Gli Smeraldi e lo Zaffiro

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  1. Cerchi di Fuoco
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    "Se fuggire fosse una soluzione, io sarei fuggito da te già da tanto tempo"

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    Capitolo 5°: Onde concentriche1


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    Londra,
    16 aprile 1919


    Piccadilly Circus era illuminata da uno splendido sole primaverile, i cui raggi scintillanti creavano sulle pozzanghere lasciate dalla pioggia della notte precedente un insieme di giochi di luce simili a sfavillanti prismi di arcobaleno in miniatura. L’acqua sembrava aver lavato e ripulito completamente Londra, che appariva dunque particolarmente smagliante e a festa, quella mattina.

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    La piazza, come sempre proverbialmente frenetica, era attraversata da carrozze e da diverse automobili private, anche se la maggior parte dei lavoratori londinesi soleva recarsi al lavoro a piedi, esibendo al braccio l’emblematico ombrello e in testa la doverosa bombetta; o in metropolitana, emergendo dalla stazione che prendeva il nome proprio dalla famosa piazza circolare. Cominciavano a prendere piede anche molti più tram di quanti Terence ricordasse solo pochi anni prima, quando aveva lasciato la città e, nel complesso, il traffico della capitale aveva ritrovato i tratti multiformi e pulsanti che si addicevano alla sua grandezza.
    Londra era all’apice della sua magnificenza, capitale di una nazione che, pur avendo pagato un prezzo carissimo in termini di giovani vite perdute, era all’apice del proprio trionfo al termine della prima guerra mondiale. Era la vera e indiscussa padrona del mondo, del quale da più di due secoli governava l’economia grazie al più grande impero coloniale ed al più totale dominio dei mari che la storia avesse mai conosciuto dai tempi dell’Impero Romano. Allo stesso tempo, però, gli osservatori più attenti riuscivano già a cogliere i tratti che preannunciavano la fine di quello stesso impero e del predominio inglese sul mondo, a beneficio dell’emergente potenza americana molto più pulsante e dinamica, in piena espansione. La Gran Bretagna appariva un gigante vecchio e stremato dall’aver retto le redini del mondo per troppo tempo. Gli Stati Uniti erano il giovane delfino che scalpitava per ricevere il testimone e la corona da una stanca regina, la quale tuttavia orgogliosamente si teneva ancora aggrappata al proprio scettro. Erano per l’America gli anni delle risorse sterminate, di Ellis Island, delle opportunità a buon mercato per chi avesse intraprendenza e coraggio per coglierle. E del sogno americano.
    Perfettamente in linea con lo scalpitante fervore di quella nazione da cui proveniva la metà del sangue che gli scorreva nelle vene, quella meno blu ma più caparbia, Terence era in quei giorni in preda a una eccitazione febbrile e a un imperioso richiamo all’azione, proprio come l’ipercinetica America. Da quando aveva preso la decisione di spezzare gli indugi e di correre a lottare per riprendersi il suo grande amore, o almeno a provarci, non aveva avuto un istante di requie e sembrava di rivedere in lui l’adolescente inquieto che era stato. Ogni minuto era durato giorni e ogni giorno un’eternità scandita dal suo desiderio. Avendo sacrificato per tanti anni la propria felicità sull’altare di un castello di carte costruito su onore e dovere, adesso che questo era miserevolmente crollato, quegli ultimi giorni che lo separavano dalla resa dei conti col destino, dall’ultimo lancio di dadi che avrebbe decretato il vincitore tra loro, gli sembravano decisamente infiniti. La sua anima era da troppo tempo assetata e si sentiva come se, dopo aver attraversato un deserto, avesse trovato sulla sua strada degli ostacoli ad impedirgli di compiere gli ultimi passi che lo separavano dall’anelata sorgente.
    Dopo la sconvolgente lettura delle lettere di Candy sottrattegli da Susanna tanto tempo prima, Terence aveva altalenato tra sentimenti di rabbia e tristezza per il passato perduto. Ma più di tutto, una volta deciso di riannodare i fili della propria esistenza prematuramente recisi, aveva cominciato ad essere attanagliato dal terrorizzante dubbio che la sua Candy, l’unico essere al mondo che potesse trarlo fuori da quella finzione troppo a lungo recitata fuori dal palcoscenico per restituirlo alla vita, potesse invece essere andata avanti senza di lui, durante quei lunghi anni di separazione.
    Non riusciva ad immaginare che qualcuno non avesse cercato di cogliere quel fiore tanto prezioso che lui era stato tanto fortunato da veder sbocciare accanto a sé nella stagione più felice della sua vita. Si sentiva privilegiato per il sentimento che avevano condiviso, per quell’anno tra Londra e la Scozia che gli aveva cambiato la vita, facendogli comprendere veramente, tramite l’amore puro per Candy, che tipo d’uomo desiderasse diventare, solo per essere degno di lei. Tutto ciò che aveva fatto nella vita lo doveva a lei. Persino la riconciliazione col padre: era Candy che gli aveva insegnato il valore del perdono, restituendolo così all’affetto di entrambi quei genitori che nel proprio distruttivo autolesionismo e sete di vendetta aveva rischiato di perdere.
    Terence conosceva bene il dono posseduto da Candy di spargere attorno a sé un’aura di sereno benessere e di pace. Ma a lui aveva dato qualcosa di più: tramite il suo amore aveva insegnato anche a lui ad amare. E facendolo, aveva incatenato a sé per sempre quel giovane e ribelle Terence, il cui sentimento da lei acceso vibrava ancora intatto nell’uomo che era diventato.
    Ma erano passati cinque lunghissimi, penosi, crudeli anni di lontananza e Terence non poteva credere che non vi fosse stato uomo tanto saggio da innamorarsi perdutamente di quel raro angelo… Il solo pensiero lo faceva bruciare di una sorda e del tutto irrazionale gelosia. Nei momenti in cui essa gli ottenebrava completamente la mente, privandolo di ogni residuo di lucidità, arrivava addirittura a chiedersi se quel damerino senza spina dorsale di Cornwell non avesse potuto approfittare della situazione per prendersi ciò che, ne era certo, non aveva mai smesso di desiderare. Solo dopo un po’ di tempo - passato immancabilmente a tormentarsi ferocemente - si rendeva conto di quanto fosse assurdo tale pensiero; non perché si fidasse del dandy, ma perché conosceva bene la sua Candy e sapeva che, al di là di ogni altra irrazionale considerazione e assurdo scenario la sua mente potesse concepire, mai lei avrebbe fatto un torto simile alla sua migliore amica, quella timida brunetta… come si chiamava? Annabelle?
    Per risollevarsi l’anima così tormentata da infauste visioni di Candy felicemente votata ad un’appagante vita domestica con qualcuno che non fosse lui stesso, Terence allora richiamava alla mente il legame elettivo che li univa, cementato da quel lungo, straziante addio sulle scale del St Jacob’s Hospital, in quei brevi ed infiniti momenti in cui i loro due cuori erano diventati uno solo.
    Ma poi ricordava che era stato lui stesso a imporle un giuramento di felicità.
    Terence aveva preso la ferma risoluzione che, qualora avesse scoperto che Candy (contrariamente a lui) era riuscita a tenere fede al suo impegno, si sarebbe fatto da parte in silenzio sia pure con l’anima in pezzi e non avrebbe tentato in nessun modo di rientrare nella sua vita per turbarla ancora. Le aveva già fatto troppo male, prima portando Susanna nella sua vita e poi lasciandola scivolare via in quella notte fatale sotto la neve.
    Quindi, dopo essersi interrogato a lungo sul modo migliore e più delicato di contattarla, optò per una lettera. L’avrebbe spedita non appena messo piede negli Stati Uniti, augurandosi di riuscire a frenare l’istinto che gli urlava invece di correre da lei senza aspettare più un solo minuto, stringerla tra le braccia e non lasciarla più andare per nulla al mondo. Desiderava solo risentire il contatto con quella pelle e perdersi nei suoi occhi di smeraldo… Era un bisogno ancestrale, che aveva un che di animalesco e selvaggio.
    Ignorava dove lei vivesse adesso, se ancora a Chicago o in qualche altro luogo. Conoscendo il suo spirito indipendente e anticonvenzionale, poteva trovarsi ovunque al mondo. Ma sapeva anche quali fossero i suoi legami più profondi e quindi era certo che, ovunque lei fosse, Miss Pony e Suor Maria di certo non ignoravano il suo indirizzo.
    E così, tormentato dalla gelosia, da dubbi laceranti e dalla sua bruciante passione, Terence aveva preparato la partenza, facendo letteralmente ammattire i Gouz con l’irrequietezza che lo spingeva a girare in tondo come una trottola, ad aggirarsi per casa come una fiera in gabbia e a fumare una sigaretta dietro l’altra, passandosi le mani tra i capelli scarmigliati con occhi febbrili per l’impazienza e l’impotenza, senza riuscire a concludere alcunché. I preparativi erano stati rapidi ed efficienti, soprattutto dopo che Mr. Gouz ne aveva preso le redini, estromettendo il tarantolato marchese da ogni poco costruttiva ingerenza.
    Il problema era stato, come per il viaggio di andata, trovare un posto su un piroscafo per tornare a New York. Le comunicazioni tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti erano molto meno frequenti di prima della guerra, giacché molte navi civili erano state requisite dalla marina militare per svolgere trasporto truppe. Poiché Terence minacciava di sfidare a duello chiunque osasse solo accennare all’assurda idea di aspettare fino ai primi di maggio per viaggiare con l’Aquitania, informando tutti che avrebbe piuttosto attraversato l’oceano a nuoto, Mr. Gouz alla fine incaricò uno degli avvocati londinesi del duca, tal Mr. Ashton, di fare carte false per ottenere un passaggio su una delle navi mercantili che invece partivano con grande frequenza dal porto di Southampton.
    Alla fine, quando tutti gli esasperati abitanti della casa erano ormai decisi a impacchettare Terence in carta da imballaggio e spedirlo negli Stati Uniti per posta celere, Mr. Ashton telefonò finalmente a Granchester Manor per informare il marchese di aver trovato, con incommensurabili sforzi, un posto per lui su una nave mercantile, il Pearl, in partenza dopo pochi giorni, il 16 aprile.
    Armatori e capitani non erano mai soddisfatti al pensiero di portare dei passeggeri a bordo delle proprie navi, che non sempre rappresentavano fulgidi esempi di igiene e bon ton tra i marinai. Figurarsi un marchese, figlio di un Pari d’Inghilterra! Ma evidentemente Mr. Ashton aveva trovato il modo di oliare i giusti ingranaggi e, anche grazie a qualche bustarella finanziata dal credito illimitato concessogli da Terence, a patto che riuscisse a fargli lasciare al più presto quell’Inghilterra che cominciava sempre più ad apparirgli una “perfida Albione” che lo teneva prigioniero contro la sua volontà, i suoi sforzi erano stati alla fine coronati dal successo.
    E così, tre giorni prima della partenza del Pearl, Terence prese congedo dal padre.

    Il duca di Granchester era ormai avviato sulla strada di una lenta ma progressiva riabilitazione. Lui e Terence avevano avuto un ultimo colloquio nel corso del quale il ragazzo aveva comunicato al padre che importanti e urgenti questioni richiedevano immediatamente la sua presenza in America. Il duca aveva visto ardere negli occhi del figlio una brace blu che non vi scorgeva più da anni, da prima della loro separazione. Senza chieder nulla aveva riconosciuto in quegli occhi la stessa fiamma d’amore che aveva bruciato nei suoi tanti anni prima. Lo aveva quindi solo invitato a tornare il più in fretta possibile a quegli affari così importanti e a trovare per essi la soluzione migliore, mettendosi a disposizione per qualsiasi aiuto potesse fornirgli.
    I rapporti tra padre e figlio in quei mesi di convivenza si erano stretti di un infinitesimale frammento ogni giorno, eppure era stato un cambiamento rivoluzionario. Come la terra, che gira attorno a se stessa tanto rapidamente da apparire immobile, piccoli passi e infinitesimali gesti giorno dopo giorno avevano ridotto, senza bisogno di parlarne, la siderale distanza che in origine li divideva.
    All’atto del congedo il duca, ormai in grado di alzarsi e di muoversi con cautela sia pure ancora aiutandosi con un bastone, condusse il figlio nel suo studio, dove trasse da una cassaforte incassata nella parete un cofanetto portagioie di ebano, finemente intagliato e riccamente adorno di zaffiri, rubini, oro e perle, a formare un elaborato fregio di fiordalisi e gigli sul coperchio. Terence stimò che dovesse avere almeno duecento anni, e rimase senza parole a fissare quel meraviglioso oggetto d’antiquariato che ignorava facesse parte del tesoro dei gioielli di famiglia.
    - Figliolo, vorrei tu facessi qualcosa per me, una volta tornato in America.
    - Ditemi, padre.
    Il duca aprì il piccolo cofanetto, foderato di velluto blu e argento, e ne trasse un semplice filo di platino dal quale pendeva un diamante da almeno dieci carati, tagliato in modo da concentrare su di sé tutta la luce del mondo e rifletterla in migliaia di riflessi cangianti, con un effetto straordinario.
    - Terry, questo ciondolo appartiene a tua madre. Lo comprai pochi giorni dopo la tua nascita per fargliene dono. Purtroppo sai… tutti noi sappiamo… come andarono le cose. Non riuscii mai a darglielo. Ma in tutti questi anni non ho mai voluto né liberarmene, né darlo alla duchessa. Il suo significato è molto intimo e mi lega indissolubilmente alla donna che mi ha donato quanto di più prezioso io abbia al mondo.
    Terence fissava il padre, commosso da quella indiretta dichiarazione di affetto nei suoi confronti; affetto al quale non aveva ancora fatto l’abitudine, né tantomeno aveva imparato ad abbandonarvisi completamente. Per cui rimase in silenzio, una luce negli occhi che parlava per lui, ad aspettare il seguito di quella storia che lo toccava così da vicino.
    - Per tutti i motivi di stima e rispetto, nonché di considerazione per lei, che ti ho già esposto, vorrei che tua madre avesse alfine questa collana. Non vuole essere un pegno, né un risarcimento per le sofferenze che lei ha patito in questi anni, poiché reputo impossibile ripararvi e riterrei oltraggioso provarci con un bene materiale come questo. Si tratta di qualcosa che è sempre stato suo, in un certo senso, ma che io ho custodito fino ad oggi. Questa collana è legata a voi due, e per questo vorrei che l’avesse tua madre. Non ho ritenuto di fargliela avere con un anonimo corriere negli anni dell’astio e del rancore tra noi, ma oggi forse è possibile. La affido a te perché gliela consegni. Ma se capirai che questo dono potrebbe offenderla o rievocare tristi ricordi del passato, ti prego di non insistere e di tenerlo con te, per darlo un giorno ad una donna che riterrai degna e piena di onore come tua madre.
    Terence prese la collana tra le dita. Era un gioiello talmente bello e unico che da solo parlava del grande amore che doveva aver legato i suoi genitori. All’improvviso sentì un’ondata di rabbia invaderlo al pensiero di cosa avrebbe potuto essere e non era stato. Ma gli ultimi mesi non erano passati invano: Terence aveva lasciato dietro di sé i rancori del passato e aveva intrapreso il difficile cammino del perdono che scalzò la rabbia, lasciando però nel posto lasciato vacante al suo passaggio una pari dose di malinconia.
    - Molto bene, padre. Porterò questa collana a mia madre. Sono certo che con le premesse e le spiegazioni che mi avete dato ne comprenderà il senso e non credo che vorrà rifiutarlo.
    - Grazie Terry. Il cofanetto, invece, appartiene alla nostra famiglia da parecchie generazioni. Quindi vorrei che lo tenessi tu quale primogenito ed erede, per continuare a tramandarlo quando sarà il momento.
    Il duca scrutò il figlio con uno sguardo tra il malizioso e l’indagatorio, ma Terence, facendo ricorso a tutto il suo consumato talento recitativo, mantenne un’assoluta maschera di impassibilità nel rispondergli:
    - Certamente, padre, quando sarà il momento… - insinuando però volutamente nelle sue parole una sfumatura del pungente sarcasmo della sua giovinezza.
    Un erede…
    Per cominciare, il primo passo era andare subito a riprendersi la donna della sua vita e, sperava ardentemente, futura madre dei suoi figli.

    In quella sfavillante mattina d’Aprile, Terence emerse dunque dall’ingresso principale sull’inconfondibile facciata neo-classica dell’hotel Ritz di Londra, immergendosi nell’atmosfera caotica di Piccadilly Circus e chiedendosi come avrebbe fatto a far scorrere il più velocemente possibile le ore che lo separavano dall’imbarco sul piccolo piroscafo Pearl quella sera.
    Come una falena attratta inevitabilmente dalla luce, si avviò lungo Shafetsbury Street, la via dei teatri, desideroso di respirare l’aria di quel mondo che sentiva essergli mancata più di quanto avesse ammesso con se stesso fino a quel momento. La recitazione per lui era una vocazione, non un lavoro; era un bisogno primario di lasciar volare i propri sentimenti e la propria passione che trovava sublimazione sul palco, ogni singola volta che il sipario si levava e lui annullava la propria persona per concedersi completamente al personaggio in quel momento in scena al suo posto. Terence non si limitava semplicemente a interpretare: lui faceva vivere Orsino, Riccardo III, Amleto… e quelle vite cominciavano a mancargli. Al suo rientro sulle scene lo attendeva la sfida più difficile, quel Romeo a cui non si era più concesso dal 1914.
    Passeggiando assorto per il West End ed osservando le numerose locandine di opere shakespeariane in cartellone, fu però irresistibilmente attratto dal teatro Her Majesty’s, dove in quei giorni si rappresentava con grande successo il Pigmalione, che aveva tra i protagonisti uno dei suoi attori-icona: Sir Herbert Beerbohm Tree, il fondatore della Royal Academy of Dramatic Art.
    Terence era straordinariamente interessato al mondo della commedia, che George Bernard Shaw aveva elevato ai suoi massimi livelli: pur restando un fedele e monogamo interprete delle opere del Bardo, da vero appassionato di teatro desiderava conoscerne tutte le multiformi espressioni. Ovviamente aveva letto l’opera, ma non aveva ancora avuto il piacere di assistervi a teatro, e si dispiacque di non avere il tempo per poterlo fare quella sera.
    Sorrise: se Mrs. Gouz avesse potuto leggergli nel pensiero in quel momento, lo avrebbe inseguito col suo mattarello per tutta Soho, considerando quanto aveva esasperato la povera donna con le manifestazioni della sua impazienza e con l’odio evidente che aveva palesato per ogni singola ora in più passata sul suolo britannico negli ultimi giorni.
    Si ripromise di assistere al Pigmalione alla prima occasione utile. Mentre osservava la locandina, si ritrovò a pensare a quanto Candy avrebbe apprezzato quello spettacolo. La protagonista, Eliza Dolittle, aveva in comune con lei la purezza di una semplicità che abbatteva ogni barriera sociale con la semplice forza dirompente del sorriso, nonché la caparbia volontà nel raggiungere i propri obiettivi.
    La sua deliziosa ragazza! 2
    Immerso nei propri pensieri Terence si era nel frattempo addentrato nelle intricate e affascinanti vie di Soho, godendone l’atmosfera Dickensiana. Si era fatta quasi ora di pranzo e così, per ingannare il tempo, decise di entrare in uno dei più antichi e caratteristici pub di quella parte della città, il Dog and Duck, che recava tra le proprie pareti molte memorie del suo scapestrato passato di ribelle, dedito a bere troppo e a provocare risse con pari soddisfazione.
    Prima di Candy. Prima della vita vera.
    Era stato al Dog and Duck che aveva conosciuto Albert, la sera in cui l’amico lo aveva salvato da una situazione particolarmente pericolosa nella quale si era cacciato chissà come e chissà perché... a quei tempi non faceva fatica a trovare ogni sera un motivo valido per dare libero sfogo ai suoi peggiori e autodistruttivi istinti.
    Chissà dov’era Albert e cosa stava facendo? Era ripartito per una delle sue mete esotiche o viveva ancora con Candy? La consueta fitta di gelosia si impadronì di lui, al pensiero che l’uomo avesse avuto il privilegio, a lui sempre negato, di condividere l’intimità quotidiana con la sua ragazza.
    Terence entrò nel pub e si lasciò avvolgere dall’atmosfera vittoriana che vi regnava. Il pavimento di marmo a grandi riquadri neri e crema creava un avvincente contrasto con la tappezzeria pesante a disegni rossi e oro.

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    Sedette al banco dove un pingue barista dagli enormi e indisciplinati baffi grigi - e che probabilmente si trovava in quel luogo fin dai tempi dell’incoronazione della regina Vittoria - stava alacremente asciugando un bicchiere con uno straccio bianco. Terence sogghignò, chiedendosi se per caso gli osti non attendessero l’ingresso dei clienti per farsi appositamente trovare intenti in quella caratteristica occupazione.
    - Buongiorno, sir! – lo salutò il baffuto barista, sollevando lo sguardo a osservare il distinto giovane vestito con un semplice ma raffinatissimo bespoke blu, chiaramente cucito su misura per lui da un sarto di Savile Row, in un interessante contrasto con la lucente capigliatura color mogano, più lunga di quanto non dettassero la moda e il bon ton tra i gentiluomini londinesi e anticonformisticamente sguarnita di cappello.
    - Buongiorno! – ricambiò il saluto Terence.
    - Come posso servirla, Sir?
    Terence sorrise, ricordando che quando era solito frequentare quel pub, negli anni della sua adolescenza, gli veniva riservata ben altra accoglienza. Soprattutto, doveva ammettere, perché si premurava sempre di arrivare già ubriaco in quella zona della città. Si sentì attraversare dall’ombra di un fremito di vergogna per quella parte della sua vita, e per la sua amplificazione autodistruttiva che aveva toccato il culmine a Rocktown, prima di tornare con uno sforzo a dedicare tutta la propria attenzione all’uomo dietro il bancone di mogano.
    - Vorrei una pinta di birra, grazie – rispose con gentilezza - e qualcosa da mangiare. Cosa mi consiglia?
    - Oggi abbiamo un’ottima shepherd’s pie, Sir! La consiglierei a mio padre, che Dio l’abbia in gloria.
    - Bene, non posso tirarmi indietro, dunque! Me ne dia una porzione abbondante. E gradirei anche quell’ottima sherry trifle tanto decantata dalla lavagnetta alle sue spalle!
    - Ottima scelta, Sir, se mi è consentito. La servo subito!
    L’oste si allontanò per spillare la birra e ordinare il pasticcio di carne in cucina, e Terence ne approfittò per guardarsi attorno e assaporare la calda familiarità di quel luogo. In fondo, sebbene avesse abbandonato da tempo il “Granchester” in coda al suo secondo nome, non poteva negare che la sua anima inglese era solo sopita dentro di lui, ma a quanto pareva sempre pronta a balzar fuori per godere di un momento così autenticamente british nella sua città d’origine.
    Il giovane, con un rilassato sorriso, fece dunque vagare lo sguardo lungo le pareti dello stretto e lungo pub, ricoperte di quadri raffiguranti scene di caccia e di bucolica vita campestre inglese, nella più consolidata tradizione di quei locali.
    All’improvviso, il suo sguardo fu catturato da uno dei dipinti, anonimamente appeso tra tutti gli altri, che calamitò immediatamente il suo istinto prima ancora che la sua attenzione.
    Quella panoramica dall’alto di una verde campagna, spezzata da alti pini e costellata di arbusti di sicomoro e ginepro in fiore tra i quali cresceva, quasi inopinatamente, una maestosa e centenaria quercia… Sebbene avesse visto quel panorama solo una volta e totalmente imbiancato da una fitta tormenta di neve, la forma di quel declivio era impressa a fuoco nella sua mente e non avrebbe potuto sbagliarsi neanche se la forma inconfondibile della Casa di Pony non si fosse stagliata al centro del dipinto, attirandolo verso la tela con la forza di un potente magnete.
    Terence sfiorò il quadro e la dozzinale cornice in cui era incassato con una reverenza quasi sacrale. Il destino non era mai stato prodigo di chiari segnali del proprio volere con lui, preferendo piuttosto acquattarsi nell’ombra per coglierlo di sorpresa come un esperto borseggiatore di Harlem. Quindi, cosa poteva significare il fatto che si fosse imbattuto proprio quel giorno in quel paesaggio che parlava di Candy tramite ogni goccia di colore pennellata sulla tela da mani evidentemente appartenenti a qualcuno che conosceva perfettamente quel luogo?
    Abbassò lo sguardo a leggere la firma posta in basso a destra sul dipinto:
    “Slim”.
    - La sua birra è servita, Sir! – lo richiamò l’oste, distogliendolo dalle sue meditazioni.
    Senza voltarsi Terence continuò a scrutare il dipinto, come a volerne memorizzare ogni dettaglio. Era travolto dalla stessa ondata di forti emozioni che aveva vissuto di persona su quella collina ove si era recato in pellegrinaggio tanto tempo prima, appena sbarcato in America da Londra, quando cercava di stringere un legame col passato della ragazza tanto amata, e che aveva dovuto lasciare suo malgrado dietro di sé.
    - Ditemi, sapete chi ha dipinto questo quadro?
    L’oste si produsse in uno sguardo sbalordito per l’interesse suscitato in quel fine personaggio da un quadro di tanto bassa fattura.
    - No signore, mi dispiace… l’ho comprato al mercato delle pulci qui a Soho qualche mese fa, a dire il vero. Era in una bottega da rigattiere, mescolato a molti altri quadri senza gran valore come questo. Se devo dirla tutta, l’ho comprato solo perché l’edificio che raffigura mi ha ricordato la chiesa del paese di campagna nel quale sono cresciuto…
    - Capisco – Terence fece una pausa, sempre fissando ipnotizzato il quadro. Animandosi all’improvviso, si volse verso il pingue oste che lo fissava incuriosito, appoggiato al bancone alle sue spalle – e sarebbe disposto a vendermelo, buon uomo?
    - Venderglielo, Sir? Ma come le ho detto non vale molto…
    - Per me ha un valore inestimabile – gli rispose il ragazzo, con gli occhi che lanciavano lame ardenti di decisione e di qualche altra forte emozione che l’uomo non riuscì ad identificare.
    - In questo caso, Sir, sarò lieto di rivenderglielo al prezzo al quale io stesso l’ho acquistato… e le assicuro che non è una cifra esorbitante.
    - Ci tengo a pagarle un giusto prezzo, insisto!
    - Assolutamente no, Sir. Ma se proprio vuole sdebitarsi le chiederei la gentilezza, quando avrà finito il suo pasticcio di carne, di complimentare un po’ la mia signora che l’ha cucinato… Oggi è il suo compleanno e qualche ossequio extra le allieterà la giornata – il simpatico omone era arrossito nel formulare quella richiesta così personale – Sempre che le piaccia davvero lo shepherd’s pye, s’intende, Sir! Ma non ho dubbi in proposito: la mia Harriett è la cuoca migliore di Londra, garantito!
    Terence sorrise. Era emozionante vedere le infinite forme che l’amore poteva assumere, una delle quali si era imprevedibilmente materializzata sotto i suoi occhi, lì tra le pareti del Dog & Duck, nelle rubiconde gote di un oste londinese, diventate ancora più paonazze al solo nominare la moglie palesemente adorata.
    - Qual è il suo nome?
    - Ned Pickwick, Sir!
    - Bene, Ned. Sarò onorato di gustare tale prelibatezza e di rendere il giusto onore alla sua consorte se, come sono certo, sarà all’altezza delle lodi da lei cantate!
    Dopo aver gustato una doppia porzione dell’effettivamente prelibato pasticcio di carne di Mrs. Pickwick, Terence aveva reso indimenticabile la giornata della cuoca, recandosi personalmente nelle cucine per palesarle tutta la propria ammirazione e complimentarsi per lo strepitoso piatto. Quando si era accomiatato da lei con un impeccabile baciamano, la donna, già duramente messa alla prova dal paio di occhi più straordinari mai visti in vita sua e da quel fisico slanciato perfettamente rivestito da un abito su misura che ne esaltava la naturale eleganza, temette di svenire. Terence si accomiatò dalla simpatica coppia con una piacevole sensazione di benessere, portando con sé sotto il braccio il quadro di Slim.
    Fischiettando allegramente tornò verso il Ritz, da dove avrebbe raccolto il suo bagaglio per dirigersi finalmente al porto di Southampton e lasciare l’Inghilterra, alla volta di quel futuro di cui il dipinto che portava sotto il braccio rappresentava un auspicio… si sarebbe occupato in seguito di capire se positivo o negativo.
    Per il momento, voleva limitarsi a godere di quel frammento di impagabile ottimismo che le ultime due ore gli avevano donato.

    1Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati alla vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra di loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o microeventi, si succedono in un tempo brevissimo. Forse nemmeno ad avere tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni.
    Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta, suoni, immagini, analogie, ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza, la memoria, la fantasia, l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente per accettare e respingere, collegare, e censurare, costruire e distruggere.
    (Gianni Rodari: La Grammatica della Fantasia, Einaudi, 1997)


    2Gioco di parole con “My Fair Lady”, il musical tratto dal Pigmalione di G.B. Shaw e messo in scena a Broadway per la prima volta nel 1956.


    [continua]


    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è ->QUI<-

    Edited by Cerchi di Fuoco - 27/10/2020, 12:23
     
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