Gli Smeraldi e lo Zaffiro

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  1. Cerchi di Fuoco
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    "Se fuggire fosse una soluzione, io sarei fuggito da te già da tanto tempo"

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    Indice
    Capitolo 1: #entry643355420
    Capitolo 2: #entry643593788
    Capitolo 3: #entry643959172
    Capitolo 4: #entry644330989
    Capitolo 5: #entry644626831
    Capitolo 6: #entry645023537
    Capitolo 7: #entry645404242
    Capitolo 8: #entry645795514
    Capitolo 9: #entry646171574
    Epilogo: #entry646813390


    copertina_3_0



    Disclaimer:
    Non essendo quest’opera destinata alla commercializzazione, ma solo alla condivisione a titolo gratuito nel circuito dei fans, non viene compiuta alcuna violazione dei diritti d’autore con l’utilizzo di personaggi non originali, che appartengono in toto all’autrice e ai detentori dei copywright


    Gli Smeraldi e lo Zaffiro



    Capitolo 1°: Conflitti


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    New York
    11 novembre 1918


    Le lancette dell’orologio a pendolo dalla pregiata fattura arrancavano faticosamente. Come in tutte le altre notti insonni che avevano preceduto quella che si inerpicava penosamente verso il miraggio dell’alba, ogni minuto durava un tempo infinito nel buio di un appartamento di New York.
    La neve cadeva incessantemente dal pomeriggio precedente, e le ombre create dalla sinuosa traiettoria dei fiocchi attraverso la vetrata disegnavano un inquietante gioco di chiaroscuri sulla parete di fronte. Le tenebre della stanza erano rotte solo dallo sfavillio dell’inconfondibile skyline oltre la finestra e, all’interno, da una stilla di rosso che intensificava la sua luce a intervalli regolari, tradendo la presenza tra quelle pareti di un’anima in pena. Sembrava voler espellere un muto tormento insieme al fumo dell’ennesima sigaretta.
    Era l’ora più cupa della notte, certo, ma, rispetto alle centinaia di altre notti che l’avevano preceduta, il silenzio aveva una profondità più spessa, una sensazione ovattata e compatta che solo viaggiando sulla neve fluttuante poteva spandersi su una città che si vantava di non dormire mai.
    La persona elegantemente adagiata sulla poltrona di velluto scuro art-noveau si lasciò sfuggire un sorriso amaro a quel pensiero, perché anche a lui sembrava di non trovare pace da sempre: il conforto del sonno arrivava di solito insieme alle prime luci dell’alba e gli concedeva poche ore del sospirato oblio, prima di riportarlo alla realtà. Le ore del giorno erano scandite dalle innumerevoli tazze di caffè e le notti insonni dalle sigarette avidamente consumate una dopo l’altra, come se il fondo del pacchetto recasse in premio l’agognato riposo. Quella notte, però, era stata diversa dalle altre. Ai noti demoni del senso di colpa, della privazione, della nostalgia e della rabbia, compagni immancabili delle sue veglie, si era affiancata un’ansia nuova e ancora indefinibile.
    Con un gesto fluido, l’elegante figura spense la sigaretta nel posacenere al suo fianco e si alzò, lasciando così scivolare al suolo il libro che teneva in grembo. Esso si aprì, come dotato di una propria volontà, a una pagina che doveva evidentemente essere stata letta e riletta più volte. L'uomo si avvicinò a passi lenti all’imponente vetrata fissando le luci della città, tra le quali spiccavano quelle del più alto edificio di New York, il nuovo e sorprendente Woolworth Building, dal quale si poteva godere della sensazione di dominare tutta la città - e quindi tutto il mondo. Egli rimase lì immobile per parecchi minuti, osservando il proprio riflesso che si sovrapponeva alla vista esterna, finché all’improvviso si sentì soffocare dalle librerie traboccanti di volumi rilegati in pelle e dal grande pianoforte a coda. Sentì l’urgenza, come spesso nelle sue notti eterne ed eternamente uguali a se stesse, di uscire nella notte e di lasciarsi alle spalle quella stanza che conosceva talmente bene i suoi pensieri e i suoi ricordi, ai quali si concedeva ormai di abbandonarsi solo al chiuso del suo familiare calore, inaccessibile a chiunque altro. Il suo ultimo rifugio. Tutto ciò che di caro gli fosse rimasto, quasi tutte memorie di un tempo passato e perduto per sempre, era racchiuso tra quelle mura amate e odiate.
    Raccolse un’armonica argentata dal tavolino accanto alla poltrona e, dopo averle lanciato un lungo e intenso sguardo, la ripose delicatamente nella tasca interna della giacca. Quindi, attraversò a passo veloce la stanza fino all’ingresso del piccolo appartamento. Coprì con un morbido cappello di feltro i capelli color mogano, che scendevano a sfiorargli le spalle in ciocche ribelli, e indossò un cappotto di lana grigio. Con una morbida sciarpa bianca si avvolse completamente il volto, eccezion fatta per due strabilianti occhi che avevano la luce degli zaffiri e il riflesso dei fiordalisi bagnati dalla rugiada. Erano cerchiati da occhiaie di stanchezza le quali, lungi dall’ombreggiarne il fuoco, ne esaltavano piuttosto le mille diverse sfumature di blu. Prima di aprire l’uscio, lanciò un’ultima occhiata alla stanza che aveva appena lasciato e al libro che ancora giaceva abbandonato sul pavimento accanto alla poltrona. Tutto era silenzio fuori e dentro di lui e quindi, con un ultimo sospiro, uscì, richiudendosi lievemente la porta alle spalle.
    Le pagine rimasero abbandonate nel buio.

    Egli ha un solo consigliere,
    e non so quanto legittimo
    nella sua pena: se stesso.
    E in se stesso si tiene così schivo,
    così alieno dal lasciarsi scandagliare e scoprire,
    chiuso quanto un bocciolo
    divorato dentro da un insidioso verme,
    prima ancora di aver disciolto all’aria i suoi soavi petali
    a offrirsi al sole in tutta la sua magnificenza.
    Ah, potessimo almeno immaginare
    la fonte di questo suo tormento:
    ché vorremmo non soltanto conoscerlo, ma guarirlo. *




    A Terence Graham Granchester piaceva camminare per le strade di New York quando il resto della città dormiva. In quei pochi momenti la sua solitudine acquisiva un senso di normalità: poteva fingersi uno qualsiasi dei milioni di abitanti di quella metropoli mentre si aggirava per le sue vie, costeggiate dai nuovi imponenti edifici che sorgevano ogni giorno, sfidando la legge di gravità per elevarsi al cielo in una sfida contro i limiti umani. New York era una città in fermento che, quasi senza accorgersene, sotto la spinta dei milioni di uomini e donne che la popolavano, armati dei propri sogni e della propria energia generatrice, stava letteralmente prendendo il volo.
    Terence uscì dal portone del proprio appartamento sulla West Third Street e si avviò, affondando le mani nelle tasche del cappotto per proteggersi dal freddo intenso, mentre la neve continuava a danzare lentamente attorno a lui. Superò Washington Square, girando attorno al suo inconfondibile arco e rivivendo con un brivido l’esaltazione che aveva provato la prima volta che vi era passato attraverso, appena giunto a New York. Quel passaggio gli aveva dato la sensazione di ricevere una sorta di benvenuto da parte di quell’abbagliante città; proprio a lui, diciassettenne già ferito e provato dalla vita ma pieno di speranza per il futuro, che allora riusciva ancora ad immaginare come un libro dalle pagine bianche interamente da riempire. Ma la trama che allora aveva in mente per se stesso era molto diversa da quella che sarebbe poi stata scritta dalla mano del destino.
    Raggiunta Broadway, il giovane si fermò incerto, assaporando il silenzio di una delle strade normalmente più vibranti della città, in quel momento congelata dall’ora antelucana e dalla neve: si sarebbe diretto a sinistra verso la Great White Way, la via dei teatri e delle familiari insegne luminose - che avrebbe potuto declamare una per una senza neanche alzare lo sguardo? O a destra, verso Lower Manhattan e il nucleo storico attorno al quale si era sviluppata la più straordinaria e cosmopolita delle metropoli, verso i suoi ponti e i suoi moli? In realtà non nutriva alcun dubbio e, senza esitazione, voltò a destra, percorrendo Broadway in direzione sud e allontanandosi dal distretto dei teatri.
    Terence era sempre stato una personalità diffidente e incline alla solitudine. Tale attitudine non aveva niente a che vedere con la presunzione (almeno non nel senso in cui di ciò si chiacchierava nel suo ambiente di lavoro) ma era il riflesso di un’infanzia sofferta, di un senso di esclusione maturato in seno alla famiglia paterna, prima, e ai lunghi e solitari anni trascorsi in collegio, poi. Purtroppo nessuno tra coloro che si erano avvicendati nel difficile compito di educarlo aveva posseduto la sensibilità necessaria per squarciare il muro di diffidenza eretto negli anni da quel giovane dall’animo tormentato, e il rifiuto ricevuto da tutti coloro che avrebbero dovuto amarlo e proteggerlo aveva generato in lui un senso di profonda ribellione. Contro il mondo indistintamente e contro il padre particolarmente.
    Ovviamente la forte e autoritaria personalità del genitore, che altri non era se non il duca di Granchester, uno dei più illustri Pari del regno d’Inghilterra, si era rivelata la più inadatta a gestire quel figlio che, sebbene amatissimo, rappresentava ai suoi occhi la tangibile testimonianza dell’unica debolezza cui si fosse mai abbandonato nella vita: quella che aveva generato Terence era stata per il duca la sola deviazione in un percorso prima e dopo interamente consacrato all’onore e alla rispettabilità. Suo figlio era, infatti, il frutto della bruciante passione per una donna non contemplabile quale candidata a un posto nella galleria dei ritratti di famiglia dei Granchester. Un’attrice americana, per l’amor del cielo!
    Terence conosceva a memoria la versione paterna di quella storia. Conosceva ognuna delle spiegazioni che l’augusto genitore si era dato e gli aveva dato negli anni, per averlo strappato all’affetto della madre e costretto a un’infanzia e a un’adolescenza di anaffettività, prima nella nuova rispettabile famiglia e poi tra le mura dell’austera Royal St. Paul School. Di fronte al bivio tra l’affetto e la disciplina, mai alcuno spiraglio di dubbio si era socchiuso per il duca, il quale, a parte il suo rinnegato errore di gioventù, non aveva mai percorso la prima strada, se non nel chiuso del proprio cuore.
    Nei rari momenti di imparzialità nei confronti di colui che lo aveva generato, Terence si sentiva addirittura disposto a comprendere (anche se non a perdonare) la gelida indifferenza con cui il padre aveva educato non solo lui, ma anche i tre fratellastri. Si rendeva conto che tale atteggiamento non era altro che il frutto di secoli di patrimonio genetico tramandatosi di freddo Lord in freddo Lord, fin dai tempi di Guglielmo il Conquistatore.
    No, a rendere deprecabile il Duca, e a farne suonare odioso il nome alle orecchie del suo illegittimo primogenito - ma legittimo erede - erano ben altre motivazioni.
    In un’estate di molti anni addietro, marchiata a fuoco nella sua anima, Terence si era riconciliato con quella madre che in passato si era impegnato lungamente e invano a odiare e aveva tacitato il ruggito del suo cuore verso colei che erroneamente riteneva l’avesse abbandonato. Riavvicinandosi alla donna che gli aveva dato la vita, aveva così potuto constatare quanto le scelte del duca avessero spento in lei ogni anelito di vita e d’amore, se non quello per il figlio adorato. E così, proprio nella stagione più felice della sua vita, Terence aveva giurato a se stesso che mai, mai avrebbe amato come aveva fatto suo padre. Mai avrebbe usato onore e senso del dovere quali stampelle a sostegno del vuoto di un’esistenza priva di amore!
    E invece… Che fine avevano fatto quella determinazione e quella certezza, nel momento in cui avrebbe dovuto convertirle in fatti, quattro anni prima? Proprio nel momento in cui avrebbe potuto affermare la sua diversità dal padre tanto vituperato, Terence Graham era stato vinto da quel Terence Granchester di cui si era sbrigativamente illuso di essersi liberato per sempre, nell’atto di lasciarsene il nome alle spalle.
    Nei momenti di maggiore rabbia, quando il senso della perdita subita e dei torti ricevuti dal destino lo sommergeva fino a soffocarlo, Terence si concedeva persino di provare pietà per quel padre così diverso e così uguale a lui. E per quel patrimonio genetico contro cui si era ribellato per tutta la vita, solo per deporre arrendevolmente le armi ai suoi piedi, in una notte fatale del passato, in un luogo verso il quale i suoi passi adesso lo stavano conducendo inesorabilmente: l’ospedale St Jacob’s. Il luogo in cui il suo destino si era compiuto due volte: la notte in cui aveva permesso che tutto ciò che dava un senso alla sua esistenza lo abbandonasse, voltandogli le spalle su delle scale gelide quanto il suo cuore da allora; e poi la notte di esattamente un anno prima, l’11 novembre del 1917.
    La notte in cui Susanna era morta.

    ________________________________



    New York,
    11 novembre 1917


    Quella sera Robert Hathaway si trovava in teatro, intento a dirigere le prove di quell’Amleto che aveva definitivamente sancito il fulgido ritorno alle scene di Terence Graham, la sua rinascita dal baratro dell’alcol nel quale era precipitato due anni prima, sparendo per mesi da New York senza lasciare alcuna traccia. Hathaway, al suo primo impegno da regista e con una rappresentazione che, prima di quell’allestimento, era stata assente per diversi anni dal cartellone del teatro Stratford, ascoltava rapito il monologo del principe di Danimarca, modulato in una mescolanza di toni stentorei e vellutati dal suo giovane allievo.
    Per vent’anni Robert era stato la stella della compagnia Stratford, fino a quando aveva deciso di abbandonare le scene per passare dietro le quinte e cimentarsi come regista. Quella scelta era stata la consacrazione di una delle più fulgide e brillanti carriere shakespeariane che Broadway ricordasse dai tempi di Edwin Booth, la cui fama quale fratello dell’uomo che aveva sparato al presidente Lincoln ne aveva parzialmente ed ingiustamente oscurato la brillante carriera di eccelso interprete shakespeariano.
    A Hathaway piaceva anche definirsi un pigmalione: amava sopra ogni altra cosa far da mentore alle giovani promesse del teatro, non di rado giocando di azzardo e intuito. Aveva, infatti, raccolto nella sua compagnia alcuni dei giovani più interessanti dell’ambiente teatrale newyorkese degli anni ’10, tra cui una giovane Susanna Marlowe in boccio; ed era stato sempre lui a scommettere su quel diciassettenne bruno che si era presentato alla sua porta nell’inverno del 1913, armato solo dello sguardo più ardente che Robert avesse mai incrociato e di un’edizione consunta e sottolineata molte volte del First Folio shakespeariano. L’allora primo attore della compagnia Stratord era stato il primo a credere nelle potenzialità di quel taciturno ragazzo, maniacalmente dedito all’approfondimento dei suoi personaggi, e a intravedere in lui l’esplosività di un talento senza precedenti che, come una bomba a orologeria, poteva sfociare tanto nella più sfavillante delle carriere di successo quanto nella più cupa autodistruzione.
    E, infatti, il maturo attore non era rimasto sorpreso dall’enorme impressione che il giovane Terence Graham aveva suscitato al suo esordio l’anno successivo, interpretando nel Re Lear un ruolo minore ma bastevole a fargli mettere in ombra interpreti ben più centrali ed esperti di lui.
    Quando Terence aveva declamato, con quella splendida e calda voce dalle mille sfumature che colavano sui sensi degli spettatori come miele fuso, e che il pubblico di Broadway avrebbe presto imparato a riconoscere dalla prima battuta:

    O Dèi, o Dèi, è prodigioso
    come la fredda noncuranza di costoro
    abbia acceso l’amore in me,
    fino all’ardore dell’adorazione.
    La tua figlia reietta, o re,
    che il caso mi getta tra le braccia,
    è regina di me e dei miei sudditi
    e della bella Francia."**



    tutti nel teatro avevano trattenuto il respiro, facendosi completamente trascinare dall’onda creata dai versi melodiosamente declamati. Hathaway, ripresosi dall’incantesimo che l’attore aveva gettato su di lui, al pari di ciascuna delle persone presenti nel teatro, aveva recitato la sua battuta di risposta e capito che in quel preciso momento, su quel palcoscenico, stava assistendo alla nascita di una rara stella nel firmamento shakespeariano.
    Robert aveva accompagnato la parabola di Terence verso la fama e aveva visto l’acerbo attore trasformarsi settimana dopo settimana in un intenso interprete. E il giovane taciturno e un po’ scontroso maturare nell’uomo serio e riservato che era diventato.
    Era stato proprio da uomo dotato di profondo senso dell’onore che il suo pupillo aveva affrontato il dramma dell’incidente e dell’inabilità di Susanna, lanciatasi per spingerlo via da un riflettore che stava precipitando su Terence e così salvandogli la vita, ma perdendo una gamba. E da uomo, con le sue tremendamente umane fragilità, Robert aveva visto il suo allievo precipitare in un abisso di disperazione che ne aveva compromesso la recitazione e decretato l’esilio dal mondo teatrale, nel 1915. Un mondo che sapeva celebrare solo divi in ascesa e non sopportava di confrontarsi con l’umana imperfezione. Robert, sotto le pressioni dei produttori e dei finanziatori della compagnia, aizzati da una sequela di critiche impietose verso quell’ex enfant prodige, adesso frettolosamente congedato quale sopravvalutata meteora nell’universo shakespeariano, aveva dovuto comunicare a Terence la sospensione dalla compagnia, guardandolo dritto negli occhi blu torbidi per i fumi dell’alcol nel quale il giovane stava annegando la propria disperazione.
    E come avrebbe potuto dargli torto? Quale giovane della sua età non sarebbe crollato sotto quell’inconcepibile peso che il destino gli aveva scaraventato addosso senza alcun riguardo?
    Eppure Robert era certo che Terence avrebbe vinto i suoi demoni e ripercorso passo dopo passo a ritroso la sua discesa agli inferi, per tornare a splendere.
    Nessuno aveva mai saputo se Terence avesse trovato solo in se stesso la forza di rialzarsi o se fosse stato sorretto e aiutato da qualcun altro. Forse proprio dalla madre, la grande attrice Eleanor Baker, il cui rapporto con Terence non era più un segreto da quando per lui era arrivata la notorietà. Ma Robert riteneva che un tale influsso, una tale forza, potesse giungere solo da un’altra fonte: dalla ragazza cui una volta Terence aveva accennato, senza farne il nome, ma che certo non poteva essere Susanna.
    No, gli occhi di Terence restavano vuoti quando parlava della fidanzata; non si accendevano di quel fuoco vibrante che invece immediatamente li aveva fatti splendere di mille riflessi blu nel confidargli l’esistenza di una persona, gelosamente custodita tra i ricordi di un passato lontano, che gli aveva dato la spinta e la forza di inseguire i suoi sogni in quella fase della sua giovinezza in cui con pari probabilità poteva diventare tutto, o perdersi nel niente di una sterile ribellione alla vita.
    Quale che fosse stata la ragione, dopo lunghi mesi trascorsi nel proprio inferno personale, del quale non avrebbe mai parlato con nessuno, Terence era tornato alla vita e Robert non aveva esitato a ridargli fiducia, pur facendolo ripartire da ruoli minori. Non per punirlo della sua defezione, ma per preservarlo dalla prematura pressione di un ruolo da protagonista, timoroso che potesse farlo ricadere tra gli artigli della dipendenza dall’alcol. Terence aveva accettato la sfida, grato al suo mentore.
    Il 1916 era così stato per il giovane l’anno della rinascita dal punto di vista professionale, fino all’apoteosi dell’Amleto che continuava a tenere il cartellone a grande richiesta di pubblico e critica ancora a distanza di un anno. In tutti quei mesi, Robert aveva guardato Terence calcare giorno dopo giorno le assi del teatro Stratford, caricando ogni gesto con tutta la rabbia e la frustrazione accumulata in una vita nella quale non si riconosceva più. Paradossalmente, gli unici frammenti di verità erano per l’attore i momenti in cui declamava i versi dei suoi personaggi immaginari, mentre la recita si svolgeva fuori dalle pareti del teatro, nella vita reale. Al fianco, però, della protagonista femminile sbagliata.
    Anche quella sera, dunque, Robert stava operando insieme a Terence le poche limature di cui la sua interpretazione necessitasse, guidandolo mentre incedeva con il passo felino e il fascino magnetico di una tigre che si impadroniva del palcoscenico con la pura forza del suo carisma. Della tigre Terence possedeva la naturale e inconsapevole eleganza. E, come il regale felino, il giovane riusciva a ipnotizzare chiunque ne incrociasse lo sguardo capace di spaziare attraverso le più diverse gradazioni di colore: dal nero della più oscura collera, passando per il blu profondo che esprimeva il suo gelido disprezzo; dal blu - verde della sconfinata tristezza fino al blu zaffiro, che però Robert era riuscito a scorgere solo in quell’unica occasione in cui Terence gli aveva parlato di colei che lo aveva salvato da se stesso. L’andatura e la postura erano quelle di chi dominava lo spazio anziché esserne dominato, e non erano né la sua altezza né la corporatura slanciata a conquistare tutti, ma lo straordinario fascino che emanava dalla sua persona ancor prima che parlasse. Quando però infine lo faceva - sempre con moderazione e centellinando le frasi - la voce sembrava colorarglisi delle stesse multiformi sfumature dei suoi occhi, raccordandosi a loro in perfetta armonia e lanciando su qualsiasi interlocutore un incantesimo impossibile da sciogliere.
    Proprio mentre si abbandonava per l’ennesima volta a tale magia, l’attenzione di Robert fu però turbata dall’eco di un tafferuglio in fondo alla sala. Ansioso di ristabilire la calma che gli avrebbe consentito di tornare a concentrarsi sugli attori e sulle scene, si alzò dal proprio posto al centro della platea e si diresse verso l’origine di tutto quel bailamme.
    Si trattava di un ragazzino di circa dodici anni, pulito ma disordinato come se avesse corso per parecchi isolati, che cercava di forzare la resistenza di due inservienti, i quali lo trattenevano a stento dall’irrompere in platea.
    - Ragazzino, basta così! Ti abbiamo già detto almeno un milione di volte che non è possibile interrompere le prove!
    - Per favore signori, ho un messaggio urgentissimo da riferire… - piagnucolò quasi il ragazzo.
    - Riferiscilo a noi.
    - Mi è stato raccomandato di parlare solo al signor Terence Graham!
    - Che cosa succede? – il tono di Robert Hathaway era esasperato: detestava interrompere le prove.
    - Signore, vengo dall’ospedale St. Jacob’s. Mi hanno mandato a chiamare il Sig. Graham.
    Nell’udire il nome dell’ospedale, Hathaway si mise immediatamente in allarme.
    - Di che si tratta ragazzo? Riferisci a me, sono il regista!
    Il ragazzino rimase in dubbio ancora per qualche momento. Ma il tono autorevole e al contempo rassicurante di Robert, unito al sorriso che lo accompagnava, vinse ogni resistenza. La signora che gli aveva dato l’ambasciata per Graham era tanto alterata e sgarbata, che tornare indietro con un fallimento era un’ipotesi da scartare senza pensarci due volte!
    - Vengo da parte della signora Marlowe, signore – Hathaway fece un sospiro. Proprio come aveva temuto... – La signora desidera che il signor Graham mi segua subito all’ospedale St. Jacob’s. Mi ha detto di riferirvi che la figlia è stata ricoverata un’ora fa.
    "Desidera" non era il termine esatto, pensò però il giovane inserviente che rispondeva al nome di Matt: la signora che lo aveva intercettato in corridoio era in preda ad una vera crisi isterica ed eseguire le sue indicazioni era sembrato soprattutto un buon modo per liberarsi dalla presa con cui gli aveva artigliato le braccia davanti alla camera della figlia.
    Hathaway sgranò gli occhi addolorato. Non era la prima volta che Susanna aveva delle ricadute. Ma gli sembrava che dall’anno precedente, precisamente da quando era stata baciata dal successo nelle sue nuove vesti di autrice teatrale, non se ne fossero più verificate.
    - Parlo io al sig. Graham, figliolo. Lo avverto subito, non temere. Così potrete… anzi, potremo correre subito in ospedale.
    Matt fece un sonoro sospiro di sollievo e si accinse di buon grado ad aspettare nel foyer.
    Hathaway si volse verso il palcoscenico dove Terence, totalmente disconnesso dalla realtà circostante come ogni volta che calcava le scene, sia in prova sia di fronte al pubblico, era in quel momento silenziosamente raccolto e concentrato sulla sfida di far sua ogni sfumatura della contrastante personalità del principe di Danimarca. Robert salì sulle ben note assi di mogano e silenziosamente attese che Terence riaprisse gli occhi.
    Si guardarono per qualche istante, mentre l’affetto di lunga data faceva correre un silenzioso messaggio tra loro.
    - Che cosa è accaduto, Robert? – il primo pensiero di Terence andò alla madre. Dio non volesse le fosse successo qualcosa!
    E poi, inspiegabilmente ma ineluttabilmente, sebbene la ragione gli suggerisse l’impossibilità che Robert gli recasse notizie di lei, davanti ai suoi occhi e al suo cuore presero forma due luminosi occhi verde acqua.
    - Susanna – disse invece Robert.
    - Cosa le è successo? – chiese Terence, mentre la luce verde che aveva acceso il suo mondo per quei pochi istanti si spegneva repentinamente come si era accesa, facendo di nuovo piombare tutto ciò che lo circondava nell’opacità delle sfumature di grigio cui la vita lo aveva condannato negli ultimi anni.
    - Non so molto, solo che è ricoverata all’ospedale St. Jacob’s e che la madre ti ha mandato a chiamare con una certa urgenza.
    Questo poteva significare tutto e niente, considerò Terence: col tempo aveva imparato a proprie spese che gli attacchi di panico e le crisi isteriche della signora Marlowe potevano essere causati indistintamente (e con la medesima teatralità) da un tacco rotto come dalla notizia di un attacco di sommergibili tedeschi direttamente contro le coste di Manhattan.
    - Va bene, Robert. Mi reco subito lì – il tono era rassegnato.
    - Vengo con te – Robert cercò di trasmettergli vicinanza con lo sguardo e con la mano con la quale gli strinse la spalla.
    Aveva imparato a voler bene a quel giovane come a un figlio, e per Terence era lo stesso: il significato che attribuiva alla parola “padre” aveva per lui il volto di quell’uomo al quale doveva tanto, e non la maschera inflessibile dai bellissimi lineamenti scolpiti nel granito del duca di Granchester.
    I due uomini raccolsero rapidamente soprabiti e cappelli dalla poltrona della prima fila su cui erano adagiati e si avviarono a passo veloce verso l’ingresso del teatro, dove Matt li aspettava impaziente, saltellando sugli scalini del teatro.
    - Andiamo ragazzo, sono pronto – gli disse Terence, che aveva sul volto un sorriso stanco che però non arrivava agli occhi, mentre Hathaway fermava un taxi.
    - Grazie a Dio, Mr. Graham! Il cielo lo sa che cosa mi avrebbe fatto la signora Marlowe se non l’avessi trovata!
    A queste parole Matt poté apprezzare un fugace lampo di comprensione passare attraverso quegli occhi blu così intensi.
    - Sì, ragazzo, so perfettamente cosa intendi – gli rispose Terence, prima di spingerlo delicatamente per una spalla e salire dietro di lui sul taxi che si avviò rombando lungo la Broadway, in direzione sud.

    [continua]

    *Romeo e Giulietta, Atto I, Scena I
    **Re Lear, Atto I, Scena I



    n.d.a. Ringrazio fin d'ora tutti coloro che vorranno lasciare un commento o un pensiero su questa Fan Fiction: i vostri feedback sono preziosi. Il topic dove lasciare eventuali commenti è->QUI<-
     
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