Gli Smeraldi e lo Zaffiro

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  1. Cerchi di Fuoco
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    "Se fuggire fosse una soluzione, io sarei fuggito da te già da tanto tempo"

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    Capitolo 3°: Regina bianca e regina nera


    Capitolo_3



    Aberfoyle, Loch Lomond,
    Scozia,

    01 aprile 1919

    Terence fissava la pregiata scacchiera di madreperla ed ebano che uno dei suoi antenati, evidentemente appassionato del gioco degli scacchi, aveva fatto intagliare da qualche artigiano del XVIII secolo, probabilmente lo stesso Maggiolini. I due re, i pezzi più importanti, quelli da cui dipendeva la vittoria o la sconfitta, erano al centro degli schieramenti, l’uno di fronte all’altro, ma la sua attenzione era completamente attratta dalla regina bianca. Anche se il re rappresentava il pezzo determinante della partita, era la Regina la vera anima di quel gioco, colei che con i suoi movimenti poteva modificare ogni strategia. Ogni mossa della partita era una continua danza per conquistarla e indirizzare così il corso del gioco. Lasciarla andare significava perdere tutto.
    La grande biblioteca del castello scozzese dei Granchester era immersa nei giochi di ombre riverberati dalla tenue luce di lumi posizionati negli angoli strategici della stanza, mescolata al riflesso cremisi e dorato delle fiamme scoppiettanti all’interno dell’imponente camino di pietra. L’effetto era di particolare intimità, nonostante le dimensioni dell’ambiente dall’altissimo soffitto a volta. Le pareti, laddove non ricoperte di librerie, erano guarnite di drappi e tendaggi vellutati che coprivano le porte-finestre e nascondevano un cielo stellato come Terence ricordava di averne visti solo nelle notti scozzesi della sua infanzia e adolescenza. A Londra e New York, infatti, le mille luci della metropoli coprivano con la loro artificiosa luminescenza il puro riflesso degli astri, che tornava a ipnotizzarlo con il suo più limpido e profondo splendore dal cielo della sua Scozia. Come alla volta celeste, anche a lui nel tornare in quei luoghi era sembrato di lasciar scivolare via gli artifici e la corazza di Terence Graham, della quale si era rivestito all’atto di lasciare l’Inghilterra in sostituzione di quella precedentemente fornitagli dal nome dei Granchester.
    Granchester Manor, seconda per ordine di importanza tra le proprietà di famiglia solo alla casa di rappresentanza a Londra, nel cuore del giovane era indissolubilmente legata, più che al nome che portava e che rivendicava la propria storia da ogni angolo dell’edificio, all’estate del suo amore. Nell’enorme crogiolo di contrastanti sentimenti che lo avevano turbato dal momento in cui aveva letto la lettera del padre e aveva deciso di seguire il cuore e rispondere al suo accorato richiamo, c’era stato posto anche per il sollievo al pensiero che quell’incontro così temuto, sospirato, rimandato nella sua ineluttabilità, si sarebbe svolto lì ad Aberfoyle, tra le dolci colline del Loch Lomond che lo avevano visto amare, anziché tra le tetre pareti neoclassiche di Granchester House a Londra, che conoscevano solo la sua rabbia e il suo rancore. O addirittura, Dio non volesse, a Windermere, la più recente tra le residenze dei Granchester, scelta dalla sua matrigna e nella quale lui si era sempre rifiutato di recarsi.
    Stringendo in una mano la regina di candido avorio, Terence si spostò verso il camino, davanti al quale e sopra a un folto tappeto era posizionato un divano di velluto cremisi, guarnito da diverse coperte di lana ripiegate sullo schienale. Terence vi prese posto e si sporse verso il fuoco con i gomiti poggiati sulle ginocchia. Rigirando tra le mani il pregiato pezzo degli scacchi, gli occhi di zaffiro che brillavano più del fuoco ardente che vi si rifletteva, si smarrì ancora una volta nei suoi ricordi di un’estate lontana, di un altro fuoco.
    Di un’altra vita…

    Terence accende le candele in giro per la stanza fino a quando tutto è circondato da un meraviglioso bagliore. All’improvviso all’esterno esplode un tuono e la pioggia comincia a scrosciare con un rumore simile a quello di un’onda che si infrange sugli scogli. Le finestre, che erano state chiuse per impedire al temporale di rovesciarsi all’interno, tremano sotto l’attacco di vento e pioggia, e taglienti spifferi penetrano dagli interstizi delle finestre.
    Di colpo, Candy rabbrividisce dal freddo e si stringe le braccia attorno alla vita.
    Terence scompare all’improvviso, per riapparire poco dopo recando con sé una vestaglia bianca dalla stanza accanto.
    - Metti questa…
    La vestaglia di seta che Terence le pone esitante sulle spalle emana un tenue e dolce profumo.
    - È la vestaglia di mia madre… spiega Terence esitante, voltandosi dall’altro lato.
    Candy alza di scatto il viso dalla vestaglia e il suo sguardo incrocia gli occhi di Terence dietro di lei; entrambi leggono la confusione negli occhi dell’altro.
    - Terry… vuoi dire…?
    - Eleanor Baker ha detto di riferire alla ragazza con le lentiggini che spera che in futuro le cose le vadano per il meglio.
    - Davvero? e...Terry…
    È più che abbastanza. Terence sa che senza bisogno di parlare Candy ha capito come lui e sua madre si siano riappacificati, superando tutte le proprie incomprensioni e lasciando parlare solo il cuore.
    Felice, Candy si stringe addosso con decisione la vestaglia un po’ troppo grande per lei. I suoi occhi sono diventati lucidi. Terence non aggiunge altro su sua madre e comincia ad accendere il fuoco nel camino. È piuttosto esperto in quel compito e le fiamme divampano in un attimo. Il colore intenso del fuoco si riflette negli occhi di Candy.
    - Vieni vicino al fuoco!
    Quella frase in realtà vuole dire: “Vieni vicino a me!”.
    Terence si sente insolitamente nervoso.
    Candy obbediente si avvicina al camino e siede sul tappeto di pelliccia. Prende a riscaldarsi le mani al calore del fuoco.
    - È caldo…
    Il riflesso delle fiamme danza sul profilo di Candy. Terence la fissa in silenzio.
    - Quella notte ho acceso un fuoco. Lei ed io siamo stati qui fino al mattino seguente, solo guardando la fiamma… Anche se non abbiamo parlato di niente di specifico, ho scoperto che lei avrebbe voluto vivere con me e il duca di Granchester, se fosse stato possibile, molto più che raggiungere il successo come attrice… se fosse stato per mio padre non lo avrei mai saputo... e quel che è peggio, se fosse passato solo un altro po’ di tempo l’avrei cacciata via. E avrei compiuto un gesto dal quale non sarei più stato in grado di tornare indietro.
    Terence torna a rivolgere un sorriso che nasce direttamente dal cuore a Candy, la quale improvvisamente si volta sorridendo.
    Ci sono messaggi che si trasmettono con molta più forza con un sorriso che con le parole. Il cuore di Candy si riscalda completamente e quello di Terence sussulta.
    In quel momento il tempo sembra fermarsi. La mano di Terence si avvicina a Candy, esitante… ma poi, quando si trova a pochi millimetri dalle sue labbra si ferma e l’abbassa lentamente, come in preda a una improvvisa paura.
    Candy sospira, tornando a fissare il fuoco.
    - C’è un camino anche alla casa di Pony. Miss Pony e suor Maria ci arrostiscono sempre i marshmallow.
    - Le tue storie sono sempre piene di cibo.
    Il tempo riprende a scorrere e la tensione di Terence si stempera in un sorriso, mentre si stiracchia le gambe sul tappeto.
    - Mi piacerebbe venire alla casa di Pony, prima o poi, e vorrei anche vedere l’albero sul quale ti sei esercitata per il tuo ruolo di Tarzan.
    - Davvero? Devi assolutamente venirci, va bene?
    Parlano a lungo. Candy racconta a Terence dello zio William e di quanto per lei sia importante diventare una vera signora per far sì che lui possa essere orgoglioso di lei. Gli chiede di insegnarle a suonare uno strumento, cosa che le risulta particolarmente ostica tra le mille nozioni da assimilare alla St. Paul School.
    Terence si alza, resistendo all’impulso di abbracciare stretta Candy, che ha sul volto un sorriso brillante.
    Il fuoco si sta dissolvendo e il suono della pioggia va spegnendosi, la luce del sole comincia ad inondare la stanza filtrando dalle finestre.
    Candy si alza e fissa con ammirazione le pareti rivestite di librerie, soffermandosi in particolare sulle opere di Shakespeare.
    Quando sua madre è ripartita, ha chiesto al figlio di seguirla in America per studiare recitazione. Deve aver percepito che Terence ha maturato un’intensa passione per il teatro.
    “Se fosse successo prima, sarei andato via con lei… Candy, se fosse successo prima di incontrarti…”.
    Terence la guarda con occhi pieni di desiderio mentre lei continua a fissare la moltitudine di libri... 1


    Aggredito dalle fiamme, un ciocco di legno nel camino crepitò forte e lo scoppiettio ricondusse Terence repentinamente al presente, gli occhi accesi dalle emozioni che aveva rivissuto e le guance arrossate per la vicinanza del fuoco. I capelli del colore del mogano risplendevano di bagliori ramati che si animavano e spegnevano allo stesso ritmo del fuoco scoppiettante.
    “Se solo avessi saputo, Candy, quanto breve sarebbe stato ancora il nostro tempo insieme!”
    Continuando a tenere stretta in mano la regina bianca degli scacchi, Terence si adagiò indietro sullo schienale, allungando elegantemente le gambe davanti a sé. Quindi tese una mano a prendere una delle morbide coperte di lana sullo schienale del divano e si coprì con essa, rilassando mente e corpo in attesa del sospirato sonno a dargli ristoro.
    Nei suoi primi giorni a Granchester Manor, alloggiato nella vecchia stanza che aveva occupato da ragazzo, gli era stato altrettanto difficoltoso trovare requie quanto nelle infinite notti newyorkesi. Nelle ultime settimane, invece, aveva preso l’abitudine di trascorrere un paio d’ore dopo cena nella camera di suo padre, conversando e leggendo per lui ad alta voce prima di lasciarlo al riposo necessario alla sua convalescenza, accudito da un’infermiera notturna. Allora Terence si ritirava in biblioteca, dove sembrava che i suoi mille demoni non avessero accesso, tenuti fuori da un guardiano invisibile, e dove aveva scoperto di non faticare affatto a prendere sonno sul divano di fronte al camino, cullato dal riflesso del fuoco e dai suoi ricordi.
    “È il tuo effetto, Tuttelentiggini. Hai lasciato la tua scia di serenità in questi luoghi e, a distanza di tanto tempo, continuo a trarne beneficio. Solo tu hai questo effetto su di me. Solo grazie a te ogni tempesta si placa nel mio cuore…” riflettè tra sé, un sorriso malinconico sulle labbra e negli occhi il riflesso di visioni lontane.
    A poco a poco le palpebre si fecero più pesanti e Terence si assopì con un lieve sorriso a increspargli appena le labbra.

    Chi è colpito di cecità
    non può dimenticare il prezioso tesoro
    della sua vista perduta.
    Mostrami ora una donna di bellezza insuperata:
    a che mi servirà la bellezza
    se non da foglio su cui leggere il nome
    di quella che supera questa bellezza insuperata?
    Addio, a scordare non potrai insegnarmi. *



    _________________________



    Aberfoyle, Loch Lomond,
    Scozia

    04 dicembre 1918


    Alla fine di novembre Terence aveva lasciato New York con il piroscafo Aquitania. Robert Hathaway aveva organizzato la sostituzione più indolore possibile per i ruoli del suo primo attore nella tournée che avrebbe occupato la compagnia nei successivi quattro mesi su e giù per la costa orientale. Dopo aver faticato non poco a trovare un biglietto per l’Europa in quei giorni di delirio post-bellico, Terence aveva compiuto come in un sogno ovattato la traversata di cinque giorni ed era sbarcato a Liverpool, da dove aveva proseguito in treno per la Scozia.
    Al suo arrivo in Inghilterra era stato enormemente colpito dall’aspetto della città. La guerra non era passata senza lasciare tracce: lungo le vie erano ancora visibili i segni dei bombardamenti e per strada circolavano migliaia di uomini in uniforme, diversi dei quali portavano nel corpo i segni delle ferite riportate in guerra. In generale tutto era avvolto da un senso di devastazione materiale e morale dalla quale l’Europa cercava faticosamente di rialzarsi.
    A poco a poco, allontanandosi in treno da Liverpool e inoltrandosi nella campagna verso nord, i segni della guerra sfumavano e i territori della Cumbria e del Norfolk gli offrirono il noto e rasserenante paesaggio di colline verdeggianti e laghi trasparenti. Sebbene avesse tentato di rompere totalmente con quel passato, a mano a mano che si avvicinava alla Scozia le radici tornavano a reclamare il proprio tributo di emozioni sopite. Terence non poté non ammettere con se stesso di provare una sensazione di familiare dolcezza nello scendere alla piccola stazione di Aberfoyle, a mala pena visibile in quella nebbia liquida di umidità che riconobbe così familiare. Il capostazione, il vecchio Cavendish dalla pipa perennemente pendente a un lato della bocca, si toccò il cappello con deferenza, come se Terence fosse mancato da quei luoghi soltanto per pochi giorni anziché da quasi sei anni. Gouz, l’autista tuttofare di Granchester Manor, lo aspettava per riportarlo a casa con una delle carrozze di famiglia. Pioveva la pioggia fitta e incessante che a quelle latitudini cadeva senza soluzione di continuità da ottobre a dicembre, quando finalmente cessava all’improvviso e senza apparente motivo per cedere alla neve lo scettro di regina dell’inverno. Gouz caricò il bagaglio sul retro della carrozza parcheggiata davanti alla stazioncina; il simbolo dei Granchester dipinto sulla fiancata produsse in Terence l’effetto di una scossa elettrica: all’improvviso tutti i dubbi che avevano tormentato il suo viaggio fin dal momento in cui aveva aperto la lettera fatale tornarono ad assalirlo con forza.
    Non poteva negare di essere stato profondamente turbato fin nel profondo dell’anima dalla lettera in cui, per la prima volta, il freddo duca della sua giovinezza sembrava aver lasciato il posto alle emozioni e all’affetto di un vero genitore. Le frasi con cui aveva cercato di arrivare al suo cuore erano riuscite ad aprire una crepa nel muro di rabbia e risentimento, edificato mattone per mattone negli anni dell’infanzia solitaria da quel bambino sensibile, tenuto a distanza dal padre e apertamente odiato e umiliato dalla presunta madre. Quel muro era stato poi cementato dalla scoperta del vile ruolo che il padre aveva interpretato nella fine della sua relazione con Eleanor. E Terence aveva poi definitivamente sollevato il ponte levatoio sul fossato che lo separava dal padre nel momento in cui, impotentemente furioso, era stato travolto dalla consapevolezza di averne replicato il copione, come in una sorta di maledizione familiare tramandatasi di generazione in generazione.
    Se il duca gli avesse indirizzato una lettera eccessivamente compassionevole o, al contrario, nel tono autoritario che ben ricordava, Terence non ne sarebbe stato toccato come lo era stato dalla profonda dignità che aveva letto nelle parole composte di quel padre che, con grande lucidità, di fronte alla morte aveva ripensato al suo passato e trovato il coraggio di chiedere a lui e a sua madre perdono per gli errori del passato.
    Sua Grazia, l’uomo al cui cospetto solo la famiglia reale e pochi altri Pari d’Inghilterra erano esentati dall’obbligo di chinare il capo.
    Terence non sapeva se ciò sarebbe stato sufficiente a iniziare un nuovo corso, a ricomporre tutte le fratture e a superare tutto il male che era corso tra loro come un fiume inquinato da torbide acque nere. Ma sentiva che doveva guardarlo in faccia e capire quanto il tempo avesse ammorbidito la rigida inflessibilità di quell’uomo. E, cosa ancora più importante, quanto il tempo avesse lenito -se lo aveva fatto- le ferite che lui stesso recava nell’anima e per le quali da troppo tempo incolpava il genitore. Per Terence era importante appurare se un reale e sincero mutamento potesse effettivamente essersi prodotto nel padre, non solo per ricucire il suo rapporto con lui, ma anche perché ciò avrebbe significato che poteva ancora nutrire una speranza di riparare agli errori da lui stesso commessi. Verso suo padre, certo. Ma soprattutto verso la dolce Giulietta che aveva lasciato scivolare via dalla sua vita senza saperla fermare.
    All’arrivo al castello, Terence aveva alzato lo sguardo per fissare l’austera facciata secentesca, con le sue mura merlate, torri e balconate. Come gli erano sembrate lontane le mille luci di New York! E quanto vicina la sua infanzia e giovinezza…
    La duchessa e i fratellastri grazie al cielo si trovavano a Windermere, cosa che Terence aveva accolto come la migliore delle notizie da parte di Mrs. Gouz. La fedele e affezionata governante che aveva maternamente accudito nelle solitarie estati della sua adolescenza un ragazzo alto e magro dalla capigliatura ribelle e dagli occhi malinconici, aveva represso a stento calde lacrime di commozione nel vedersi comparire dinanzi un uomo affascinante ed elegante: i capelli come allora più lunghi di quanto la moda imponesse ma pettinati più sobriamente, ad esaltare i lineamenti perfetti, tirati per la tensione del prossimo incontro con il padre. L’aristocratica bellezza del giovane era esaltata da un semplice ma impeccabile abito di sartoria grigio sopra una camicia nera e da uno sguardo ancora profondamente malinconico, dietro il quale la donna aveva però intuito la stessa fiamma di un tempo covare sotto la cenere.
    Dopo averla salutata con affetto, Terence aveva ripiegato il cappotto nero con cura sulla panca imbottita di fianco all’ingresso e, in un silenzio assorto, si era diretto verso la scalinata che portava al piano superiore, dove il padre riposava nella camera da letto patronale.

    Con il cuore in gola e la mano aggrappata alla maniglia per bloccarne pervicacemente il tremito, Terence bussò e una infermiera di mezza età in uniforme candida si affrettò ad aprirgli la porta della camera da letto. Senza bisogno di presentazioni, la donna gli si rivolse con deferente efficienza, facendogli cenno di accomodarsi nell’anticamera da cui si apriva l’ingresso alla camera vera e propria, che si poteva già intravedere attraverso l’arco scolpito nella parete di fronte:
    - Lei deve essere il figlio di Sua Grazia, il Marchese? - Terence sussultò, imbarazzato nel sentirsi appellare con quel titolo dimenticato - Sono nurse Robbins, l’infermiera diurna. Sua Grazia la sta aspettando. Abbiamo appositamente posticipato di un’ora il suo cordiale pomeridiano: Sua Grazia ci teneva ad essere il più lucido possibile per il suo arrivo. Devo avvertirla, però: potrebbe fare fatica ad abituarsi al suo aspetto, se non lo vede da prima del suo malore. Il fisico è fortemente indebolito e potrebbe anche notare un lieve cedimento del lato destro del volto e del corpo, per fortuna non totale e, anzi, in fase di regressione. Il dottore infatti ritiene che all’infarto si sia sommata anche una piccola ischemia.
    - Vorrei parlare con il dottore domani, se possibile, nurse Robbins – interloquì Terence, fortemente preoccupato per le parole dell’infermiera.
    In che condizioni realmente era suo padre? Qual era la gravità del suo stato? Il fatto che fosse stato in grado di scrivere di suo pugno (era la sua grafia, su quello non nutriva dubbi di sorta) la lunga confessione a cuore aperto che aveva letto lo aveva inizialmente rasserenato, ma adesso le parole di nurse Robbins riaprivano le porte all’ansia. Terence si stupì di provare un così sincero coinvolgimento e turbamento per lo stato di salute di un uomo che si era impegnato con tutte le proprie energie a cancellare dalla sua vita negli ultimi cinque anni.
    - Sir Pritchard, il medico personale di Sua Grazia, sarà qui domani mattina e potrà aggiornarla con dovizia di particolari sulle sue condizioni, signor Marchese.
    - Le sarei grata se potesse chiamarmi semplicemente Mr. Granchester, nurse Robbins.
    Terence vide gli occhi della donna sgranarsi subitaneamente per lo stupore, e capì quanto quell’esemplare suddita conservatrice di Sua Maestà potesse essere rimasta turbata dall’anticonformismo di un futuro Pari d’Inghilterra che chiedeva di non anteporre il proprio titolo al nome. Tuttavia, l’infermiera chinò il capo e acconsentì, come riteneva fosse preciso dovere di una donna del suo rango al cospetto di ordini provenienti dall’autorità feudale. Persino i più fantasiosi, come quello appena ricevuto.
    - Molto bene, signor Mar… Mr. Granchester. Se è tutto, io mi recherei nelle cucine per un tè con Mrs. Gouz. Il mio turno termina alle sei del pomeriggio, quando nurse Simmons, l’infermiera di notte, viene a darmi il cambio.
    - Le sono molto grato, nurse Robbins. Vada pure. A domani! – le rispose Terence rivolgendole per la prima volta il suo sorriso, quel raro sorriso che non mancava mai di produrre un incantesimo su chiunque fosse così fortunato da esserne il destinatario, e che fece tremare le gambe alla donna. Il marchese era veramente il giovane più bello che avesse mai visto in vita sua. Sua Grazia era un uomo affascinante, certo, sebbene la purezza dei suoi lineamenti fosse al momento lievemente alterata dalla paresi. Ma il figlio possedeva in aggiunta quel qualcosa di indefinibile che lasciava senza fiato una donna, ecco cosa pensava Mrs. Robbins. Fortunatamente lei non aveva venti anni di meno, altrimenti Mr. Robbins avrebbe avuto il suo bel daffare per farle togliere dalla testa quel giovane, quella sera.
    Rimasto solo, Terence trasse un profondo respiro e si diresse a passo lento verso la camera da letto. Ogni passo che lo avvicinava all’arco che dava accesso alla camera vera e propria, gli apriva uno squarcio di visuale della stanza sempre più ampio, con lo stesso intenso effetto di un sipario che venisse lentamente aperto a mostrare porzioni sempre più vaste della scena principale di un dramma.

    1Questo brano è una libera e non ufficiale traduzione, da me fatta prima della pubblicazione italiana di Final Story, da traduzioni amatoriali giapponese-inglese. La versione ufficiale italiana, nell’edizione della Kappalab, si trova in: Keiko Nagita, Final Story, Volume II, Pagine 66-71.

    *Romeo e Giulietta, Atto I, Scena II

    [continua]



    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è->QUI<-
     
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