Gli Smeraldi e lo Zaffiro

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Cerchi di Fuoco
        +9   +1   -1
     
    .
    Avatar

    "Se fuggire fosse una soluzione, io sarei fuggito da te già da tanto tempo"

    Group
    Writer ff
    Posts
    9,725
    Reputation
    +6,331

    Status
    Anonymous

    Capitolo 2°: Anime che provengono dallo stesso luogo


    e6vS9my



    Lakewood, Illinois,
    22 gennaio 1919

    Nuvole plumbee si specchiavano sulle acque del lago Michigan, conferendo a tutto il paesaggio circostante il tetro colore della malinconia. I rami spogli degli alberi ai due lati del viale ricamavano su quello sfondo grigio delle linee intrecciate, simili a scuri e netti tratti di pennello schizzati da un artista visionario direttamente sul cielo. L’aria gelida nelle campagne attorno al lago sembrava cristallizzare la profonda tristezza del gruppo di persone che si allontanava dal cimitero a passo lento e sotto grandi ombrelli neri, al riparo dalla pioggia che da giorni cadeva incessante. Era come se dal cielo stessero cadendo altre lacrime, in aggiunta a quelle che erano state appena versate alle esequie della zia Elroy.
    La famiglia Andrew si era riunita compatta, come sempre soleva fare in occasione di matrimoni e funerali quella grande e ramificata famiglia, sparsa ormai in tutto il mondo.
    Gli unici assenti erano i coniugi Cornwell, i genitori di Archie e Stear. Sarebbe stato impossibile aspettare il loro rientro dall’Africa per dare l’estremo saluto alla defunta, in considerazione del caos che ancora regnava in Europa dopo la fine della guerra e degli sconvolgimenti che l’avevano seguita. Germania e Italia sembravano sull’orlo del collasso istituzionale, rivolte e insurrezioni erano all’ordine del giorno e nessuno era in grado di dire come si sarebbero assestati i nuovi ordini politici interni. Gli occhi di tutto il mondo erano puntati sulla Russia, teatro da più di un anno di una sanguinosa guerra civile seguita alla Rivoluzione Bolscevica.
    Al funerale della zia Elroy era invece intervenuto Vincent Brown, il vedovo di Rosemary Andrew e padre di Anthony il quale, dopo essersi ritirato a vita privata e aver posto fine ai suoi pellegrinaggi per mare, si era trasferito in un tranquillo cottage sulle rive del lago Michigan, nei pressi del confine tra l’Indiana e l’Illinois. L’uomo vi conduceva una ritirata esistenza, non mancando di far visita frequentemente alle tombe della moglie e del figlio adorati. Nonostante i suoi rapporti con la zia Elroy non fossero mai stati dei migliori, essendosi la matriarca opposta strenuamente alle nozze dell’amata nipote con quel “marinaio”, come da lei definito, dalle origini non considerate all’altezza del blasone degli Andrew, Vincent non aveva voluto mancare all’ultimo saluto a una figura così importante nella vita della donna che aveva amato con tutto se stesso. Sotto un grande ombrello scuro, l’uomo incedeva dignitosamente e solitariamente dal cimitero verso la villa di Lakewood, a capo chino e immerso nei ricordi di un passato troppo costellato dalle morti di coloro che gli erano stati più cari per poter essere condivisi con alcuno.
    La famiglia Legan era appositamente rientrata da Miami, dove si era ormai definitivamente stabilita per concentrarsi sul business dei resort di lusso, settore in quel periodo in forte espansione negli Stati Uniti. L’aristocrazia del denaro dell’intera costa orientale stava scoprendo la Florida, e il suo clima costantemente mite, quale luogo ideale in cui trascorrere una serena e privilegiata vecchiaia o dove trovare rifugio dalla grande epidemia d’influenza che divampava in tutto il paese, con particolare virulenza in città come Boston e New York, più cosmopolite e meglio collegate al resto del mondo.
    Il signore e la signora Legan si erano ritagliati in quegli anni un ruolo di primo piano nell’èlite di Miami e avevano moltiplicato le ricchezze di quel ramo della famiglia, anche se qualcuno sussurrava che ad avere ingrossato i loro svariati conti bancari non fossero stati introiti totalmente limpidi. Ma in un paese che stava facendo dell’imprenditorialità, della legge del più forte e dell’assenza di scrupoli il fondamento del “sogno americano” queste voci non avevano intaccato la reputazione della famiglia, che continuava a offrire sfoggio di ricchezza ai più sontuosi e sfarzosi ricevimenti di Miami. Era stato in occasione di una festa di capodanno due anni prima che Neal aveva conosciuto Clelia, la figlia del governatore della Florida Sidney Johnston Catts. Dopo una breve frequentazione, il loro fidanzamento ufficiale era stato annunciato da una Sarah Legan in visibilio, felice di avere finalmente lavato l’onta della rottura tra il figlio e quella orribile trovatella che li aveva umiliati pubblicamente davanti a tutta Chicago. Clelia era la classica bellezza del sud dai lunghi boccoli biondi, le gote rosate e modi ossequiosi e remissivi; soprattutto, possedeva una dote equamente divisa tra ricchezze e solida reputazione familiare, che ne facevano la sposa ideale per quella avida e superficiale famiglia, nonché per un Neal che l’età aveva reso ancora più scontroso e più arrabbiato col mondo, nonché incattivito dalla perenne sensazione di essere in credito con un destino avverso. La sua educazione si era fermata agli anni della St. Paul School, e i tentativi del padre di assegnargli un impiego di facciata nell’azienda di famiglia da cui non provocasse troppi danni erano falliti di fronte alla sua sempiterna indolenza. Il matrimonio con Clelia Johnston Catts avrebbe quindi costituito il degno coronamento di un’esistenza vacua e improduttiva, la cui ovvia conclusione lo avrebbe visto in una delle grandi residenze di campagna della Florida, sotto un portico verniciato di bianco e tra alberi di magnolia. Di quell’aristocratica nullafacenza i grandi proprietari terrieri degli Stati del sud si facevano un vanto e continuavano orgogliosamente a esibirla come tratto culturale distintivo a distanza di più di cinquant’anni dalla fine della guerra civile.
    Iriza aveva seguito le orme della madre ed era diventata una delle regine dei salotti di Miami, nonché una delle più corteggiate signorine della buona società cittadina. Eppure, nonostante i molti ammiratori collezionati, aveva ricevuto ben poche proposte di matrimonio, con grande sconcerto dei genitori. Quella sua attitudine malevola (nonché l’indole egoistica e autoreferenziale che continuavano ad essere i tratti dominanti della sua personalità) emergevano immancabilmente con chiunque scavasse oltre la superficie del rapporto con lei, determinando la fuga repentina di coloro che erano dotati di carattere limpido o l’emergere degli istinti meno onorevoli negli spiriti più affini al suo. A preservarne la virtù dagli attacchi di questi ultimi aveva provveduto il più forte dei suoi moventi: l’ambizione a realizzare un ottimo matrimonio, per il quale l’illibatezza costituiva il miglior viatico.
    Alla fine, aveva ceduto alla corte di un socio in affari del padre, Louis De François Vouilleres, un mercante e imprenditore immobiliare, vedovo di mezz’età piuttosto affascinante e dalle sconfinate quanto oscure ricchezze che, a suo dire, vantava tra i propri avi una famiglia giunta in Louisiana insieme ai primi colonizzatori francesi nel XVII secolo.
    Di fronte alla scelta tra il buon nome e il denaro, Iriza aveva optato per il secondo, certa che le sarebbe stato poi sempre possibile comprare il primo. E tale analisi era stata la più acuta che quella mente ristretta, per il resto esclusivamente dedita a valutare il colore più alla moda e le pettinature più in voga per la stagione in corso, avesse elaborato fin dall’infanzia.
    La coppia si era sposata l’estate precedente e da allora Iriza si era trasferita a New Orleans nella residenza di famiglia del marito dove, colti finalmente con il matrimonio i frutti degli anni di forzata virtù, si era immediatamente calata nella sfrenata ed eccitante vita della capitale del divertimento, negli anni d’oro della nascita del jazz e della stella di Louis Armstrong, approfittando dei lunghi viaggi di affari del marito per darsi a una serie di promiscue relazioni. Si chiacchierava che Louis, a sua volta, avesse almeno un altro paio di famiglie clandestine sparse tra la Louisiana e il Mississippi.
    I contatti della nuova signora De François Vouilleres con la famiglia d’origine, eccezion fatta per la madre, con la quale manteneva una stretta corrispondenza epistolare, erano ridotti al minimo dopo lo smacco costituito dal rifiuto di tutti gli Andrew di Chicago di partecipare alle sue nozze nel luglio precedente - e di ammirare così lo scandaloso e volgare sfoggio di ricchezza che ne aveva costituito la pacchiana cornice.
    I coniugi Archibald e Annie Cornwell avevano comunque avuto ottimi motivi per declinare quell’invito: Annie all’epoca non avrebbe potuto affrontare il lungo viaggio, essendo proprio a metà della gravidanza da cui sarebbero nati i gemelli Pauline e Alistear, primi esponenti di una nuova generazione di Andrew. La zia Elroy aveva avuto una delle ultime gioie della sua vita proprio nel tenere tra le braccia i suoi primi pronipoti. Aveva però causato sconcerto la scelta del nome della piccola, non legato alle storie familiari né degli Andrew né dei Brighton, anche se in pochi avevano potuto cogliere il riferimento alla madre del cuore di Annie, Pauline Giddings, alias Miss Pony. La signora Brighton aveva reagito nel peggiore dei modi alla scelta della figlia, e in pochi avrebbero saputo dire se a sconvolgerla di più fosse il fatto che la fanciulla avesse voluto così rendere omaggio alla donna che l’aveva allevata negli anni dell’infanzia, o il timore che la verità sulle oscure origini della figlia adottiva potessero venire alla luce, timore che ancora turbava le sue notti.
    Nessuno aveva invece trovato alcunché da ridire o aveva avuto il minimo dubbio sull’origine del nome del piccolo Alistear, giacché la ferita apertasi con la morte del fratello non si era mai rimarginata nel cuore di Archie, al quale da allora sembrava di aver perso una parte di sé. Era come se il giovane fosse maturato improvvisamente in un giorno in cui aveva suonato la cornamusa in solitudine sulla tomba del fratello e del cugino Anthony, dicendo così addio alla sua fanciullezza. Abbandonati i vezzi da dandy, Archie si era rivelato un giovane uomo maturo, assennato e con la testa sulle spalle, con un talento spiccato per gli affari e la volontà di metterlo al servizio dell’azienda di famiglia. All’inizio del 1918, al compimento della maggiore età, era stato inserito dallo zio William nel consiglio d’amministrazione della Andrew Enterprises, il consorzio di ramificate attività che toccavano tutti i settori del business e che ponevano la famiglia Andrew nell’élite finanziaria ed economica degli Stati Uniti insieme agli Astor, ai Vanderbilt e ai Rockefeller. Poco dopo, a coronamento di un lungo fidanzamento, aveva sposato Annie Brighton, la dolce e fedele compagna devotamente al suo fianco fin dai tempi della scuola, sebbene fino alla fine la zia Elroy, istigata dai Legan, avesse fatto di tutto per ostacolare il matrimonio e si fosse piegata solo di fronte all’endorcement verso la coppia del capofamiglia William.
    Tutti i convenuti alle nozze avevano unanimemente affermato che non si era mai vista in tutta la storia di Chicago una sposa più radiosa e bella di Annie; e quando la giovane, con gli occhi lucidi di gioia aveva sussurrato il suo “lo voglio”, con una voce tremante che esprimeva tutto il profondo amore per l’uomo di fronte a lei, Archie non era stato l’unico a essere percorso da un brivido nella grande Holy Name Cathedral di Chicago.
    Annie era maturata molto dagli anni dell’infanzia e dell’adolescenza ed era sbocciata in una splendida, matura e consapevole giovane donna grazie alla certezza dell’amore di Archie, del quale in passato aveva avuto più di un’occasione per dubitare. Sapeva bene che era stato solo il disinteresse di Candy verso un legame sentimentale con il cugino adottivo a spingere il marito tra le sue braccia, ai tempi della scuola. Ma la sua devozione, la sua dolcezza e il suo amore, uniti alla nuova maturità di Archie stimolata dal dolore per la morte dell’amato fratello, avevano fatto dissolvere il velo che fino a quel momento aveva impedito al giovane Cornwell di rendersi conto di quale compagna avesse al fianco silenziosamente da anni.
    Il giorno in cui si era inginocchiato di fronte a lei, porgendole il più meraviglioso dei brillanti e chiedendole con voce spezzata se avrebbe trascorso tutto il resto della sua vita con lui, Annie aveva visto negli occhi di Archie tutto l’amore che aveva sempre sognato di scorgervi e aveva capito che il suo lungo viaggio era terminato. Si era gettata felice tra le sue braccia e aveva sussurrato il “sì” più convinto della sua vita, nel porto sicuro tra le braccia dell’uomo che aveva sempre amato e dal quale adesso si sentiva parimenti riamata.
    Questa nuova consapevolezza di sé si era rafforzata con la maternità e con la nascita dei gemelli, e i coniugi Cornwell conducevano adesso un’esistenza appagata e felice nella villa degli Andrew di Chicago, inseriti nella vita sociale della città come si conveniva al loro rango, ma senza ostentazioni di opulenza. Annie, impegnata tra l’altro in varie attività benefiche in favore dei familiari dei soldati caduti in guerra, traeva tutta la sua gioia dal riempire d’amore e attenzioni i suoi figli, in un tentativo di esorcizzare il trauma dell’abbandono da lei stessa patito, seppure riscattato dal grande amore di cui l’aveva circondata la famiglia adottiva e in particolare il padre, il sig. Brighton, nonno orgoglioso e completamente asservito ai due gemelli.
    Sotto la pioggia di gennaio, Annie si era rifugiata in macchina e attendeva pazientemente il marito, il quale aveva manifestato il desiderio di trattenersi per qualche minuto in raccoglimento sulla tomba del fratello, adiacente a quella della zia Elroy nel mausoleo degli Andrew.
    Il triste corteo era chiuso da due bionde figure vestite di nero che incedevano sotto la pioggia, riparandosi sotto lo stesso ombrello, l’una al braccio dell’altro a trasmettersi come sempre il conforto che si erano dati e avevano ricevuto l’uno dall’altro in tutte le altalenanti vicende della loro vita, sempre certi della reciproca presenza nel momento del bisogno.
    Come due piante rampicanti che traggono forza l’una dall’altra, intrecciandosi in corrispondenza degli snodi più difficili del proprio cammino e i cui fusti in certi tratti si separano ma restano sempre vicini, pronti a sostenersi l’un l’altro di fronte alle asperità della superficie su cui crescono.

    William Albert Andrew, il giovane leader di quel clan così in vista, era uno degli uomini più affascinanti di Chicago e dei dieci scapoli più ambiti degli Stati Uniti. Dal momento della rivelazione della sua identità quale zio William, Albert aveva dovuto dire addio alla propria indole selvaggia per prendere in mano le redini della famiglia e delle imprese. Cosa che aveva fatto con impegno pari a quello che aveva messo nella scoperta del mondo negli anni della giovinezza, come se in tal modo avesse inteso saldare un debito con la famiglia che gli aveva consentito di dedicare gli anni migliori della sua vita alle sue autentiche passioni: gli esseri viventi, la natura, la libertà. Lo spietato mondo degli affari, nel quale si muoveva da ormai tre anni con l’autorevolezza e la disinvoltura di un consumato businessman, grazie all’ottimo supporto dell’inseparabile amico e consigliere George Johnson, non aveva però mai spento la luce che brillava nei suoi occhi azzurri come il cielo di primavera, né quella naturale empatia verso i deboli e i sofferenti che trovava sfogo nel proliferare di attività filantropiche finanziate dal patrimonio Andrew.
    In quella mattina di gennaio il suo sguardo era velato dalla profonda tristezza che sentiva per la scomparsa dell’ultimo legame con il padre: quella zia Elroy che, dietro la rigidità derivatale dall’età e dall’educazione, l’aveva prima amato profondamente come il prediletto tra i nipoti, e poi rispettato e accreditato di fronte al resto della famiglia quale capo unico degli Andrew. Albert sentiva che con la morte della zia un pezzo della sua giovinezza era perduto per sempre, e sapeva che scelte nuove e svolte decisive erano dietro l’angolo: nuovi equilibri in seno alla famiglia, conseguenti al cambio generazionale; scelte nelle quali lui avrebbe dovuto giocare un ruolo decisivo, come capo del clan.
    Aveva smesso di piovere quando arrivarono alla macchina e Albert si voltò per guardare negli occhi la fanciulla dagli occhi verdi al suo fianco. Lei gli rivolse in risposta un dolce sorriso e gli strinse la mano, trasmettendogli senza parlare il suo messaggio di conforto, prima di precederlo in macchina.
    George si mise silenziosamente alla guida e si avviarono verso villa Lakewood, il luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
    Albert guardava Candy, compostamente seduta accanto a lui, gli occhi lucidi delle lacrime che aveva versato per quella anziana zia portata via insieme a milioni di altre vittime dalla più grande epidemia di influenza che il mondo avesse mai conosciuto e che in America aveva già causato più vittime della guerra. Il nero del semplice ma raffinato abito che indossava ne evidenziava l’incarnato eburneo sul quale spiccavano le sbarazzine lentiggini, da sempre fedeli compagne del suo viso. Gli indomabili ricci biondi erano gli stessi che avevano incorniciato il volto terrorizzato di una bambina salvata dalla furia delle acque proprio dal provvidenziale intervento di Albert, tanti anni prima. Adesso erano più corti e arrivavano a sfiorarle le spalle in morbide onde, pettinati in una dritta riga laterale che li faceva spiovere da un lato del volto, conferendole un aspetto molto semplice ma al contempo naturalmente raffinato. Gli occhi di un incredibile color verde brillante spiccavano come preziosi smeraldi, in contrasto col velluto scuro dell’abito e col semplice pizzo bianco del colletto. Quegli occhi che ancora oggi, dopo tanto tempo, riportavano ad Albert l’immagine della sorella Rosemary. La figura si era ulteriormente aggraziata e slanciata e, sulla soglia dei ventuno anni, Candy aveva l’aspetto e la leggiadria di una donna inconsapevole del fascino conferitole dalla sua semplice e autentica bellezza. Ma non aveva d’altro canto perduto quell’aura magnetica conferitale dalla sua naturale empatia per gli altri: la bambina dolce e deliziata dalle meraviglie del mondo, terrorizzata dai fratelli Legan, che aveva rischiato di annegare alla cascata di Lakewood, si era trasformata in una splendida giovane donna.
    Candy guardava scorrere fuori dal finestrino il familiare paesaggio che conduceva al viale d’ingresso di Lakewood e al cancello delle rose. Albert la vide rabbrividire.
    - Candy, hai freddo? – le chiese preoccupato
    - No, Bert, va tutto bene – la ragazza gli rivolse un sorriso e tornò a guardare fuori.
    Albert lanciò uno sguardo dal finestrino verso il cielo, che da plumbeo stava rapidamente volgendo al candore.
    - Probabilmente nevicherà prima di sera
    Candy rabbrividì, stavolta più visibilmente.
    - Spero di no… detesto la neve… - e chiuse gli occhi, visualizzando una terrazza spazzata selvaggiamente dai candidi fiocchi, sulla quale la sua vita era finita ed era iniziato il resto della sua esistenza.
    Albert la guardò, non aveva bisogno di chiedere nulla. Lui era l’unica persona al mondo a conoscere ogni dettaglio della separazione tra lei e Terence. Persino Miss Pony e suor Maria, le due mamme dalle quali Candy era tornata a vivere per aiutarle nella cura della casa di Pony, avevano un’idea sommaria di ciò che aveva diviso Candy dal suo Romeo, ma ignoravano i dettagli del doloroso rientro a Chicago e dei lunghi mesi di sofferenza e strazio che ne erano seguiti. Solo Albert era stato testimone della dolorosa battaglia per mettere a tacere il cuore che urlava la sua solitudine, e solo lui sapeva cosa rendeva ancora più lancinante la pena della sua piccola rosa, il tarlo che da quella lontana notte le agitava l’anima. Era il senso di colpa per non essere riuscita a mantenere il giuramento che lei stessa aveva strappato a Romeo su quella scalinata:
    “Sii felice, Candy! Perché altrimenti non potrò mai perdonarti”.
    Ogni promessa di felicità per Candy iniziava in una notte di nebbia su un piroscafo in mezzo all’oceano Atlantico e finiva rotolando giù per le scale dell’ospedale St. Jacob’s di New York, nel momento in cui le braccia di Terence avevano sciolto l’abbraccio con cui cercavano di trattenerla a lui ancora per un attimo. Un attimo solo. Per sempre.
    Certo, da allora Candy era tornata a sorridere, a gioire della felicità dei suoi amici e dei suoi cari, a piangere per la morte di Stear, a godere e a rallegrare con la sua luce naturale le vite di coloro che le stavano accanto. Ma Albert sapeva meglio di chiunque altro che ciò che si era spezzato quando quei due giovani avevano sciolto il loro disperato abbraccio non si era ancora ricomposto.
    Come solo per i legami benedetti, o maledetti, dal destino può avvenire.

    [continua]


    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è->QUI<-

    Edited by Cerchi di Fuoco - 18/9/2020, 10:27
     
    Top
    .
34 replies since 8/9/2020, 08:47   7912 views
  Share  
.