a Montmartre e di lì in una lunga visita tra le meraviglie del Louvre, dove lui aveva capito di amarla mentre lei ammirava in silenzio per quasi un’ora, rapita e con gli occhi scintillanti, l’abbraccio eterno tra Amore e Psiche, simbolo di amore sacro e appassionato. Proprio il sentimento che Albert sentiva sbocciare dentro di sé per quella ragazza giovane e fresca che lo aveva riportato alla vera essenza della sua personalità, accantonata da tempo in favore del personaggio pubblico.
    Non c’erano state dichiarazioni romantiche né un corteggiamento infinito: Josephine era totalmente avulsa dalle convenzioni, fin dal giorno in cui aveva lasciato a soli diciannove anni la sua famiglia e il suo paesino in Provenza per inseguire il proprio sogno nella vibrante capitale delle arti. Invece di perdersi, come sarebbe potuto facilmente accadere ad una giovane e innocente fanciulla di provincia nella convulsa e a tratti crudele metropoli, Josephine, grazie anche alla spiccata saggezza che l’aveva guidata nell’evitare spiacevoli incontri, era riuscita, seppure a fatica, a realizzare il sogno di guadagnarsi di che vivere con la propria arte, scolpendo su commissione busti a tutti quegli aristocratici parigini desiderosi di lasciare una traccia delle proprie anonime vite a beneficio di posteri verosimilmente poco interessati. Naturalmente si trattava di un’attività che le serviva meramente per guadagnarsi da vivere, consentendole di dedicare il restante tempo alle sculture in cui metteva veramente il cuore e la passione, e che avevano però un mercato più asfittico e difficile per i giovani e sconosciuti artisti parigini.
    Dopo la visita al Louvre, camminando in un assorto silenzio sulla rive gauche e osservando il placido ed eterno fluire della Senna accanto a loro, Albert e Josephine si erano fermati improvvisamente, avevano incrociato i loro sguardi che replicavano il colore del cielo, nelle sue varianti diurna e notturna, e lui aveva risposto al silenzioso ma esplicito invito della ragazza chinandosi a baciarla e a stringerla in un abbraccio che, al pari di quello tra Amore e Psiche, riuscì a fondere la dolcezza e la passione che quella meravigliosa creatura aveva risvegliato in lui. Non si era mai sentito così vivo, nemmeno tra le selvagge praterie dell’Africa.
    Josephine aveva percorso le poche rampe di scale che separavano il suo studio dall’appartamento di Albert e si era trasferita da lui con una naturalezza che lo aveva commosso, ben sapendo come lei non fosse una ragazza usa all’intimità con l’altro sesso, dal quale aveva sempre respinto le frequenti avances, totalmente presa com’era dal fuoco dell’arte. Ma la forza dell’amore che li legava poteva esprimersi liberamente in quella Parigi complice degli innamorati, molto più e molto meglio di quanto non avrebbe potuto nella puritana America; e d’altra parte entrambi sentivano che un voto o un vincolo matrimoniale non avrebbero potuto aggiungere nulla alla sacralità del legame che sentivano naturalmente tra loro. Entrambi avevano scoperto insieme sia le gioie della passione, alla quale Albert aveva iniziato Josephine con la dolcezza mista all’ardore che nasceva da un vero amore provato per la prima volta, sia le meraviglie dell’intimità che risiedeva nella condivisione del quotidiano. Cenare uno di fronte all’altra, stare insieme in silenzio immersi lei nell’opera di scolpire e lui nella lettura di un libro, trovarla ad aspettarlo con il suo radioso sorriso al ritorno dal lavoro... erano tutti piaceri semplici e immensi ai quali Albert si era abituato troppo presto e ai quali non avrebbe più saputo rinunciare. Il futuro non esisteva nelle loro conversazioni, solo un meraviglioso presente.
    Ma il futuro, e la necessità di fare piani, lo aveva infine scovato e aveva bussato alla sua porta attraverso le frasi sconnesse e piene di incontenibile felicità di un telegramma dagli Stati Uniti, che sembrava quasi portare con sé anche il trillo della voce della sua piccola Candy, di nuovo esplosiva di entusiasmo e gioia di vivere, finalmente.
    Albert aveva tenuto per sé il telegramma per diversi giorni, condividendone il contenuto solo con un commosso George, il quale da quando era a Parigi, pur non arrivando al punto di abbandonare come l’amico la più rassicurante e borghese rive droite, aveva subìto a sua volta il fascino della città, come testimoniava un farfallino scarlatto che aveva inopinatamente preso il posto del sobrio cravattino nero, suo immutabile marchio di fabbrica da quando Albert lo conosceva, cioè da sempre. Il giovane Andrew sapeva che George stava approfittando di quelle settimane nella sua terra natia per svolgere alcune ricerche sulla propria famiglia d’origine, di cui aveva perso le tracce dopo una travagliata infanzia cui aveva posto fine la generosità di William Andrew Sr, il padre di Albert. Quest’ultimo lo aveva infatti strappato ad una vita di strada e a un probabile epilogo in riformatorio, portandolo con sé negli Stati Uniti. Tuttavia, fino a quel momento, le ricerche di George si erano rivelate infruttuose, con sommo dispiacere suo e dell’amico.
    Sempre ridendo insieme a Victor, Josephine si voltò verso di Albert, quasi ne avesse avvertito la presenza e, se possibile, i suoi occhi si fecero ancora più luminosi nell’incrociare quelli dell’uomo. Nonostante fossero diversissime nei colori e nel fisico, come sempre Albert non mancò di rilevare una somiglianza spirituale tra lei e Candy; almeno con la Candy sorridente e spensierata dei tempi d’oro, che sperava avrebbe ritrovato al suo ritorno.
    - Bonsoir mademoiselle, ça va? – la salutò avvicinandosi e sorridendole con uno sguardo carico d’amore.
    - Très bien, monsieur, bienvenue! – rispose lei, reclinando il viso all’indietro per ricevere il bacio che Albert si chinò a posarle sulle labbra, assaporandone il sapore.
    - Bentrovato, mon ami - lo accolse a sua volta l’uomo al tavolo – posso prepararle dell’ottimo bordeaux?
    - Grazie, Victor – intervenne Josephine, con una mano posata sul petto di Albert – ma questa sera vorrei portare quest’uomo tres charmant a casa, per sottoporre al suo giudizio le mie fatiche culinarie del pomeriggio... mi sentivo particolarmente ispirata, mon amour!
    Albert ebbe un fremito, come ogni volta che Josephine lo chiamava così, senza curarsi se fossero soli o in compagnia. Adorava anche l’accento francese che spezzava la durezza della lingua inglese da lei parlata a perfezione, in una melodia unica al suo orecchio.
    - Beh, Victor, in questo caso spero capirà se non ci tratteniamo, il pollo alla fricasée di Josephine è più di quanto lei possa offrirmi, temo.
    - Non cercherei nemmeno lontanamente di mettermi in competizione con la nostra Jojo... sarebbe fatica sprecata in partenza – rispose gioiosamente l’oste, che aveva adottato la piccola Josephine come tutti nel quartiere, fin dal suo arrivo, e che era particolarmente felice che avesse trovato l’amore tra le braccia di quel brav’uomo – e non credo che il pollo in fricassea sia l’unica freccia all’arco della nostra scultrice, qui.
    Gli occhi di Albert e Josephine, infatti, non si lasciavano un attimo, neanche il tempo necessario al giovane per porgerle l’enorme mazzo di tulipani che le aveva portato.
    - Grazie, mon amour, sono splendidi – disse lei, immergendo il viso tra i fiori per aspirarne il conturbante profumo.
    - Bene, Victor, noi andiamo, allora. A presto! – salutò Albert, cingendo le spalle della ragazza con un braccio e allontanandosi con lei nella prima oscurità della sera.
    - Au revoir, mes amis! – rispose Victor, godendo della splendida vista, non inusuale a Parigi ma ogni volta unicamente magica, di due innamorati che si allontanavano insieme, annullando ogni altro elemento della realtà per concentrarsi unicamente l’uno sull’altra.
    Albert e Josephine percorsero il breve tratto di poche strade che separava il café dal loro piccolo appartamento, chiacchierando del più e del meno, in totale armonia. Lei raccontò di aver consegnato un’opera proprio quel giorno e di averne appena ritirato il compenso, del quale era come sempre profondamente orgogliosa.
    Era stata una grande sorpresa per la ragazza, che aveva reputato Albert essere uno spiantato artista come la quasi totalità degli abitanti di Montparnasse - o, al più, un modesto impiegato dell’ambasciata americana - scoprire che in realtà l’uomo di cui si era perdutamente innamorata era uno dei magnati più facoltosi degli Stati Uniti.
    - I capitalisti americani non hanno tutti spioventi e importanti baffi scuri e cappelli a cilindro? – gli aveva chiesto di fronte a quella rivelazione, facendo scoppiare Albert in una risata divertita, una delle tante che condividevano ogni giorno.
    Ma da allora niente era cambiato nel loro stile di vita. Avevano continuato a considerarsi due frammenti combacianti di realtà, che per puro caso si erano incontrati in un momento e in un luogo sospeso nel tempo.
    A casa, Josephine cominciò a riscaldare la cena mentre Albert preparava la tavola, in una rievocazione dei medesimi gesti che alcuni anni prima avevano caratterizzato la sua convivenza con Candy. La fase più felice della sua vita, fino a quel momento.
    - Allora, come sono andati oggi i colloqui a Versailles? Le nazioni vincitrici hanno trovato qualche nuovo balzello da imporre alla Germania, tanto per cambiare? - Josephine seguiva sempre gli aggiornamenti non coperti da segreto di stato che Albert condivideva volentieri con lei, attenta e acuta osservatrice delle dinamiche che stavano cambiando il mondo in quei mesi, irradiandosi proprio da Parigi.
    - Non so molto di nuovo, oggi, mia cara. Il mio ruolo sta diventando sempre più marginale. In linea di massima gli accordi economici sono stati tutti siglati. E come ben si sa, decisi i dettagli finanziari, tutto il resto viene da sé. Al presidente Wilson ormai sono molto più utili i professionisti della diplomazia, per mettere a posto le righe piccole del trattato, che noi consulenti di economia. Credo che il mio lavoro con lui sia pressoché concluso.
    A quelle parole Josephine si bloccò con il cucchiaio di legno sospeso a mezz’aria sopra il tegame, pur cercando di mantenere un tono allegro quando gli rispose:
    - Davvero? Saranno fasi molto poco interessanti, temo!
    Albert non si fece ingannare dall’intonazione lieve con cui lei aveva parlato e, alzatosi dalla tavola, si avvicinò ai fornelli dell’allegra cucina in stile provenzale per mettersi alle sue spalle e abbracciarla da dietro, dicendole:
    - Molto poco, tesoro mio. Soprattutto considerando l’alternativa che mi aspetta a casa!
    Con queste parole si chinò su di lei per baciarle l’incavo della spalla e il lobo dell’orecchio, provocandole un brivido che però non riuscì a nascondere il turbamento che le parole di lui le avevano provocato.
    - Tesoro, credo sia proprio arrivato il momento di parlare del futuro... – le mormorò quindi all’orecchio.
    Lei non si voltò, ma spense il fuoco sotto il tegame, quale segnale di disponibilità ad affrontare l’argomento. Si sentì percorrere da brividi di paura. Sapeva che quel momento sarebbe giunto, sebbene lo avesse sempre relegato in un angolo della sua mente. Lei e Albert appartenevano a due mondi diversi, in ogni senso e significato che si potesse dare a quella frase, e prima o poi sarebbero dovuti tornare ciascuno all’universo cui appartenevano. L’unico problema era che in quelle settimane Albert era diventato il suo universo.
    Albert la prese per mano e la condusse davanti alla finestra che lasciava entrare la fresca brezza di maggio nel piccolo e accogliente appartamento. Trasse dalla tasca della giacca il telegramma di Candy e glielo porse con un sorriso.
    Josephine sgranò gli occhi, essendosi aspettata frasi tipo:
    “È stato bello finché è durato!” oppure “Finiamola adesso, prima che diventi più difficile!”, per le quali aveva da tempo preparato la giusta risposta, non troppo disinvolta ma non troppo ferita, proprio quella che ci si sarebbe aspettati da una bohémienne come lei, della quale certo non ci si poteva immaginare che fosse in cerca, né desiderasse, l’amore della vita. Invece Albert era riuscito a spiazzarla, mettendole in mano quel foglietto e facendole morire in gola la sua battuta a effetto.
    - Cosa è? – chiese, stupita e un po’ spaventata.
    - Un telegramma di Candy. Leggilo, tesoro...
    Ovviamente Albert le aveva raccontato del legame esistente con quella straordinaria ragazza, quasi coetanea di Josephine; delle vite parallele e gemelle che lui e Candy avevano vissuto in tutti quegli anni, incredibilmente trovando sempre l’uno nell’altra il sostegno nei momenti più difficili della propria vita. All’inizio Josephine aveva anche provato una certa gelosia verso quella fanciulla che sembrava avere un ruolo tanto importante e invalicabile nel cuore dell’uomo che amava. Ma poi aveva capito il tipo di puro sentimento che legava i due e, lungi dal sentirsene minacciata, era semplicemente grata che il suo adorato Albert avesse ricevuto in dono dalla vita, tra tante avversità, una presenza forte e importante come quella di Candy a lenire almeno in parte la sua solitudine. Inoltre, Albert le aveva parlato della storia di Candy e Terence, commuovendola fino alle lacrime, e lei si era resa conto che, se al mondo c’erano due anime gemelle, quelle erano proprio quei due ragazzi, per la cui felicità pregava insieme al suo uomo. Conosceva tutti gli sforzi che Albert aveva fatto per convincere Candy a uscire dal proprio nascondiglio di dolore e, adesso che apprendeva di quell’epilogo, si sentiva riempire di felicità, nonostante le proprie paure per il futuro, soprattutto sapendo quanto Albert avesse atteso quel momento.
    - Oh, Albert, è meraviglioso! Sono così felice per la tua Candy... – gli disse Josephine, alzando su di lui due occhi scintillanti di lacrime parimenti di gioia e di tristezza per ciò che li aspettava.
    Vedere la sua splendida ragazza mettere da parte i propri timori per condividere la sua gioia fece letteralmente sentire Albert invaso dall’amore per lei. Era lì davanti a lui e poteva leggerle in viso la paura e il senso di abbandono, ma nonostante tutto dava la priorità alla felicità di una persona che non conosceva neanche, solo perché sapeva quanto fosse cara al suo cuore....
    - Devi partire al più presto, se vuoi arrivare in tempo per il matrimonio.... mi pare che la tua Candy sia stata molto chiara su questo.... – sussurrò quindi Josephine, decidendosi finalmente a tirar fuori ciò che le pesava sul cuore come un macigno.
    - Sì, è così, in effetti. Che Archie accompagni all’altare Candy, proprio tra le braccia del suo più grande antagonista, è una cosa che non posso assolutamente permettere – rispose Albert, con tono scherzoso ma facendosi improvvisamente serio di fronte all’espressione indifesa della ragazza di fronte a lui, come un condannato in attesa della sentenza – ho già fatto prenotare da George il viaggio sul piroscafo Caronia, in partenza da Cherbourg giovedì prossimo.
    Josephine si portò una mano al cuore, come se l’avessero colpita, e impallidì visibilmente. Quello era il momento di pronunciare con voce chiara e ferma il suo discorso d’addio, quello che si era ripetuta da giorni, praticamente da quando si era scoperta innamorata di Albert, per non farsi cogliere impreparata dal destino che di certo non avrebbe tollerato una tale dose di felicità in una sola persona. Invece non solo le parole, ma anche il respiro le si bloccarono in gola e i suoi occhi neri come il carbone si sgranarono, cercando di assorbire il colpo.
    - Giovedì.... è così poco tempo...
    - Sì, infatti. È per questo che occorre iniziare i preparativi al più presto, Josephine. Spero che tu abbia un baule sufficientemente grande per contenere tutte le tue cose, in caso contrario dovremo andare alla maison Louis Vuitton ad acquistarne di nuovi.
    Ci volle qualche secondo perché il significato delle parole di Albert penetrasse a fondo nella mente di Josephine, totalmente impegnata in quel momento nell’immane sforzo di non piangere. Ma quando ciò avvenne e lei alzò il viso verso quello di lui, trovo ad attenderla i due più limpidi e cerulei occhi che mai avesse incrociato, aperti a esprimere anche con il proprio baluginio il sorriso che illuminava il volto dell’uomo davanti a lei.
    - Josephine, davvero, mi sono stancato di fare il bohémien... È stato divertente per un po’, ma adesso la mia anima e il mio patrimonio genetico alto-borghese reclamano vendetta. Devono essere i miei antenati scozzesi e la loro cultura del clan. Quindi, ti prego, fa di me un uomo onesto!
    Albert aveva fatto magicamente apparire una scatoletta di velluto rosso dentro la quale, adagiata su un fondo di raso dello stesso colore, si trovava il più stupefacente solitario di diamanti montato in oro bianco che lei avesse mai visto. La ragazza alzò lo sguardo dall’anello all’uomo che glielo porgeva, non sapendo da cosa essere più abbagliata tra i due, se dallo scintillio della pietra preziosa o dal sorriso pieno di amore con cui l’uomo la guardava. Era senza parole.
    No, le parole adesso stavano di nuovo salendo alle sue labbra, non era da lei restarne troppo a lungo priva.
    Con gli occhi che si accendevano improvvisamente dell’ardente riflesso d’ebano che Albert aveva rapidamente imparato ad amare e a temere, Josephine esplose:
    - William Albert Andrew! Non posso credere a quello che ho appena sentito! Adesso capisco la sceneggiata dei fiori e della cenetta intima! E lo sapevi già da giorni, ma non mi hai detto nulla, continuando a baciarmi e a fare l’amore con me come se niente fosse, anche! Beh, sai una cosa, mio caro? Ho faticato non poco in questi anni a conquistare la mia libertà, e a caro prezzo. Mi sono data da fare, mi sono costruita la mia carriera e ho trovato nuovi amici che mi vogliono bene e mi stimano. Sono una emancipata donna del XX secolo, non una qualsiasi ragazzina spaventata che ha bisogno di avere un uomo accanto e uno stupido anello al dito per sentirsi realizzata! E se credi davvero che io voglia dare un calcio a ogni cosa per mollare tutto e seguirti negli Stati Uniti come tua moglie.... - Albert aveva sgranato gli occhi, stupito da quella reazione inaspettata quanto irruenta. Josephine era meravigliosa e spaventosa, con le guance arrossate e gli occhi che lanciavano fiamme in giro per la stanza, ma soprattutto al suo indirizzo. Possibile che avesse sbagliato davvero tutto? Stava per cominciare a pensarlo quando lei lo sorprese per l’ennesima, meravigliosa volta, gettandogli le braccia al collo e concludendo, sfiorandogli il viso col suo respiro – ...hai assolutamente ragione!
    - Il tuo è un sì, tesoro? Mi sposerai? – chiese l’uomo, leggermente disorientato.
    - Oh Albert, sì, sì, sì, sì! Mille volte SI’!
    L’uomo la guardò teneramente, sentendo di amarla ancora di più dopo quella irruenta ed anticonvenzionale dichiarazione di amore. Era la sua compagna, la sua amica, la sua amante, la donna che non finiva mai di sorprenderlo ed eccitarlo... e stava per diventare sua moglie.
    La baciò appassionatamente per diversi minuti nelle ombre che ormai avvolgevano la stanza, illuminata solo dal riflesso dei lampioni dalla finestra aperta. Poi, quando entrambi si sentirono sazi, prese la sua mano sinistra e le fece scorrere l’anello all’anulare, sancendo il loro impegno e il loro amore con il più classico e meno anticonvenzionale dei gesti.
    Josephine guardò la mano al cui dito brillava il primo gioiello che avesse mai posseduto, prezioso al suo cuore per il suo significato e non per l’enorme valore che di certo materialmente aveva, e poi abbracciò di nuovo Albert, sussurrando al suo orecchio con voce seducente:
    - Mon amour, fino a quando non saremo sposati non saremo una coppia onesta, non è vero?
    Albert gettò la testa all’indietro, senza sciogliere il loro abbraccio e prorompendo in una risata estasiata.
    - No tesoro mio folle, direi di no!
    - Molto bene – continuò lei come se facesse le fusa, passandogli le mani tra i capelli – perché voglio godermi la mia fase bohémienne ancora per un po’!
    E così, ridendo all’unisono e ancora abbracciati strettamente l’uno all’altra, i due si lasciarono cadere di fianco, facendosi accogliere dall’avvolgente abbraccio del letto dalle candide lenzuola di bucato, che aveva già più volte conosciuto il loro amore e sul quale rinnovarono ancora una volta la passione che innalzava alle vette del cielo le loro anime innamorate.
    Nel buio della notte, forse attratto dai sospiri dei due amanti, un gatto dal setoso manto grigio, e dagli occhi dello stesso colore delle foglie dei tulipani nel vicino vaso, attraversò il cornicione della finestra della loro camera con la sua lenta e aristocratica andatura, fermandosi nell’alone di luce lunare e muovendo la sua lunga coda languidamente e sinuosamente, come un’onda.

    [continua]



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    Casa di Pony,
    La Porte, Indiana.

    01 luglio 1919.


    La natura e gli esseri umani avevano deciso di unire gli sforzi per rendere perfetta quella giornata.
    La prima aveva fatto la sua parte tirando fuori dal cilindro la più meravigliosa giornata estiva che una sposa avrebbe potuto desiderare: calda ma non soffocante, accarezzata da una brezza lieve e profumata di rose nel pieno della loro fioritura. A corredo di tutto, aveva dipinto il cielo di una tonalità di azzurro splendidamente chiara e limpida, senza una nuvola, che sembrava scelta per attirare le rondini, lietamente tornate dal sud per festeggiare l’estate su quelle familiari colline, con evoluzioni più aggraziate ed eleganti del solito a tracciare il loro ricamo. Anche le farfalle sembravano aver compreso che la loro danza sarebbe stata il perfetto corollario per tale bucolico scenario, e benignamente si erano messe a loro volta d’impegno per conferire il loro tocco a quel quadro
    Presso la quercia, che torreggiava quel giorno più orgogliosa che mai in cima alla collina di Pony, come se pregustasse già la cerimonia che si sarebbe svolta sotto le sue fronde accoglienti, era invece stato montato un arco di rose e lavanda, che avrebbe fatto da cornice allo scambio delle promesse di due giovani che in realtà erano già promessi l’uno all’altra da molto tempo.
    Le poltroncine rivestite di morbido tessuto bianco da cui parenti e amici avrebbero assistito alla cerimonia erano ancora vuote, ma uccelli, api e cicale con il loro canto, nonché leprotti e candidi conigli danzanti tutto attorno, sembravano aver già dato inizio alla festosa atmosfera di quella eccezionale giornata, insieme ai bambini della casa di Pony, eleganti e distinti nei loro abiti della festa, che furono i primi quel mattino a sciamare per il giardino e a regnarvi incontrastati coi loro giochi fino all’arrivo dei primi ospiti.

    Il dottor Martin fu il primo a presentarsi, accompagnato dall’ineffabile Mrs. Ridgeway. Erano gli unici invitati provenienti da La Porte a non avere approfittato dei mezzi di trasporto messi a disposizione da Albert e forniti dai garage di villa Andrew. Poco dopo arrivò anche il gruppo dalla fattoria Stevenson, composto dal signor Steve e da Tom, che dava il braccio alla deliziosa fidanzata Barbara.
    Alle dieci e trenta i prati della collina di Pony erano già affollati di personalità variegate, alcune delle quali non avevano mai messo piede nel Midwest, come Robert Hathaway al braccio della moglie o la grande attrice Eleanor Baker. Sul volto di quest’ultima era ancora visibile qualche segno dello spaventoso incidente di cui era stata vittima: i lineamenti del viso erano lievemente tirati e il colorito pallido, ma ciò non faceva che conferire ancora più risalto agli occhi, del medesimo colore di quelli del figlio, che brillavano come non mai. Solo in parte l’emozione e la tensione di quel giorno da lei tanto atteso erano dovute al fatto che di lì a breve avrebbe rivisto dopo vent’anni il padre di suo figlio, cui era legata da un tormentato passato.
    La più incredibile presenza tra i prati della collina di Pony era però quella di una delle coppie più influenti degli Stati Uniti, il sottosegretario alla Marina Franklin D. Roosevelt e sua moglie Eleanor, appositamente giunti il giorno prima da New York e alloggiati all’hotel La Salle di Chicago. Nonostante la matrice indiscutibilmente metropolitana della coppia, la cui concezione di vita campestre si limitava alla sfarzosa villa di Hyde Park on Hudson nella quale trascorrevano le vacanze estive e i week-end, i prestigiosi coniugi si erano mescolati con nonchalance al pittoresco gruppo di invitati. Roosevelt, sbarcato dal Caronia insieme ad Albert e Josephine poche settimane prima, era intento a scambiare con Robert Hathaway qualche commento sulla recente firma del trattato di pace, mentre sua moglie, inquieta quant’altri mai per l’enorme numero di bambini che sciamavano per il giardino, aveva trovato nel dottor Martin un attento interlocutore dal quale stava raccogliendo idee e spunti, informati per quanto sui generis, utili alla sua campagna contro l’alcolismo.
    Da Chicago, con altre automobili, erano invece arrivati Vincent Brown, ormai totalmente inserito nelle aziende Andrew e il cui contributo era stato di fondamentale supporto ad Archie durante l’assenza di Albert, e il gruppo di giovani costituito dallo stesso Archie (i cui figli erano stati immediatamente requisiti da Miss Pony e suor Maria, incantate da quanto fossero cresciuti dall’ultima volta, prima dell’inverno, in cui li avevano tenuti tra le braccia) e Hal, neolaureato avvocato e pronto a iniziare una brillante carriera nello staff legale dei Roosevelt, oltre che a convolare a nozze alla fine dell’estate con la sua Patricia. I due giovani avevano stretto un aperto e amichevole rapporto, nonostante i peggiori timori di Archie che, appreso del fidanzamento, aveva temuto di non riuscire a superare l’ostacolo che la memoria del fratello avrebbe costituito nei confronti del nuovo arrivato. Ma Hal aveva conquistato anche lui con la sua semplicità, mentre Annie con la sua dolcezza era riuscita a far comprendere a un malinconico Archie che il fatto che Patty si fosse riaperta alla felicità era esattamente ciò che Stear avrebbe voluto per lei.
    Annie e Patty invece, alle quali Candy aveva aggiunto in corsa Josephine come damigella, si trovavano alla casa di Pony dal giorno prima e avevano trascorso la notte con Candy, chiacchierando e rievocando ogni più lontano e insignificante aneddoto della loro lunga e solida amicizia, vera benedizione per ciascuna delle tre nei momenti più bui delle loro vite, che in quella notte stellata aveva acquisito un valore ancora più inestimabile. Quella mattina le due ragazze avevano indossato i semplici abiti color lavanda, che Candy aveva accettato dopo lunga trattativa e vani tentativi di difesa del giallo da una irremovibile Annie, arricchiti in vita solo da una semplice fascia di seta color avorio, lo stesso tessuto del vestito della sposa. Dopo averla aiutata a completare i preparativi, ad acconciare i capelli ed a indossare l’abito, le due damigelle si erano dirette all’esterno. Evitando i bambini che si rincorrevano e fermandosi per abbracciare una Miss Pony già commossa nel suo abito della festa e una Suor Maria risolutamente decisa a non mostrare neanche un piccolo cedimento, avevano trovato una Josephine a sua volta in color lavanda, intenta a chiacchierare allegramente con un sempre inappuntabile George (tornato ai fasti del cravattino nero non appena sbarcato negli USA). Sia Annie che Patty fino a quel momento avevano piacevolmente stupito la sposa, riuscendo a non versare neanche una lacrima mentre le appuntavano il velo impalpabile, ed erano ben decise a non crollare adesso, rivelandosi mature giovani donne consapevoli e realizzate, che aspettavano all’altare la persona che più di chiunque altro aveva contribuito a liberarle dalla schiavitù delle paure nella loro adolescenza.

    Terence e il duca di Granchester si inerpicarono per la collina a bordo di una nerissima Cadillac Type 57, la prima che avesse mai sfrecciato per le strade di La Porte. I cui abitanti, a dire il vero, non avevano mai visto un tale concentrato di eleganza e cosmopolitismo tra le vie e gli edifici semplici e senza pretese di quell’angolo di mondo, così improvvisamente popolatosi di star di Broadway, capitani d’impresa, potenti uomini di Stato, un Lord inglese (il cui legame con la coppia nessuno era però riuscito a ricostruire) e assurto agli onori della cronaca per il fatto di ospitare il matrimonio tra una delle più ricche ereditiere americane e addirittura uno dei più noti attori della nazione. I giornalisti avevano praticamente invaso la cittadina, arrivando a intervistare ogni portiere d’albergo e ogni inserviente di cucina alla ricerca di qualche scoop sull’evento. L’ipotesi al momento più accreditata vedeva il duca di Granchester oscuramente imparentato con la misteriosa e bellissima fidanzata europea sfoggiata da William A. Andrew per la prima volta in quell’occasione.
    Arrivati alla casa di Pony dopo un silenzioso ma rilassato viaggio, Terence aiutò il padre a scendere dall’auto, porgendogli il braccio per poi lasciarlo libero di muoversi con l’aiuto del suo bastone dal pomello d’avorio, ben sapendo quanto egli tenesse a preservare la sua aria dignitosa e imperiosamente autosufficiente.
    Non appena il duca nel suo impeccabile tight di Savile Row fece la propria comparsa sul prato, sembrò che in sottofondo improvvisamente cominciassero a risuonare le stentoree note del God save the King. Tutti i bambini, che da sempre posseggono delle antenne molto sensibili nei confronti della vera autorità, tacquero simultaneamente e si bloccarono, ciascuno nel punto in cui si trovava, facendo quasi inconsapevolmente ala al passaggio del duca e di Terence il quale, però, nel superarli fece l’occhiolino a Carter, strappandogli un sorriso sollevato.
    Il padre dello sposo aveva molto ben recuperato i postumi dell’infarto e, a parte un leggerissimo appesantimento della palpebra e la necessità di camminare aiutandosi con un bastone, cosa che comunque già era solito fare in passato quale simbolo austera nobiltà, era tornato quello di sempre. L’aria aristocratica e condiscendente con la quale fece scorrere lo sguardo sui presenti non ingannò però il figlio, che ben sapeva quanto l’idea di rivedere Eleanor lo turbasse.
    Nel silenzio che era calato al posto dell’eccitato brusio che aveva animato il giardino fino a poco prima, Richard Granchester e suo figlio si avvicinarono al gruppo composto da Robert Hathaway, Franklin Delano Roosevelt ed Eleanor Baker, la quale costituiva una fiammante e splendente macchia di colore nel suo abito rosso, in conturbante contrasto con i luminosi capelli biondi.
    Raggiunto il terzetto, Terence abbracciò con slancio la madre, dandole un affettuoso bacio sulla guancia:
    - Ti trovo bene, mamma. A dire il vero temo che potrai oscurare la sposa. Mr. Chaplin si morderà le mani per non aver atteso la tua guarigione.
    Eleanor sorrise nervosamente, un orecchio teso ad ascoltare il figlio e gli occhi fissi invece sull’uomo dritto come un fuso al suo fianco, dal portamento elegante e distinto che lei ben ricordava e che aveva, peraltro, completamente trasfuso nei geni del figlio. Richard ricambiò il suo sguardo con intensità, aprendole nel presente uno scorcio sia del passato più felice che di quello più doloroso.
    - Eleanor ti trovo splendida, come se il tempo non fosse trascorso! – fu la frase scelta dal duca di Granchester per rivolgersi per la prima volta, dopo vent’anni e infiniti rancori, alla madre di suo figlio.
    - Grazie Richard, sono lieta di vedere che anche tu stai bene – rispose senza un’esitazione nella voce la grande attrice, la quale non rivelava né con l’espressione del viso né con i gesti il turbamento che provava. Ringraziò quindi la lungimiranza che le aveva fatto indossare dei lunghi guanti candidi, utili a impedire la vista delle sue nocche totalmente sbiancate nello stringere fino a farle male il fazzoletto di trina, nel tentativo di trovare uno sfogo alla tensione nervosa.
    Solo Robert Hathaway oltre a Terence capì il momento, grazie all’antico sodalizio che lo legava all’amica e collega, nonché alla spiccata sensibilità che gli consentì di leggere dietro l’apparenza; quindi accorse in aiuto della donna, inchinandosi al duca:
    - Vostra Grazia, è un vero onore conoscervi!
    - Piacere mio, Mr. Hathaway – il duca volse il capo nella sua direzione - Terence mi ha parlato di voi e del ruolo che avete avuto nella sua maturazione personale e professionale. Vi sono grato per ciò che avete fatto per lui in questi anni.
    Richard esprimeva gratitudine anziché elargire condiscendenza verso qualcuno? Eleanor non credeva alle sue orecchie: un conto era scorgere tracce di trasformazione nel suo temperamento, attraverso le frasi della lettera che le aveva mandato; un altro trovarselo di fronte e vedere coi suoi occhi in cosa fosse maturato quel capriccioso, immaturo ed egoista rampollo dell’aristocrazia, impreparato alle responsabilità, che per lunghi anni l’aveva precipitata in un tunnel di disperazione e solitudine. Concedendosi di analizzare i suoi stessi sentimenti, poté infine riconoscere, stupendosene ella per prima, che il tempo, il grande guaritore, aveva compiuto il suo miracolo, e che le ferite del passato erano ormai completamente cicatrizzate nel suo cuore. Era andata avanti e quell’incontro tanto temuto le dava finalmente la consapevolezza che i rancori erano stati definitivamente lasciati alle spalle. Sospirò, grata e libera, come se si fosse finalmente scrollata un immane peso portato sulle spalle per troppo tempo.
    Richard lanciò un intenso sguardo al diamante che pendeva al collo della donna. Era quello il modo da lei scelto per passargli il bastone della pace, per fargli comprendere che potevano guardare avanti per il bene del figlio, non più nemici in guerra, ma alleati in un armistizio per un bene superiore. Sebbene in lui la passione e la fiamma del passato si fossero ormai spente da tempo, gelate da decenni dedicati solo all’onore e ai suoi meri formalismi, dei quali aveva troppo tardi realizzato la vacuità, il duca a quel punto si chiese con una certa dose di rimpianto quale vita avrebbe potuto vivere accanto a quella donna, se solo avesse avuto la forza di amare diversamente da come gli aveva imposto il padre, proprio come suo figlio aveva invece avuto il coraggio di fare.
    - Vostra Grazia, posso presentarle il sottosegretario alla marina, Mr. Franklin Delano Roosevelt? – chiese Robert.
    Con uno sguardo grato al suo amico e mentore, Terence decise che uno dei due momenti topici della sua vita, cumulati nello stesso giorno da uno dei soliti scherzi con cui il destino non aveva smesso di burlarsi di lui, stava decisamente avviandosi a una piega più che soddisfacente e che quindi, mentre il gruppo si affrettava ai propri posti di fronte all’altare, poteva lasciarli per dedicarsi interamente al secondo.
    Si diresse quindi sotto l’arco fiorito, creando un magnifico contrasto tra quest’ultimo e il suo tight nero, che esaltava la sua eleganza al punto che nessuno quel giorno avrebbe potuto nutrire il minimo dubbio sui suoi aristocratici ascendenti, se non fosse stato per i capelli color cioccolato, decisamente troppo lunghi e ribelli per poter essere sfoggiati a Buckingham Palace.
    Il ragazzo sistemò i boccioli di narcisi che ornavano il suo occhiello e si dispose ad aspettare il momento ormai prossimo in cui la donna che amava sarebbe comparsa ai piedi del pendio della collina di Pony, esattamente nel punto sul quale fissò i suoi occhi più blu e brillanti che mai, emozionato ma impaziente di dare inizio al resto della sua vita.

    “Per quanto possa scriverne, non riesco a esprimere il sentimento che provo per Terry.
    T.G. se n’è andato, lasciandomi tantissimi ricordi... Ma io non vorrei parlare di ricordi e del fatto che se ne sia andato, perché un giorno ci incontreremo ancora!
    T.G., fino a che non verrà quel momento, continuerò a nutrire e ad aver cura del sentimento che provo per te.
    Pero, T.G., spero che non ti arrabbierai. Hai cercato di proteggermi sacrificandoti al mio posto, ma io sto per lasciare la scuola. Sento che qui non troverò la mia strada. Se resto, so di avere un futuro già assicurato, ma ho capito che questo non mi porterà alla felicità.
    Devo trovare da sola la mia strada, e se c’è una persona che me lo ha insegnato, quella sei tu. T.G., grazie!
    E poi avrei voluto gridarti a gran voce queste parole: Terence, sono innamorata di te, come non lo sono mai stata di nessuno…” 1


    Candy sfiorò con le dita la pagina consunta del volume rilegato in pelle rossa, quella pagina che più delle altre era segnata dall’uso e recava le tracce delle molte lacrime che dovevano averla bagnata durante le innumerevoli e dolenti riletture che la ragazza si era concessa negli anni.
    Con gli occhi invece adesso asciutti, forte della forza che aveva consentito a lei e a Terence di sconfiggere il destino che aveva così ripetutamente cercato di separarli, si concesse però un moto di tenerezza per quella quindicenne che aveva affidato al suo diario, con grafia incerta e ancora un po’ infantile, un grido d’amore tanto accorato e appassionato. Se quella ragazza fosse stata lì davanti a lei, l’avrebbe accarezzata teneramente e avrebbe asciugato le sue lacrime, confortandola per le prove che già le aveva riservato la vita e per quelle che ancora erano davanti a lei, ma rassicurandola con un sorriso che, se fosse stata abbastanza forte da affrontarle tutte, e in primo luogo le sue paure interiori, avrebbe ricevuto in dono una felicità immensa: quella che lei provava quel giorno.
    Con un sorriso richiuse il suo diario, proprio mentre qualcuno bussava alla porta, ed esclamò “avanti!” senza neanche informarsi sull’identità del visitatore, avendo riconosciuto al primo tocco proprio la persona che stava attendendo.
    Albert entrò nella stanza, splendido e virile nel suo abito da cerimonia scuro con i pantaloni gessati e il panciotto color avorio. All’occhiello, come tutti gli invitati presenti alla cerimonia tranne lo sposo, portava dei fiori di lavanda.
    - Sei pronta, piccola? Gli invitati sono già tutti qui!
    Candy, seduta sul letto già vestita di tutto punto, lo accolse con un sorriso.
    - Beh – disse Albert con voce tremante di commozione alla vista della sua piccola bambina in abito da sposa – non posso dire che Annie non abbia avuto ragione a portarti a Chicago per scegliere l’abito da sposa, Candy!
    - Oh, Albert, smettila! – sbottò Candy, alzandosi - sono così imbarazzata! Se anche tu come Annie, Patty, Josephine, miss Pony e suor Maria mi dirai quanto sono radiosa, penso che impazzirò!
    - Molto bene, piccola, allora ti dirò che assomigli a uno spaventapasseri impagliato, se la cosa può farti sentire meglio – le rispose l’uomo, con il suo tono di voce preferito da Candy, quello leggero e sereno che l’avrebbe rassicurata anche prima di lanciarsi nel vuoto.
    La ragazza era comunque evidentemente ben lungi dall’assomigliare a uno spaventapasseri, nell’abito di Chanel che Annie l’aveva aiutata a scegliere con il suo occhio allenato e amorevole.

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    Il leggero corpetto ricamato con minuscole perline aveva una scollatura lievemente arrotondata che partiva appena sotto le clavicole, e seguiva aderente la linea del busto fino ad appena sotto la vita. Da qui si allargava la gonna, composta da strati impalpabili di merletto e seta, i cui tagli ricamati diagonali e sovrapposti conferivano all’abito un raffinato movimento, molto moderno. Le maniche lunghe, strette e impalpabili arrivavano fino a meta avambraccio ed erano arricchite dello stesso delicato ricamo del corpetto, ma prive delle perline. L’unico gioiello, oltre all’anello di fidanzamento, era costituito da un giro di perle attorno al collo, dono di nozze di Albert. Il velo lievissimo scendeva ai lati del viso, appuntato a una delicata cuffietta che riprendeva i motivi dell’abito e dalla quale sfuggivano ai lati del viso ciocche biondo grano che accendevano di luce, insieme al bouquet di narcisi e rose dolce Candy, quell’abbagliante color avorio.
    Candy si alzò, tenendo tra le mani il suo vecchio diario.
    - Grazie Albert, avevo bisogno di un po’ di normalità, oggi...
    - Sei emozionata, piccolina?
    Candy guardò con profondi e sereni occhi verdi quelli azzurro cielo dell’uomo che più di ogni altro aveva cambiato la sua vita, indirizzandola sulla strada che l’aveva portata a Terence. Rivide tutti i momenti che li avevano legati più di quanto avrebbe potuto sentirsi unita a un padre o a un fratello. In più occasioni si erano sostenuti reciprocamente nella vita e questo li avrebbe sempre fatti sentire connessi come più non sarebbe stato possibile.
    - Sì, Albert, lo sono. Ma non spaventata o insicura come mi sono sentita negli ultimi anni. È un’emozione buona, che sa di cioccolata e di gelato... che ti fa venire voglia di assaggiarne di più, perché sai che ciò che verrà dopo sarà ancora più buono di ciò che stai gustando adesso.
    Albert scoppiò a ridere, sollevato di aver ritrovato la sua piccola Candy allegra e felice di un tempo:
    - Mio Dio, Candy, sei l’unica persona al mondo che avrebbe potuto usare il gelato come metafora per descrivere il proprio matrimonio. Bentornata, piccola, mi sei mancata! – e così dicendo, aprì le braccia per accoglierla nel suo caldo e tenero abbraccio, incuranti entrambi dei danni al vestito da sposa, impeccabilmente composto in ogni piega da Annie e Patty.
    I due avevano avuto molto poco tempo da trascorrere insieme nell’ultimo mese, cioè da quando Albert e Josephine erano arrivati a Chicago. In effetti, quella era la prima volta che si trovavano a quattr’occhi, e Candy aveva atteso quel momento con trepidazione.
    - Albert – gli disse quando finalmente l’abbraccio fu sciolto, e senza danni evidenti all’abito – ho una cosa da chiederti, prima di avviarci...
    - Dimmi, Candy.
    Candy posò un ultimo sguardo sul diario tra le sue mani, prima di tenderlo verso di lui e dirgli con determinazione:
    - Vorrei che lo custodissi di nuovo tu per me, come un tempo.
    Albert lanciò uno sguardo al volumetto rosso, che già aveva ricevuto per volontà di Candy quando quest’ultima aveva abbandonato la St. Paul School. Nel lasciarlo sulla scrivania della sua camera al dormitorio, Candy aveva messo per iscritto che venisse consegnato allo zio William, affinché le parole e i pensieri che vi aveva custodito gelosamente nell’anno in collegio servissero a fare comprendere al suo benefattore i motivi della scelta di abbandonare quella scuola, che lui tanto generosamente le aveva permesso di frequentare.
    Così era stato: quelle pagine erano giunte a William A. Andrew, per poi tornare tra le mani della sua proprietaria quando i fili delle loro vite si erano riannodati, dopo l’amnesia di Albert.
    Perché adesso Candy voleva che lui tornasse ad essene il custode?
    Come rispondendo alla muta domanda di Albert, arrivata a lei attraverso quegli impalpabili canali comunicativi che li avevano sempre uniti, Candy spiegò:
    - Ho scritto questo diario su spinta dello zio William e con il preciso intento di trovarmi ogni sera, scrivendo su queste pagine, in condizione di non dovermi vergognare di ciò che contenevano. Di fare ogni giorno un passo verso la realizzazione di ciò che lo zio William voleva che fossi. È servito allo scopo per il quale me lo hai mandato, Albert. Credo di essere diventata la donna che speravo di diventare, al fianco dell’uomo il cui amore mi ha reso tale. E sono una donna felice. Per questo, in cambio della felicità che mi hai aiutato a raggiungere, e perché non ti dimentichi mai di cosa mi hai consentito di realizzare, vorrei che lo tenessi tu. Io adesso ho Terence al mio fianco. Dopo l’ultima pagina di questo diario c’è il mio oggi.
    Albert fissò Candy, con tenerezza infinita, comprendendo perfettamente ciò che la sua piccola bambina stava cercando di comunicargli. Il suo primo istinto di rifiutare il diario di Candy, chiedendole di tenerlo, fu superato dalla totale comprensione che c’era sempre stata tra loro.
    - Molto bene, Candy. Grazie per questo dono, che considero un deposito. Lo custodirò per te gelosamente come un tesoro fino a quando, se mai avverrà, lo rivorrai indietro.
    - Spero di no, Albert! Perché significherebbe che la mia felicità di oggi sarà venuta meno!
    - Allora, tesoro, sono convinto che resterà a fare ragnatele dentro la cassaforte di villa Andrew, perché dopo aver visto i tuoi occhi e quelli dell’uomo che ti sta attendendo nervoso come un grillo all’altare, sono più che sicuro che resterà per sempre con me.
    Candy sorrise annuendo e poi, finalmente pronta ad andare incontro al suo futuro, essendosi assicurata di lasciare il suo passato in buone mani, gli disse, intrecciando le dita alle sue e aprendo il volto a un sorriso della più pura felicità, che illuminò completamente ogni angolo della stanza:
    - Molto bene, zio William, allora cosa ne direbbe adesso di accompagnarmi da quell’uomo, per dargli un po’ di pace?

    ______________________________

    Io deporrò il mio destino ai tuoi piedi:
    sarai il mio signore e padrone,
    e io ti seguirò fino in capo al mondo. *



    Nel sottofondo creato dagli armoniosi suoni della natura, il gruppo di archi prese vita per elevare al cielo le avvolgenti e dolcissime note del Canone di Pachelbel in Do maggiore, che Terence aveva scelto personalmente quale sottofondo per accompagnare i passi di Candy verso di lui. La sposa comparve ai piedi del dolce declivio della collina di Pony, mano nella mano ad Albert, anziché a braccetto come richiedeva la tradizione. L’eterea candida figura si voltò verso l’uomo biondo al suo fianco, il quale le rivolse un sorriso di incoraggiamento, seguito da una rassicurante stretta alla mano, proprio un istante prima che cominciassero a percorrere l’ultimo tratto di prato che li separava dal punto in cui Terence li aspettava. Tutti gli ospiti, consapevoli dell’impervio cammino che quei due giovani avevano dovuto compiere per giungere a quell’appuntamento, trattennero il fiato.

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    Tenendo faticosamente a bada la commozione, Terence scorse finalmente la sua dolcissima ragazza, adesso splendida donna avvolta di candore, avanzare con lo stesso passo sicuro con cui aveva attraversato tutte le vicende tristi e liete della sua vita lungo il corridoio tra le due ali di ospiti che seguivano incantati il suo passaggio.
    In quel momento agli occhi del giovane tutto il resto del mondo scomparve e gli parve che tutta la luce di quella abbacinante giornata risplendesse attorno alla sua Candy che percorreva sorridente, e apparentemente per niente emozionata, gli ultimi passi del lungo, lunghissimo viaggio, iniziato sei anni prima e che li aveva condotti fin lì.

    Candy, la mano stretta a quella di Albert quasi più per rassicurarlo che per esserne rassicurata, teneva gli occhi incatenati a quelli di Terence, mentre la distanza che li separava si riduceva a ogni passo e la figura alta e slanciata del suo amato ragazzo, divenuto uomo attraverso mille cadute e altrettante rinascite, riempiva progressivamente il suo spazio visivo, stagliandosi elegante e luminosa sotto le fronde della secolare quercia.
    Sentì erompere dentro di sé le parole scritte sei anni prima sul suo diario, con la stessa intensità e verità di allora:
    “Terence, sono innamorata di te, come non lo sono mai stata di nessuno…”

    Giunti all’altare, Albert posò un bacio sulla mano di Candy prima di metterla in quella di Terence. Non appena le dita dei due giovani si sfiorarono e il pastore iniziò la celebrazione, entrambi ebbero simultaneamente la sensazione che attorno a loro si levasse una nebbia impalpabile, inghiottendo i contorni della realtà in forme sfumate e indefinibili. Tra i nastri di bruma che adesso li avviluppavano, insinuanti e misteriosi, un pungente freddo dicembrino dissolse ogni traccia di calore estivo e, nel buio che calò dopo aver coperto ogni scintilla di sole, entrambi avvertirono il profumo salato dell’oceano e il suono ipnotico delle onde che si infrangevano ritmicamente sulla fiancata di una nave amorevolmente illuminata da tutte le stelle dell’universo...

    Il valzer proveniente dal salone delle feste si è mutato in un tango. Candy è affacciata al ponte del Mauretania, in cerca di aria fresca e solitudine per connettersi con coloro che le mancano dolorosamente:
    - Miss Pony, Suor Maria... Anthony...
    Non appena avverte le lacrime fare capolino, chiude gli occhi rapidamente, per ricacciarle indietro. Non riesce a tornare alla vita, nonostante tutti i suoi sforzi.
    Il vento si fa sempre più freddo e la nebbia sempre più fitta, avvolgendo il ponte come il manto trasparente di una ninfa. Percorrendolo a ritroso per tornare tristemente verso la sua cabina, Candy si ferma sussultando. Le sembra di scorgere il profilo di una persona nascosta nella nebbia.
    In effetti c’è un ragazzo alto appoggiato al parapetto della nave e fissa le acque oscure come se stesse ponderando di tuffarvisi.
    Istintivamente, Candy si avvicina a lui e sussulta col cuore che le scoppia nel petto, restando senza respiro:
    - Anthony... – sussurra con voce tremante.
    Come assomiglia ad Anthony...
    Certo, è più alto di lui e la corporatura è più virile, ma in quel momento è tanto il suo bisogno che sia Anthony che vorrebbe piangere.
    La nebbia si dirada per un istante e il profilo del ragazzo si fa più distinguibile. Candy lo fissa, scossa.
    - Sta piangendo!
    Gli occhi del ragazzo, che sembrano sfidare l’oscurità dell’oceano con l’intensità del loro sguardo, brillano di un riflesso cangiante di lacrime.
    Candy capisce di stare spiando una scena che non è destinata ad essere condivisa con altri e indietreggia lentamente, ma non riesce ad allontanarsi.
    - Chi è là? – esclama il ragazzo, voltandosi improvvisamente.

    Terence ha lasciato il chiuso della sua cabina, dove ha trascorso la maggior parte della traversata, in cerca di aria che potesse lenire il dolore sordo che lo possiede fin da New York, dal momento in cui la porta della casa di sua madre si è chiusa alle sue spalle.
    Il rumore di porte che si chiudono gli è familiare fin da bambino, e fin da bambino ha imparato ad associarlo all’abbandono e al rifiuto.
    Avvolto dal velo di nebbia, si sporge dal parapetto e scruta nell’oscurità sottostante.
    Piange di solitudine: adesso sa che ci si lascia alle spalle l’infanzia proprio nel momento in cui si impara che non sempre c’è una speranza da nutrire. Ha appreso questa lezione nel più duro dei modi, e il bambino respinto è appena diventato un ragazzo profondamente solo.
    Proprio nell’istante in cui la nebbia si dirada per un momento, forse per effetto delle sue nuove dolorose certezze, o forse lavata via dalle sue lacrime, sente un rumore alle proprie spalle e si volta, spaventato all’idea che qualcuno abbia condiviso la sua fragilità, da sempre riservata solo a se stesso.
    - Chi è là? – esclama, voltandosi improvvisamente.

    - Mi dispiace – mormora Candy nervosamente, cercando di giustificarsi.
    La voce del ragazzo è profonda e intensa, tanto che lei stenta ad associarla all’eleganza slanciata e giovanile della figura che è emersa adesso dall’ombra della notte – Sembravi così triste... io temevo che potessi buttarti.
    - Io? Triste? – replica lui, puntandosi un dito indice sul petto. Se c’è una cosa che gli anni e l’abitudine ad essere ferito gli hanno insegnato è a non mostrare mai (MAI!) alcuna debolezza di fronte a nessuno, perché chiunque può ferirti a morte – Questa è proprio bella! Davvero hai pensato che potessi gettarmi nel vuoto?
    E, improvvisamente e violentemente come lo scroscio di un temporale estivo o come il divampare di un incendio in un bosco di sterpi, Terence scoppia in una possente, esagerata, esasperata risata di scherno.
    Il suo riso sembra non aver fine e ogni secondo in cui si prolunga aumenta la stizza di Candy per quella reazione scomposta.
    Le sembra di trovarsi di fronte un’altra persona, completamente diversa dal ragazzo che di spalle aveva scambiato per Anthony e che aveva sul volto l’espressione più triste che avesse mai visto in tutta la sua vita. Davvero ha potuto sbagliarsi a tal punto, prima?
    Quando la risata si è faticosamente calmata, lui le chiede con tono insinuante, cercando di sviare l’attenzione da sé (tutto, tutto pur di non apparire ciò che è...):
    - E tu, perché sei qui fuori da sola nella notte, mentre all’interno c’è una festa di Capodanno?
    - Beh, non mi piacciono le feste – risponde Candy, che non gradisce affatto quel tono inquisitorio e comincia a sentirsi alquanto offesa dall’atteggiamento di quel giovane. Non capisce cosa abbia fatto per provocarlo.
    Come se lei avesse detto qualcosa di molto divertente, lui comincia di nuovo a ridere fragorosamente:
    - Questa è la tua versione, ma io suppongo che la verità sia che non avevi un cavaliere con cui ballare, non è vero?
    Per quale motivo quel ragazzo sente un tale bisogno di denigrarla? I suoi scherzi e le sue risate, nota però adesso Candy, sono solo sulla sua bocca e nella sua voce, ma non arrivano agli occhi, che hanno ricevuto in dono dalla natura una incredibile sfumatura di blu rubata al cielo o agli zaffiri, e che sono ancora quelli profondamente tristi e bagnati di lacrime che scrutavano tra le onde poco prima.
    - Non è affatto così! –
    - Non arrabbiarti, piccola lentigginosa! Se lo fai, le tue lentiggini si vedono ancora di più!
    Terence improvvisamente si avvicina a Candy, portando il suo viso a pochi centimetri da quello di lei con un fischio di scherno.
    Candy sente la carezza del respiro di quell’odioso ragazzo sul proprio viso e, senza sapere perché, si sente attraversare da un brivido nuovo, diverso da quelli provocati dal freddo della notte sull’oceano.
    - Mio Dio! Ne sei piena! Riesco appena a ricostruire i tuoi lineamenti attraverso le lentiggini! Poverina...
    Terence, la cui distanza dal volto di quella ragazza comparsa dal nulla è talmente ridotta da poterla sfiorare, pensa all’improvviso che non ha mai visto così da vicino un paio di occhi di un colore così inammissibile. No, non ha mai visto
    affatto un paio di occhi il cui colore sia stato tanto evidentemente rubato a due smeraldi... e cos’è quel brivido che ora lo attraversa, mentre li fissa incantato, fingendosi interessato alle sue lentiggini?
    Cercando di controllare il tremito della voce, che vuole attribuire alla rabbia ma che sente essere provocato dalle profondità blu di quegli occhi, così vicini da accecarla con la loro luce, Candy risponde:
    - Mi spiace deluderti! Ma mi piacciono le mie lentiggini, le colleziono. Anzi, sto giusto cercando di capire come fare a procurarmene delle altre. Dì la verità, sei solo geloso perché tu non ne hai neanche una!
    Cielo! Quella ragazza gli tiene testa anziché battere in ritirata di fronte alle sue provocazioni, come la maggior parte delle persone che si scontrano con la sua arroganza sono invece solite fare... un altro brivido, questa volta di eccitazione.
    - Figurarsi! – Terence prende tempo, si sente preso in contropiede... e quell’incredibile luce di smeraldo negli occhi della ragazza, sempre più intensa a mano a mano che in lei monta la rabbia, non lo aiuta certo a mantenersi distaccato.
    Decide di alzare l’asticella.
    Con un plateale sbuffo di incredulità supera le proprie remore e la propria paura di bruciarsi con quel fuoco verde e porta il suo viso ancora più vicino a quello di lei; può sentirne nitidamente il respiro sul proprio viso, adesso... se solo volesse, potrebbe rubarle quel respiro...
    - E scommetto che saresti orgogliosa anche del tuo nasino a patata!
    Candy si sente mancare il fiato. Non è mai stata così vicina a nessun uomo in vita sua. Suo malgrado sente le guance in fiamme e il cuore tambureggiare nel suo petto. Non è solo imbarazzo. Lei non si è mai sentita in imbarazzo di fronte a nessuno. C’è qualcosa in quel ragazzo che non riesce a farle governare le sue reazioni... Quegli occhi... ha bisogno di qualcosa che la faccia uscire da quella situazione, prima di perdere completamente il controllo.
    - Ma certo! Puoi scommetterci! Ci gioco tutti i giorni, così! – e con queste assurde parole, Candy si preme il naso con l’indice, schiacciandolo del tutto.
    Terence scoppia di nuovo a ridere: cerca di riappropriarsi della propria sicurezza, approfittando del diversivo che lei ha creato. Ancora un istante e quegli occhi lo avrebbero stregato.
    Candy ascolta sorpresa l’ennesima risata del ragazzo. Possibile vi si nasconda una sfumatura di sollievo?
    - Accidenti, come sei forte! - continuando a ridere, Terence si volta e comincia a camminare sul ponte, allontanandosi con indifferenza.
    O forse è una fuga?
    Candy lo guarda andar via e non capisce perché improvvisamente il ponte si faccia più buio e ancora più freddo. E che fine ha fatto quella luce blu che prima sembrava illuminarlo per tutta la sua lunghezza?
    - Sarà meglio che me ne vada, prima che tu mi morda. Buon anno, Tuttelentiggini, mi hai fatto divertire! – la apostrofa lui senza voltarsi.

    Terence si allontana senza voltarsi indietro, non vuole rischiare di incrociare di nuovo quei fari splendenti di smeraldo. Non lo ammetterà mai, ma quella sera sono stati quegli occhi verdi a calamitarlo lontano dall’oscurità liquida che lo attirava con il richiamo di mille sirene.
    Anche se non la rivedrà mai più, sa che lei gli ha appena salvato la vita.

    Mentre il contorno del ragazzo si fa sempre più sbiadito nella nebbia, che torna ad avvolgere il ponte, Candy tira un sospiro di sollievo. Il terremoto di emozioni che lui le ha causato si acquieta a poco a poco. Sente una piccola scintilla di vita tornare ad accendersi dentro di lei per la prima volta dalla morte di Anthony.
    Anche se non lo rivedrà mai più, sa che lui l’ha appena riportata alla vita.

    - ... e che nessun uomo osi dividere ciò che Dio ha unito! – disse il pastore.
    Con queste parole, le vite che i due giovani si erano donati reciprocamente in una notte lontana di nebbia vennero adesso restituite l’una all’altro, ma solo per fondersi in una sola.
    Per sempre.

    Oh, ella insegna alle torce
    a splendere più vive.
    Brilla sulla guancia della notte
    Come un prezioso gioiello all’orecchio di un’etiope.
    Bellezza troppo ricca per l’uso e troppo cara per la terra.

    Prima d’ora, ha mai amato il mio cuore?
    Negalo, vista dei miei occhi!
    Mai prima di questa notte non conobbi, al vero, la Bellezza. **




    1Kioko Mizuki, Final Story, volume II, pag. 106, 2015 - Kappalab

    * Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.

    **Romeo e Giulietta, Atto I, Scena V.



    FINE CAPITOLO 8°





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