Gli Smeraldi e lo Zaffiro

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  1. Cerchi di Fuoco
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    "Se fuggire fosse una soluzione, io sarei fuggito da te già da tanto tempo"

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    New York,
    11 novembre 1918

    In piedi di fronte all’ospedale St. Jacob’s Terence rabbrividì. Terminare di rivivere quella notte angosciante di un anno prima lo lasciava con la netta sensazione di risvegliarsi dalle tenebre di un brutto sogno. Aveva smesso di nevicare e alle sue spalle s’intuiva, più che scorgersi, l’approssimarsi del primo chiarore che avrebbe illuminato l’alba di lì a poco. Alzò lo sguardo per l’ultima volta verso la facciata di quell’edificio che era stato il palcoscenico delle scene più determinanti della sua vita.
    Dopo la morte di Susanna aveva troncato di netto ogni rapporto con la signora Marlowe che, grazie ai proventi dei diritti d’autore delle opere della figlia, avrebbe avuto di che vivere più che soddisfacentemente per il resto della propria vita. Terence non aveva dovuto insistere o fare alcuno sforzo per tenerla alla larga: sembrava del tutto evidente che la signora Marlowe era probabilmente ancor meno desiderosa di lui di rivederlo. E lui stesso non avrebbe saputo dire se la causa risiedesse nell’astio nei confronti dell’uomo che a suo dire aveva rovinato la breve vita della figlia, o se in qualche angolo del proprio cuore ella nutrisse una qualche forma di imbarazzo per le pressioni psicologiche cui aveva sottoposto un ragazzo di soli diciassette anni, contribuendo a rovinargli l’esistenza.
    A Terence non importava, del resto.
    Ricordò che l’ultima occasione in cui l’aveva incrociata era stata alle esequie di Susanna, alle quali era intervenuto doverosamente e dignitosamente nel ruolo di fidanzato; dopodiché era tornato a casa e, nel chiuso del suo studio, aveva cominciato a interrogarsi su cosa fare della propria vita e della libertà appena ritrovata, sia pure in frangenti così drammatici.
    Il suo cuore, la sua anima, tutto il suo essere lo spingevano come una forza primordiale a cercare Candy per porre fine a quegli anni di deserto emotivo in cui si era abbeverato solo al suo ricordo. Il bisogno di vederla e di toccarla di nuovo gli provocava un dolore quasi fisico. Per lui il tempo si era fermato nel momento in cui aveva sciolto l’abbraccio con cui la teneva legata a sé, facendo violenza alla propria volontà per dirle: “Sii felice, Candy! Perché altrimenti non potrò mai perdonarti”. Solo dopo, alla vista della schiena che si allontanava sotto la neve senza che lei si voltasse mai indietro, quando il dolore gli era esploso dentro con tutta la sua forza dirompente, aveva compreso l’assurda follia di quelle parole.
    Quando la tensione del terribile dramma in scena tra le stanze di quell’ospedale si era attenuata, il senso di colpa per averla lasciata andare via senza provare a fermarla lo aveva devastato. Sapeva che la decisione era stata presa da lei, che il giudice che per generosità aveva emesso una sentenza d’infelicità per entrambi era proprio la persona che più amava al mondo. Ma non poteva negare a se stesso che, nell’istante in cui le era sfilato davanti su quella terrazza spazzata dalla neve, tenendo tra le braccia Susanna e senza osare dirle una parola, non le aveva lasciato altra scelta.
    C’era Terence Granchester su quella terrazza, mentre Terence Graham aveva provato a ribellarsi su quelle scale, trattenendola a sé, ma troppo tardi.
    Eppure, ricordò Terence voltando le spalle all’ospedale e riavviandosi a ritroso sulla Broadway, dopo la morte di Susanna non aveva osato contattarla. Aveva promesso a quella sfortunata creatura sul suo letto di morte di rispettarne la memoria e, in omaggio in primo luogo alla donna che amava e che aveva rinunciato a lui perché si prendesse cura di quella che riteneva la più fragile tra loro tre, aveva deciso di rispettare il periodo di lutto di un anno. Il suo giudice dagli occhi verdi, l’unico di cui temesse la condanna, non avrebbe accettato niente di diverso da lui. Essere all’altezza delle elevate aspettative che, inspiegabilmente, quella ragazza lentigginosa aveva riposto in lui, quando invece tutto il mondo vedeva in quel ribelle rampollo solo una causa persa, era stata fin dall’inizio la leva che gli aveva fatto cambiare in meglio la sua vita e raggiungere i pochi traguardi che aveva toccato con le proprie forze: solo per essere degno del suo alto giudizio e del suo amore.
    E poi c’era quel maledetto senso di colpa, con cui non sarebbe mai riuscito a fare i conti, per averla messa con le spalle al muro e costretta a decidere per tutti loro.
    Infine, sentiva di avere bisogno di quel tempo per raccogliere le idee: in fondo non sapeva nulla della vita di Candy da quella notte in cui si erano detti addio. La sua dolce scimmietta lentigginosa gli aveva promesso che avrebbe cercato di essere felice, augurandogli lo stesso. E se, prima ancora che lei voltasse l’angolo di Park Row sparendo alla sua vista, lui aveva capito che gli sarebbe stato impossibile anche solo un surrogato di felicità senza di lei, forse Candy era andata avanti con quella forza che l’aveva sempre guidata e che lui amava tanto.
    Terence rabbrividì nel pesante cappotto, incedendo per le vie lungo le quali cominciava a scorgere le prime luci filtrare da qualche finestra e a incrociare qualche frettoloso lavoratore del mattino lungo il marciapiede.
    L’idea di Candy insieme a un altro uomo lo faceva impazzire, e non aveva mai avuto il coraggio di cercare di scoprire qualcosa di più su ciò che le era accaduto fino a quel momento.
    Ma quello era il giorno fatidico: era trascorso l’anno che si era imposto ed era giunto il momento di riprendere in mano la propria vita. L’avrebbe cercata. Non aveva idea di dove si trovasse, ma conosceva due donne nell’Indiana che, ovunque fosse Candy e con chiunque stesse, di certo non lo ignoravano. Sarebbe partito da lì. Un lampo della fiamma ardente dei giorni della St. Paul School si accese negli occhi di zaffiro.
    Sì, l’avrebbe cercata: non avrebbe più avuto neanche un solo minuto di pace finché non lo avesse fatto!
    - … pace! PACE!!!
    Un grido lontano, che riuscì a cogliere solo parzialmente, interruppe le sue riflessioni.
    Si volse nella direzione da cui proveniva la voce, insieme ai pochi altri avventori del mattino o reduci dalla notte che condividevano con lui il marciapiede, e scorse uno strillone correre verso di loro al centro della strada, sventolando il suo fascio di giornali. Non era un po’ presto per l’edizione del mattino?
    - LA GUERRA È FINITA!!!!! LA GUERRA È FINITA!!!!
    Terence e gli altri si guardarono l’un l’altro, interdetti.
    La guerra era finita? Il conflitto in cui l’America era entrata un anno e mezzo prima, ma che in realtà insanguinava l’Europa dal 1914, era davvero finito? C’erano stati dei segnali negli ultimi tempi, ma quello era davvero il giorno tanto atteso?
    Terence si affrettò a fermare il ragazzo e ad acquistare una copia del New York Times. Immediatamente intorno a lui si formò un capannello di persone trepidanti, in un silenzio carico di aspettativa, mentre le pagine del quotidiano venivano dispiegate per leggere la notizia che aspettavano da mesi.

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    All’unisono il gruppo di uomini e donne che si era radunato attorno a Terence esplose in urla di felicità e tutti presero ad abbracciarsi, stringersi la mano e baciarsi come se fossero amici da sempre, uniti dalla condivisione della stessa incontenibile gioia. Non c’era un solo americano che non avesse un parente o un amico in guerra e troppi erano quelli che avevano perso dei congiunti. Persino Terence, sempre così riservato e misurato, si fece rapire dall’ondata di entusiasmo generale e si lasciò condurre con tutti gli altri, spinti da un’inespressa volontà collettiva, verso Times Square, centro pulsante della città e luogo di tutte le celebrazioni di massa che New York avesse conosciuto nella sua breve storia. Il lavoro, i pensieri, la quotidianità erano totalmente svanite ed esisteva solo quel fatto: la guerra era finita!
    A mano a mano che proseguivano verso la piazza, nuove ondate di gente urlante di entusiasmo commosso si univano a loro, uscendo dalle case e riversandosi per la strada, moltiplicando grida, danze, baci ed esultanza collettiva, per poi confluire in quell’enorme crocevia che i newyorkesi avevano deciso dovesse diventare la piazza più importante del mondo. Era ormai un’ondata inarrestabile quella che rapì Terence mentre l’alba rischiarava la città. Al giovane sembrò che quel nuovo giorno segnasse la fine di tutti i conflitti della propria vita e che la luce rosata che si faceva strada tra gli alti edifici illuminasse a poco a poco anche la sua anima, strappandola alle tenebre.
    Si permise di volgere le labbra e gli occhi a quel sorriso che vi mancava ormai da troppo tempo, mentre in lui prendevano vita spontaneamente le parole del Bardo:

    “Amore non teme ostacoli di pietra,
    amore quando a una cosa intende
    è ardimentoso e pronto.”*


    Cap1_2



    Era già quasi ora di pranzo quando Terence rientrò nel suo appartamento, ancora stordito dalla notte di rievocazione che aveva trascorso e dai festeggiamenti cui si era abbandonato per alcune ore. La città era in delirio, esattamente come tutta l’America e tutto il mondo nello stesso momento. Era palpabile una nuova ondata di speranza e Terence se ne era lasciato rigenerare.
    Entrando in casa fu accolto da Mrs. Greppi, la fedele governante che si era occupata di lui negli ultimi anni, assistendo Susanna e prendendosi cura della casa anche dopo la sua morte. Era una dolce e materna vedova di origini italiane, con cinque figli ormai adulti che erano il suo orgoglio. Tale onore spettava soprattutto al maggiore, Francis (Francesco, per la madre), il quale era stato il primo componente della famiglia Greppi a laurearsi, pagandosi gli studi con il salario di un duro lavoro notturno, e che adesso lavorava in uno dei più importanti studi legali di New York. Il figlio di mezzo, John (Giovanni) era stato ferito gravemente in guerra, e si trovava ancora ricoverato in un ospedale militare francese. Era fuori pericolo, ma stava affrontando la dura riabilitazione necessaria a salvargli la vista, seriamente compromessa dal gas iprite nelle trincee alleate. Mrs. Greppi non mancava mai di ricordare quanto Terence gli somigliasse come una goccia d’acqua (il che a modesto parere dell’attore, che aveva avuto modo di vedere la foto del pingue ragazzo orgogliosamente esibita dalla madre, era più che discutibile. Tuttavia aveva accettato di buon grado quell’affermazione per non ferire Mrs. Greppi) e tale presunta similitudine forse spiegava il motivo per cui negli anni la donna si fosse affezionata tanto a lui, e perché lo accudisse con attenzioni e manicaretti da vera italian mummy. Naturalmente, tanta esuberanza prettamente latina causava all’algido figlio del duca inglese un imbarazzo almeno pari alla delizia delle sue pietanze.
    Entrando in casa, Terence le porse la prima pagina del New York Times che aveva portato con sé e le disse:
    - Ha sentito le buone notizie, Mrs. Greppi? La guerra è finita!
    - Sì, Mr. Graham, sia ringraziato San Gennaro, la Vergine Maria e tutti i Santi!
    Terence si era spesso domandato se vi fosse un nesso nella scelta di Mrs. Greppi di votarsi a questo o quel Santo a seconda delle circostanze, e per quale motivo l’ordine nel quale essi venivano citati fosse sempre diverso. Si ripromise di chiederlo, prima o poi.
    - C’è una visita per lei, Mr. Graham. Mrs Baker la sta attendendo da un paio d’ore nel salotto. Le ho servito focaccine e una fetta di torta ma credo non abbia assaggiato nulla.
    Sua madre? Che visita inaspettata a quell’ora. Terence si chiese se per caso non fosse accaduto qualcosa.
    - Grazie Mrs. Greppi, mangeremo più tardi – rispose.
    - Ed è arrivata anche una lettera per lei – aggiunse paciosa la governante, porgendogli una busta che il ragazzo prese sovrappensiero e senza neanche guardarla, già diretto verso il salotto.
    Eleanor Baker era elegantemente seduta sul divano, con un libro in grembo ma con lo sguardo rivolto alla grande finestra alla sua destra. Entrando Terence poté ammirarne l’aristocratico profilo, di una bellezza che il tempo non sarebbe mai riuscito a scalfire. Quella donna meravigliosa era dotata di quel fascino naturale che avrebbe resistito agli anni, al contrario di molte bellezze più superficiali e artefatte dal trucco di scena che Terence aveva visto sfiorire miseramente nell’arco di poche stagioni. La madre, invece, a quarant’anni era ancora una regina dei palcoscenici di Broadway, nonchè una delle donne più belle che Terence avesse mai conosciuto.
    Eleanor sentì i suoi passi e si voltò verso di lui, posando su di lui quei suoi occhi blu dei quali quelli del figlio erano una copia esatta e aprendo il volto a un sorriso.
    - Mamma, tutto bene? – chiese Terence con sollecitudine, avvicinandosi e chinandosi per abbracciarla.
    Nei lunghi anni insieme a Susanna sua madre era stata, insieme a Robert Hathaway, l’unico appoggio che gli aveva impedito di sprofondare del tutto nel baratro della solitudine e dell’autodistruzione. Gli era stata accanto con discrezione, ma con un affetto infinito, fin dal ritorno da Rocktown, senza però mai confessargli di essere stata la sua ombra in quella triste discesa agli inferi. L’attrice sentiva pulsare ancora dentro di sé il rimorso per non aver trovato il coraggio di strapparlo lei stessa a quella valanga di disperazione e tormento, limitandosi a seguirlo da lontano, troppo spaventata dalle sue potenziali reazioni per scuoterlo. Di fatto, timorosa che il rapporto che allora con Terence stavano appena cominciando a ricucire dopo i lunghi anni di incomprensione, non fosse sufficientemente solido per resistere a una nuova crisi. Avrebbe portato per sempre nel cuore il rimpianto per le insicurezze dimostrate in quella circostanza.
    Ovviamente Eleanor non aveva mai rivelato al figlio neanche di non essere stata il suo unico angelo custode in quello scalcinato teatro in cui si era consumato il suo dramma più cupo, e che una fata dagli occhi verdi, quella che lui aveva sempre ritenuto essere una visione della propria coscienza risvegliata dall’amore, era davvero lì con lui a trasmettergli tutta la sua forza attraverso la pura intensità dei sentimenti che li legavano.
    Eleanor aveva assistito a quel miracolo, dopo aver già beneficiato del primo che Candy aveva realizzato tanti anni prima in Scozia, quando aveva richiamato Terence a quell’amore materno fino a quel momento soffocato dalla rabbia, dal rancore e dal senso di abbandono. A Rocktown la donna si era così ancor più convinta del sacro legame che univa quei due giovani, nonostante il destino, o forse le loro scelte avventate e incautamente generose, li tenessero separati e quindi condannati all’infelicità.
    Pur avendo promesso solennemente a Terence di non violare in alcun modo la sua risoluzione riguardo a Susanna, quella madre amorevole non era stata capace di osservare il sacrificio d’infelicità e solitudine che il figlio rinnovava giorno dopo giorno per una donna che non ne meritava il dolore.
    Da donna (e da donna sensibile ai tormenti del cuore), infatti, Eleanor aveva percepito più e meglio di chiunque altro il disagio emotivo e comportamentale di Susanna. Ma, da madre, non riusciva a perdonare le sofferenze inflitte al figlio da quella ragazza che continuava a tenerlo avvinto a sé con i sentimenti più sbagliati: la compassione, la pietà e il senso di colpa. Eleanor era stata una delle poche persone abbastanza lucide da capire che quello che la giovane Marlowe nutriva per suo figlio era puro bisogno, misto a un infantile egoismo. E questo non faceva che rendere ai suoi occhi ancora più ingiusto e sbagliato il sacrificio che Terence e Candy avevano compiuto per lei. Riteneva che fosse doveroso mettere a parte la ragazza di come stessero le cose. Era certa che se la giovane avesse saputo che la motivazione principale per cui aveva rinunciato a Terence - e cioè la sua felicità - era ben lungi dall’essersi realizzata, avrebbe rivalutato la sua posizione e forse ci sarebbe stata una nuova speranza per quelle due anime infelici.
    A differenza di Terence, sua madre si era informata sul conto di Candy e sapeva che circa un anno dopo la loro separazione a Rocktown, la ragazza era tornata alla casa di Pony e non aveva ancora contratto nuovi legami sentimentali.
    Per quella ragione, ormai incapace di sopportare oltre la sempre più evidente agonia del figlio, ma nello stesso tempo non riuscendo a decidersi a rompere il giuramento di riservatezza fattogli, si era decisa per un’azione di compromesso e aveva mandato a Candy un biglietto per la prima di quell’Amleto che aveva segnato la rinascita teatrale della stella del figlio. Sperava che, incontrandosi, i due giovani avrebbero saputo ascoltare il proprio cuore e porre fine agli errori del passato.
    Purtroppo, sebbene fosse stata Candy a premere sull’immaginario acceleratore di quel dramma con la sua decisione, il tempo e il dolore della separazione dovevano aver lasciato anche in lei ferite e cicatrici altrettanto difficili da esibire di quelle di Terence, perché la ragazza le aveva risposto con una lettera che ancora le faceva male rileggere:

    Gentile Signora Eleanor Baker
    La ringrazio davvero tanto per la sua lettera e per il biglietto d’invito.
    Mi sono chiesta per quanto tempo sarei rimasta assorta a contemplare quel biglietto per il teatro.
    Ho saputo dai giornali dell’Amleto di Terence. Sebbene io tenti di evitare le notizie che lo riguardano, non ho potuto non sapere. Sento come se fosse passato un periodo lunghissimo dal nostro incontro in quel paese di montagna. Terence è completamente uscito da quel periodo disastroso ed io non potrei esserne più felice.
    So già in anticipo che lo spettacolo avrà un successo immenso, credo che Terence sarà meraviglioso nei panni di Amleto. Se chiudo gli occhi, riesco a vederlo.
    Le sono molto grata per il suo pensiero. Mi dice che la data stabilita manderebbe gentilmente un’auto a prendermi. Ma io non posso esserci. Vorrei tanto vedere uno spettacolo con Terence. Eppure non voglio vederlo. Se vedessi lo spettacolo, poi vorrei incontrarlo. Finalmente potrei vederlo e parlargli, non come quella volta nel teatro di strada in quel paese sperduto. Ma ho deciso di rinunciare. I miei ricordi di New York sono ancora troppo dolorosi. Non posso sorridere e dire che sono mutati. Un giorno… un giorno il tempo li guarirà.
    Mi dispiace signora Baker. Mi perdoni se le restituisco il biglietto così rudemente.
    Candice W. Andrew 1

    Se anche Eleanor non avesse fatto ricerche per conto suo, quella frase: “I miei ricordi di New York sono ancora troppo dolorosi. Non posso sorridere e dire che sono mutati” sarebbe bastata a rivelare in maniera più che evidente la natura profonda e ancora pulsante dei sentimenti che Candy nutriva per suo figlio, che lei d’altra parte aveva potuto leggerle in volto chiaramente a Rocktown, misti all’angoscia e alla preoccupazione per Terence.
    Naturalmente aveva rispettato la volontà di quella coraggiosa e forte ragazza e da allora non aveva più fatto nulla per forzare un riavvicinamento tra i due, senza peraltro mai confessare a Terence del biglietto dell’Amleto e della risposta di Candy.
    Dopo la morte di Susanna, aveva sperato che suo figlio riprendesse finalmente in mano la sua vita e si decidesse a rimettersi in contatto con Candy. Aveva accettato le sue stringate spiegazioni circa il periodo di lutto che intendeva rispettare, sebbene nel fondo del suo cuore ritenesse che troppo tempo e troppe occasioni di felicità in quella storia fossero stati già sprecati. Nessuno conosceva meglio di lei il valore del dono prezioso dell’amore e di come la sua dolorosa assenza rappresenti in realtà un’invadente presenza per chi ha amato e perduto. Dopo Richard Granchester, nonostante le strade di New York, e non solo, fossero state lastricate delle dichiarazioni d’amore ricevute da parte di uomini tra i più degni, lei non era più riuscita a riaprire il cuore a quel sentimento che l’aveva tanto ferita, dedicandosi solo al figlio e alla carriera.
    - Io sto bene, caro – rispose la donna all’abbraccio e alla domanda piena di sollecitudine del suo amato ragazzo.
    - Hai sentito della fine della guerra? È per questo che sei venuta qui ad un orario così insolito?
    - Per rispondere alle tue domande, caro: sì e no. Sì, ho sentito della fine della guerra e venendo qua mi sono fermata ad accendere un cero di ringraziamento nella cattedrale di St Patrick. E no, non è questo il motivo per cui sono qui stamattina.
    Terence la fissò interrogativamente.
    - Ho ricevuto questa, ieri sera.
    Eleanor gli porse una busta bianca che si trovava tra le pagine del libro che aveva in grembo.
    Terence lanciò uno sguardo alla lettera e vide il timbro di provenienza: Los Angeles.
    - È il contratto con la First National Production che aspettavo, Terry! Tutto è definito per il mio ruolo di protagonista nel prossimo film di Mr. Chaplin. Alla fine, la mia interpretazione di Lady Macbeth l’ha letteralmente stregato!
    Terence posò la busta consegnatagli da Mrs. Greppi sul tavolino accanto al divano e si avvicinò sorridendo per abbracciare la madre.
    Due mesi prima Eleanor aveva ricevuto una cortese lettera da parte di Charles Chaplin, stella emergente del nuovo e travolgente show business cinematografico a Los Angeles. Chaplin, in trasferta a New York per promuovere il suo ultimo film, A dog’s Life, era rimasto incantato dall’interpretazione di Eleonor del mefistofelico personaggio shakespeariano a Broadway e, chissà come, aveva avuto la premonizione che quella meravigliosa attrice drammatica potesse avere un pari, se non superiore, talento per la commedia cinematografica.
    E non si era sbagliato: Eleanor, allora all’apice della carriera teatrale, completamente rapita dalla straripante personalità del divo, capace di ipnotizzare chiunque e soprattutto le donne, aveva subito accettato di raggiungerlo a Los Angeles, più per concludere gli accordi con un praticamente innamorato Chaplin che per effettuare il provino. Adesso tutto era definito e il contratto era giunto per posta, insieme con una lettera personale del divo nella quale egli ribadiva tutto il proprio entusiasmo all’idea di lavorare con lei.
    - Sono così felice per te, mamma! La seconda ottima notizia della giornata. Dobbiamo festeggiare due volte, allora.
    - Sono certa che il ragù di Mrs. Greppi ci darà modo di farlo adeguatamente, figliolo!
    Madre e figlio sorrisero, lieti di quella finestra di serenità semplice e familiare. Terence era straordinariamente soddisfatto che la madre fosse così felice e realizzata sul piano professionale, se non su quello personale e sentimentale.
    Sedettero sul divano e chiacchierarono dei progetti futuri di Eleanor. La produzione sarebbe partita nel giugno successivo: Chaplin aveva acconsentito ad attendere la fine della stagione teatrale per cominciare le riprese pur di avere al proprio fianco la Baker, ancora sotto contratto con la sua compagnia a Broadway.
    Dopo un po’, il ragazzo si ricordò della busta che aveva posato sul tavolino di fianco e, senza interrompere la conversazione, allungò la mano per prenderla.
    Gli bastò un fugace sguardo perché ogni traccia di sorriso scomparisse dal suo viso e si ammutolisse di colpo.
    Entrambi riconobbero subito lo stemma sulla busta: un’aquila a due teste circondata da foglie di alloro e due lance che s’incrociavano sullo sfondo rosso e oro. Era l’insegna che il ragazzo aveva avuto costantemente sotto gli occhi per tutta l’infanzia e l’adolescenza e che aveva imparato a odiare: lo stemma di famiglia dei Granchester. Terence non disse nulla e levò verso la madre uno sguardo di ghiaccio.
    Eleanor era combattuta. Il suo antico rancore nei confronti del padre di suo figlio, che glielo aveva strappato quando era ancora in tenera età sprofondandola nella più cupa disperazione, si scontrava con la razionalità e la sua naturale generosità. L’odio nei confronti di Richard avvelenava Terence più di quanto egli stesso si rendesse conto e, per quanto empatizzasse con le ragioni del suo ragazzo, la donna era certa che fosse tempo di provare a superare quel fossato che lo separava dal padre, per il suo stesso bene.
    -Terry, so cosa provi. Sono gli stessi sentimenti che ho provato io per tanti anni, puoi credermi – gli occhi le si riempirono di lacrime di rabbia, tristezza, frustrazione, amore perduto, onore mal interpretato – Sì, credo di sapere cosa provi per tuo padre, ogni cosa... – Eleanor sottolineò volutamente le ultime due parole – ...e, se ti fidi di me, credo proprio che dovresti almeno leggere quella lettera e poi decidere cosa fare.
    Terence la fissava ancora senza parlare e senza guardare la lettera. Solo un lieve tremore delle mani rivelava l’agitazione che si celava dietro un volto fattosi di pietra.
    Se fosse stato solo, la lettera del padre sarebbe finita nel fuoco senza neanche uscire dalla busta. La cosa che lo faceva letteralmente impazzire di rabbia era che sua madre dimostrasse la forza e la capacità di superare il proprio dolore e il proprio rancore, per caldeggiare altruisticamente la causa dell’uomo che l’aveva tanto fatta soffrire.
    Eppure, ancora una volta, dopo che la risacca della prima ondata d’ira si fu ritirata da lui, come spesso gli accadeva il giovane dovette ricordare, con quell’implacabile severità riservata più a se stesso che agli altri, di non essersi dimostrato migliore di suo padre quando aveva rinunciato senza combattere a colei che amava.
    E ora la donna abbandonata e ferita lo supplicava di ascoltare le parole dell’uomo che le aveva rovinato la vita e portato via il figlio per quindici lunghi anni.
    - Va bene mamma. Leggerò ciò che mio padre ha da dirmi – si arrese Terence.

    Granchester Manor,
    Aberfoyle, Scozia.
    25/10/1918

    Caro Terence,
    Mi sono interrogato molte volte, prima di iniziare a scrivere questa lettera, su quale sarebbe stato il modo più corretto per rivolgermi a te.
    “Mio caro figlio” sarebbe probabilmente suonato insolente alle tue orecchie, sebbene siano state le prime e più spontanee parole presentatesi alla mia penna. Qualsiasi altro più freddo e informale epiteto, come “Mr. Graham”, come mi dicono tu ti faccia chiamare adesso, mi è apparso fuori luogo e ipocrita. Così alla fine mi sono deciso per il tuo solo nome, sapendo che vi leggerai ciò che più si addice ai tuoi attuali sentimenti nei miei confronti.
    È passato molto tempo dall’ultima volta che ci siamo visti, e ancor di più dalle ultime rabbiose parole che ci siamo scambiati, e non posso dire che le circostanze in cui ci siamo separati costituiscano un ricordo piacevole per me.
    Il tempo trascorso non è stato indolore per nessuno di noi. Per tua madre, per me e, ciò che tormenta il mio animo stanco, soprattutto per te, mio amato figlio. Essere stato io stesso la causa principale della tua sofferenza, a causa delle scelte dettate dalla mia storia e dai doveri verso il nome che porto, aggrava il mio peso.
    Non so se potrai credermi, Terence, ma negli ultimi anni, viepiù da quando ti sei allontanato da me e dalla tua famiglia in contrapposizione a ogni cosa io rappresenti ai tuoi occhi, il ricordo di tua madre si è spesso affacciato alla mia mente, recando con sé immancabilmente accuse inespresse e quel rancore mai sopito al quale, ai suoi occhi giustamente, lei mi ha condannato molti anni fa.
    Probabilmente, la donna generosa e luminosamente buona che ho conosciuto e amato avrebbe potuto perdonare l’uomo che sono stato e il dolore che le ha causato il mio abbandono. Non altrettanto altruismo, ovviamente, mi ha concesso per la dolorosa e innaturale separazione dal sangue del suo sangue che le ho imposto.
    Il sangue, vedrai, ricorrerà spesso nel contenuto di questa mia missiva. Il lignaggio e il blasone sono in effetti le cartine al tornasole della mia vita, ma è adesso il momento di chiedermi a spese di chi. E sacrificando che cosa.
    Certo a spese di tua madre, Terence. E di questo desidero chiedere perdono di fronte a lei, con tutta la sincerità della mia anima.
    E a spese tue. E di questo devo chiedere perdono di fronte a te, e a Dio.
    È difficile per un uomo che per tutta la vita si è consacrato all’onore, al rispetto e alla sottomissione degli altri ammettere i propri errori e confido nella tua comprensione e tolleranza nei confronti di questo mio primo tentativo, Terence.
    Non posso rinnegare ciò che ho fatto per necessità dettate dai miei doveri, né lo farei. Ma oggi so che il modo in cui attesi al mio dovere fu errato e foriero di tutto il dolore che ho causato a tua madre e che, in una nemesi inevitabile, mi è stato restituito dal tuo immarcescibile disprezzo.
    Non che io non ti comprenda, oggi. Ho provato rabbia, frustrazione, furioso bisogno di vincere la ribellione di quel figlio amatissimo che ho visto sfuggirmi tra le dita anno dopo anno, senza rendermi conto che quegli stessi atti da me posti in essere per trattenerti a me (per renderti simile a me) avevano come logica conseguenza proprio quella di allontanarti sempre di più. Mi sono sforzato di correggerti, anziché di comprenderti, proprio come il mio genitore aveva fatto con me quando mi costrinse a chiudere la relazione con tua madre, e questa mia incapacità di staccarmi dalla mia storia mi è stata fatale.
    Credo che avrei ancora potuto ricondurti a me, ma purtroppo, in occasione del nostro ultimo incontro, non ho capito di avere per la prima volta di fronte a me un uomo, e non il ragazzo ribelle che eri stato fino ad allora.
    Nessuno tra gli uomini è stato più fallibile di me, Terence, e ho purtroppo meno tempo di quanto mi augurerei per riparare ai miei errori e sgretolare le mie granitiche certezze, ponendovi rimedio.
    Sono gravemente malato, Terence. E non ti dico ciò per suscitare pietà: questo è l’ultimo dei sentimenti che voglio suscitare nella vita, avendone a mia volta dispensata ben poca agli altri (e chi mi conosce bene quanto te non può nutrire dubbi al riguardo). Te lo confesso perché tu comprenda da dove tragga la sua origine questo triste bilancio che sto tirando con me stesso… e che mi vede purtroppo in grave passivo, soprattutto nei confronti tuoi e di tua madre.
    Perdere il tuo affetto è stato il dolore più grande della mia vita e il silenzio con cui l’ho affrontato è stato l’unica reazione che la mia esistenza e la mia storia mi avessero insegnato. Il mio sangue, sì… La durezza e l’impossibilità di perdonare, dono dei miei avi, sono state il vero dramma di questi tristi accadimenti.
    Ma ti ho amato e ti amo come il più prezioso dono di una vita per tanti altri aspetti avara, a dispetto del dignitoso decoro di cui l’ho ammantata.
    Non so quanto il destino e i progressi della scienza medica (e ti assicuro che entrambi si stanno accanendo su di me in particolare simbiosi in questo periodo) mi lasceranno ancora da vivere, ma quanto che sia il tempo che mi rimane, nutro il profondo desiderio di rivederti per poterti dire, guardandoti negli occhi, quanto io ti ami e ti abbia sempre amato. E quanto le mie mancanze nei tuoi confronti abbiano reso bui questi ultimi anni della mia vita. Ciò non nella speranza di ricevere in cambio il tuo perdono, poiché nel profondo di un cuore troppo spesso tacitato, so che è più di quanto io meriti. Ma per restituirti il padre che non hai mai avuto, qualunque cosa intenderai poi farne.
    È mia intenzione, Terence, renderti l’onore del nome e del titolo, quando io non vi sarò più, e ciò indipendentemente dalla scelta che compirai, dal perdono che vorrai concedermi e se deciderai di rivedermi ancora.
    Figliolo, se pensi che i rancori e le incomprensioni del nostro passato possano essere alleviati da un confronto tra noi, ti prego di considerare questa mia, insieme a tutto il mio amore di padre, che anelo a poterti confermare di persona.
    Solo tu puoi valutare cosa fare e mi rimetto a te, nella consapevolezza che mai fiducia potrebbe essere meglio riposta.

    In fede,
    Richard Charles Stanton, Lord Cobton e Duca di Granchester.


    Terence lesse la lettera dalla poltrona di pelle accanto a quella occupata dalla madre, che non gli aveva staccato gli occhi dal volto neanche per un attimo di quella dolorosa lettura. Al termine, il ragazzo alzò gli occhi blu, resi quasi neri dal turbine di emozioni che si stava scatenando dentro di lui, porse la lettera a Eleanor e si alzò per andare alla finestra.
    Aveva ripreso a nevicare.
    “Figlio amatissimo…”
    “Sono gravemente malato…”
    “Ti ho amato e ti amo come il più prezioso dono di una vita…”
    “…tutto il mio amore di padre che anelo di poterti confermare di persona…”

    Frammenti di quella lettera che rovesciavano il mondo come lo aveva conosciuto negli ultimi anni sembravano dipanarsi come nastri e fluttuare attorno a lui, cingendolo sempre più strettamente e confondendosi con i candidi fiocchi di neve che ancora una volta scendevano a incorniciare un momento fondamentale della sua vita.
    “Non amerò mai come voi!”
    Erano le ultime parole con le quali aveva detto addio al padre e aveva sbattuto la porta su un passato che, con l’ostinazione primordiale e invincibile del legame tra genitore e figlio, era giunto a stanarlo per metterlo ancora una volta implacabilmente di fronte a se stesso.
    Terence strinse i pugni e fissò la propria immagine riflessa nella grande vetrata.
    Non c’era ancora pace per i conflitti che avevano scelto il suo cuore come campo di battaglia.


    Guardate la tremenda punizione
    calata sui vostri rancori
    e come il cielo si è fatto dell’amore lo strumento
    da spegnervi ogni gioia.**




    *Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.
    1 Liberamente da me tradotto da: Kioko Mizuki, Novelle, Capitolo V, pag. 131-133.
    **Romeo e Giulietta, Atto V, scena III

    FINE CAPITOLO 1°




    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è->QUI<-

    Edited by Cerchi di Fuoco - 15/9/2020, 10:16
     
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